Nel folklore biellese, vicino al torrente Elf ballano le fate coi piedi d’oca, ma a poca distanza vi sono anche altre figure magiche, fantastiche e fuor del comune come l’elfo volenteroso che avrebbe lavorato per anni nel vecchio mulino di Bagneri. 1)
Nel leggendario popolare della val dl’Elf c’è un singolare affollamento di figure fantastiche di appartenenti al “piccolo popolo”, e si favoleggia sui piccoli carchèt, esseri fatati con zampe d’anatra che si riuniscono nei loro convegni notturni; sui piccoli ghignarèi, allegri e giocherelloni; sugli “orchetti” e soprattutto sul beffardo spitascé della stirpe dei nani dispettosi.
Proprio nella magica vai dl’Elf s’intrecciano o s’affiancano e talvolta si sovrappongono i racconti fantastici su esseri venuti da lontano, con gli arti deformi, di piