A volte è possibile ritrovare, riscoprire o ricostruire tracce di una storia – personale o collettiva – che altrimenti andrebbe perduta nelle pieghe polverose del Tempo. Le vie sono molteplici: un diario riemerso, qualche foto rimasta impigliata tra le pagine di un libro, lampi di testimonianze impreviste… o magari le inaspettate annotazioni in margine alla Bibbia che talvolta ci restituiscono le vicende di qualche isolata comunità.
Potrà sembrar strano, ma la bella stagione giovanile di un fotografo-alpinista come Placido Barbieri ci viene restituita, se non nella sua interezza perlomeno in maniera significativa, dalla meticolosa, sistematica raccolta di vecchie cartoline risalenti agli anni 1937-38, in cui ebbe modo di partecipare ai corsi della Scuola militare di alpinismo di Aosta (insediata al Castello Duca degli Abruzzi). Evidentemente la vita militare, intensamente attiva, non gli permetteva di scattare tutte le foto che avrebbe voluto. Del resto era ancora ventenne, fotograficamente ai primordi. Un’aspirazione la sua che solo in seguito si sarebbe magistralmente concretizzata. Ecco allora la necessità di collezionare immagini, quasi tutte in bianco e nero e ordinate cronologicamente, dei luoghi che andava scoprendo in grigioverde. Cartoline regolarmente spedite ai familiari (con la tassativa consegna di conservarle religiosamente, per quando sarebbe rientrato a Vicenza), scritte fitto fitto sul retro, in modo da dare il maggior numero possibile di informazioni e notizie. E quindi permetterci, a ottanta anni di distanza, di ripercorrere i suoi tragitti, le sue marce e arrampicate, condividerne ideali e aspirazioni. Quasi un diario, testo e immagini. Per certi aspetti mi ha ricordato il diario di Ettore Castiglioni (pubblicato nel 1993 e recentemente ristampato da Hoepli: Il giorno delle Mésules – Diari di un alpinista antifascista), soprattutto per la medesima scrittura: minuta, fitta, senza sbavature. E per lo stesso amore incondizionato per la Montagna, sinonimo di Libertà soprattutto interiore.
Altra coincidenza. Barbieri ha poi ben conosciuto – e fotografato – Bruno Detassis, la grande guida alpina delle Dolomiti di Brenta, storico compagno di cordata di Castiglioni (vedi la Castiglioni-Detassis sulla Pala del Rifugio – Pale di san Martino).
C’è forse un’altra considerazione da fare. Valida, oltre che – ca va sans dire – per le foto significative realizzate successivamente da Barbieri, anche per queste cartoline d’epoca. Oggi la tecnologia consente di scattare migliaia di foto, per lo più insignificanti. In un passato forse ormai remoto, la forza espressiva delle immagini, comunque selezionate già in fase di realizzazione, conservava invece una sua potenza attualmente inimmaginabile, immersi come siamo nella quotidiana banalità di selfie e affini. Fine della doverosa considerazione.
Ci si avvia con una cartolina di “sport invernali” (un balzo di sciatore con sullo sfondo il Cervino) inviata allo zio Nando il 28 maggio 1937 per il suo onomastico. Racconta di una “passeggiata di 20 chilometri con un bel sole di sudore”. Ovviamente con “zaino, mantella e armamento”. Si transita quindi nelle due immagini successive: al Dente del Gigante ripreso dal Colle (Courmayer) e all’immagine severa del Monte Bianco immortalato da sud. La prima (2 giugno ‘37) è per il fratello Mario, l’altra ancora per lo zio Nando.
A Mario confida che per il 15 giugno è prevista la partenza per il Gran Paradiso, mentre allo zio descrive l’immagine del Bianco spiegando che il loro accampamento è posto a solo un centinaio di metri da dove è stata ripresa. E commenta: “Questo è il nostro panorama abituale!”. Lo informa quindi sulle foto da lui scattate durante alcune solitarie escursioni e che invierà a casa, rassicurando comunque i parenti. “Sulla mia tenda”, spiega, risentendo forse del clima ancora vagamente dannunziano dell’epoca, “ho scritto Memento audere semper”.
Il 5 giugno spedisce a Roberto, l’altro fratello (con gli auguri per onomastico e compleanno) una maestosa panoramica delle Grandes Jorasses riprese da Pampaillères. Lo informa che “il 17 di questo mese saremo già in Val Caravanche in rotta per il Paradiso”. Ma soprattutto racconta dell’incontro, il giorno precedente, con gli accademici venuti ad Aosta per istruire e addestrare i giovani aspiranti alpinisti. Con molti di loro Placido condividerà arrampicate e ascensioni: nel corso degli anni questa prima conoscenza in qualche caso (vedi Gino Soldà) evolverà in amicizia. “Ora”, dichiara con evidente orgoglio, “sono già in alto”.
Fra i nomi citati nella cartolina (a questo punto un reperto storico, senza quasi): il sergente Chiara (racconta Placido che in quei giorni affrontò insieme a Sandri la Noire de Peuterey), Raffaele Carlesso, Renato Chabod, Gino Soldà, Bortolo Sandri, Giusto Gervasutti, Fabbian (vedi la storica via Comici-Fabbian sulla Sorella di Mezzo nel Sorapiss, 1929, considerata la prima di VI grado).
Rilevante, va detto, la componente vicentina degli istruttori. A tale proposito riporto un’ipotesi formulata tanti anni dopo (negli “ottanta” durante una conversazione amichevole in casa di Placido Barbieri) da Gino Soldà. A suo parere chi si era “fatto le ossa” arrampicando sulle Piccole Dolomiti (dalla roccia friabile, con l’infida tendenza a staccarsi degli appigli che quindi andavano regolarmente “saggiati” prima di affidarsi) era poi in grado di affrontare con sicurezza le Dolomiti propriamente dette. Tanto più il granito delle Occidentali (la famosa “aderenza”). Ma non viceversa.
E ricordo anche che Renato Casarotto, altro figlio nobile dell’alpinismo vicentino e delle Piccole Dolomiti (Placido lo aveva incontrato prima dell’ultima spedizione), era stato uno dei pochi a poter competere con gli autoctoni durante un corso-roccia in Gran Bretagna su pareti dove (diversamente da quanto avviene, per esempio, a Lumignano per colpa dei free climber) l’uso dei chiodi era rigorosamente vietato.
Torniamo a Placido. Il 15 giugno invia al fratello Mario un primo piano del Dente del Gigante dalla cresta di Rochefort. Il 20 luglio (Capanna Gamba con il Monte Bianco sullo sfondo) informa i familiari che il suo reparto è attendato a La Vochey “un po’ più in la delle Grandes Jorasses. Dalle 7 alle 11 zaino affardellato e marcia veloce”. Il giovane evidentemente ora si trova nel suo ambiente, quello più congeniale. L’alta montagna a cui si era scrupolosamente preparato con l’intenso allenamento in palestra di roccia (“in Gogna, ma quella di prima della guerra, dove in seguito venne realizzato un deposito di legname” mi aveva precisato) e con ascensioni e arrampicate nelle Piccole Dolomiti. In più “durante queste manovre mi tocca fare il corriere e ogni giorno venire a Courmayeur, 2 ore per venire, 2 e mezzo per tornare”.
Allo zio Nando scrive ancora il 26 luglio (didascalia dell’immagine: “i vasti campi di neve del Piccolo S. Bernardo”) e si rammarica perché dal 23 “non ho potuto mai muovermi causa il tempo orribile”. Evoca i nubifragi notturni stoicamente sopportati rintanato nella tenda, ma anche l’impegnativa traversata La Vochey – Lago Verney del 22-23 luglio 1937. Partenza notturna “con una luna stupenda”. E ovviamente “zaino affardellato, fucile, picozza”. Si percorre a passo di marcia una mulattiera con dieci minuti di sosta ogni ora. Dopo sette ore di cammino “ci si inerpica scavalcando due colli sui 3000 metri, poi un’infinità di alture, ghiaccio, neve, roccia”. Par quasi di intravedere in tali descrizioni le mirabili fotografie che in anni successivi Placido realizzerà sui nostri Pasubio, Carega, Sengio Alto… Immagini da cui traspare una visione nobile della Montagna: potente, essenziale e austera. Segno inequivocabile di quanto avesse interiorizzato lo spirito delle Alpi Occidentali cogliendone riflessi universali. Per riproporli, cercando la giusta angolazione e inquadratura, anche tra le nostre vette, forse meno eccelse ma non meno impervie, incombenti e talvolta selvagge.
E come nel “suo” Baffelan risuonano echi del Cervino, così seppe ritrovare (quando la luce era quella “giusta”, possibilmente radente) i segni dell’erosione atmosferica, riconoscere nel tormentato “tessuto” calcareo florilegi e abrasioni che aveva già osservato sulle rocce cirenaiche. “Certi paesaggi in Libia”, mi disse, “mi ricordavano Lumignano…”.
Il 27 luglio regala ai familiari la veduta primordiale (da non sfigurare nella Creazione di Ernst Haas) della spumeggiante cascata del Rutor sopra La Thuile. Il giorno dopo, il 28: “Rifugio Santa Margherita al Rutor e Grande Assaly”, con veduta dei vasti ghiacciai e qualche masso erratico. Spiegando a Nando che “le nostre tende sono un po’ sotto al rifugio e la mia vicina a quel sassone”. Un accenno alle marce e al conseguente male ai piedi, ma soprattutto la raccomandazione di “tenermi tutte le cartoline che ti spedisco” in quanto “sono un po’ del mio viaggio”.
Con il senno di poi, anche del nostro. Osservandole, leggendo quanto scriveva, ci ha regalato l’opportunità di partecipare alle sue scoperte, immaginare quei paesaggi incredibili e, all’epoca almeno, incontaminati.
In agosto: Valgrisanche e poi l’Alta Valle di Rhéme con una visione de “La Granta Parei” (Gran Parete) che proprio non sfigurerebbe rispetto a El Capitan (quello di Yosemite).
Raccomandazioni a Mario (“mettiti a fare il serio ormai!!”) un leggero disappunto per la resa di alcune sue foto. Avevano, racconta il 10, “scavalcato il Ruitor” arrivando in Valgrisanche definita impietosamente “miserabile stretta brulla con un unico negozio che vende di tutto meno quello che occorre”. Passata la notte a 2800 metri con il corollario di “averci sorbito da mezzanotte alle cinque ininterrotta pioggia con le orecchie tese per sentire il nemico – si era in manovra e dovevamo essere attaccati”. Poi, passando per la “finestra di They” erano approdati in Alta Valle di Rheme.
Sempre in agosto (14 e 16) spedisce la Cresta e vetta del Ruitor e altra, pittoresca immagine della Thuile con ghiacciaio Ruitor (così chiamato all’epoca, oggi Rutor) e Grande Assaly (Grande Sorbo in valdostano, forse). Scrive di essere rientrato nel tardo pomeriggio del giorno prima in Valgrisanche. Erano partiti il 12 prendendo ancora pioggia e accampandosi. Il passo Bassac, immerso nelle nebbie, veniva raggiunto il mattino del 13, sommersi da un ambiente primordiale di “roccia, ghiaccio, neve, nevischio” fino al Rifugio Mario Borgi. E poi un veloce rientro.
Ma non c’è tempo per fermarsi a scrivere, riflettere. È infatti prevista un’altra impegnativa escursione: “carichi di viveri per 3 giorni e mezzo partiremo per la fine manovra sul Ruitor”.
E poi un frammento di Storia dell’alpinismo vicentino: “L’altro giorno Sandri da Valdagno ha compiuto una ultr’arditissima [sic] scalata sul Bianco”. Peccato non ci abbia fornito ulteriori informazioni. Ricordo che soltanto un anno dopo (giugno 1938) Bortolo Sandri conquistava tragicamente, insieme al compagno di cordata Mario Menti – un altro valdagnese – un posto d’onore tra le vittime della Nord dell’Eiger.
Il 16 agosto 1937 Placido scriveva concisamente: “Ieri sveglia alle 3, partenza alle 4 con tempo non troppo bello – nevica sul ghiacciaio, tormenta – si arriva al Colle (m 3400) alle 10 e trenta e si prosegue con vento sempre gelido, si arriva al Rifugio … [illeggibile] alle sei e si dorme senza tende, senza paglia con un telo sotto e un telo sopra avvoltolati tra coperte e mantellina”. Per concludere stoicamente: “oggi si continua – Baci P.”
(continua)
Qualche notizia sugli alpinisti citati nell’articolo
Bruno Detassis: il suo nome è indissolubilmente associato alle Dolomiti di Brenta, le montagne dove aprì la maggior parte delle sue vie. Nel 1935, con Enrico Giordani, risalì la parete NE del Crozzon di Brenta, una via poi classificata di VI (lunga 800 metri e conosciuta come “Via delle Guide”), considerata la più dura del Brenta fino agli anni quaranta. Sempre con Giordani, risalì la parete SO del Croz dell’Altissimo (V+). Molte imprese lo videro in cordata con Ettore Castiglioni come nel 1933 alla diretta sulla parete NE della Cima Tosa e sullo spigolo SE Del Sass Maor (classificato come VI). Da ricordare anche la Castiglioni-De Tassis sullo spigolo nord-ovest della Pala del Rifugio (Val Canali) aperta il 18 luglio 1934.
Autore di guide alpinistiche da cui emerge, come sta scritto nel libro per il Centenario del CAI: “una profonda conoscenza spirituale della montagna”.
Raffaele Carlesso: acquistò una discreta fama – peraltro meritata – nel mondo alpinistico nel 1934 aprendo assieme a Bortolo Sandri una via molto impegnativa sulla parete sud della Torre Trieste.
Rimase a lungo uno degli itinerari misti (libera e artificiale) più duri delle Dolomiti, classificato come una via di VI+ (venne poi superato con l’apertura della via sulla parete sud della Marmolada di Penia). Nel luglio del 1936 Carlesso risalì, insieme a Mario Menti (ma stando ad altre versioni il compagno di cordata sarebbe stato ancora Bortolo Sandri), la parete NO della Torre di Valgrande (con difficoltà di VI e di A2). Per completare i 400 metri di arrampicata impiegarono tre giorni e utilizzarono 40 chiodi.
Renato Chabod: conosciuto, oltre che per le sue imprese alpinistiche, anche per i suoi disegni e alcune polemiche (in merito all’ignoranza diffusa – a suo avviso – nel mondo alpinistico, sia in materia di tecniche sia di valutazione delle difficoltà). Risaliva al 1930 la sua prima ascensione con Amilcare Crétier (destinato a perire nel 1933 sul Cervino) e Luigi Bon alla parete nord del Gran Paradiso. Sempre nel 1933, risalì con Aimé Grivel la parete nord dell’Aiguille Blanche de Peuterey. Fu amico e compagno di cordata anche di un altro grande alpinista, il torinese Gabriele Boccalatte.
Gino Soldà: guida e maestro di sci, era nato a Valdagno nel 1907. Tra le sue innumerevoli imprese alpinistiche la terza ripetizione (nel 1936, con Franco Bertoldi) della via Cassin-Ratti, lunga mille metri, sulla parete nord del Sassolungo in sole 23 ore e usando 50 chiodi. Instancabile, due giorni dopo risaliva con Umberto Conforto, in quasi due giorni (37 ore effettive), la SO della Marmolada di Penia (550 metri).
Durante la Resistenza (nome di battaglia “comandante Paolo”) aveva collaborato con Torquato Fraccon. Da segnalare che Gino continuò ad arrampicare aprendo nuove vie anche in età più avanzata (vedi nel 1947 la via alla Gola Sud del Piz Ciavazes che dovette attendere ben 15 anni per una prima ripetizione). Come è noto partecipò anche alla spedizione italiana del 1954 sul K2 insieme a Lino Lacedelli, Achille Compagnoni, Amir Mahdi, Walter Bonatti, Ardito Desio.
Bortolo Sandri: giungendo alla Scuola Alpina di Aosta aveva già al suo attivo numerose aperture di nuove vie con passaggi di VI. Oltre alle più note vie sul Civetta (vedi alla parete sud della Torre Trieste con Carlesso), numerose anche quelle sulle nostrane Piccole Dolomiti: via Carlesso sulla parete est del Baffelan (V grado); spigolo sud del Torrione Recoaro (Monte Obante, V grado); Soglio dell’Inferno (M. Obante VI grado); ancora sul Torrione Recoaro, parete ovest, V grado; direttissima della Sisilla (Campogrosso), VI grado…
Nelle Alpi Occidentali ebbe modo di ripetere numerose vie di ghiaccio come quella delle Grandes Jorasses e di tracciare un nuovo percorso sulla parete sud-est dell’Aiguille Noire de Peuterey. Da queste sue esperienze nelle Alpi Occidentali trasse presumibilmente la convinzione di potersi confrontare anche con l’Eiger, la “Montagna maledetta”, dove perì durante un tentativo con Mario Menti nel giugno del 1938.
Giusto Gervasutti: nato nel 1909, negli anni trenta realizzò la ripetizione delle vie maggiormente difficili in Dolomiti (vedi nel 1932 la Solleder al Sass Maor). Fu tra i primi a importare nelle Alpi Occidentali le tecniche dolomitiche di arrampicata. Tra le sue imprese, la ripetizione in invernale di una impegnativa via di misto (roccia e ghiaccio) alla cresta di Furggen sul Cervino. Sua anche la prima ripetizione della Cresta Sud della Aiguille Noire di Peutèrey con Piero Zanetti (1933).
Nel 1934, con Renato Chabod, realizzò una via sul versante est del Mont Blanc du Tacul. Sempre nel 1934, con Lucien Devies, superò gli oltre mille metri dell’Olan.
Risale invece al 1935 la sua seconda risalita dello sperone Croz (ancora con Chabod) e la prima salita dello spigolo SE Del Pic Gaspard (ancora con Devies). Va sottolineato come su tutte queste vie – comunque superiori ai mille metri di sviluppo – vi siano numerosi passaggi di V e VI.
Nel 1936, risale con Gabriele Boccalatte la parete SO della Punta Gugliermina.
Nel 1940, con Paolo Bollini, conquista il pilastro di destra del Freney (versante meridionale del Monte Bianco). A due giorni di distanza apre con Giuseppe Gagliardone una delle sue vie tecnicamente più dure: la parete est della Punta Walker (Grandes Jorasses).
Perse la vita nel 1946, durante un tentativo al Pilastro Centrale (versante NE Del Mont Blanc de Tacul) ora Pilastro Gervasutti.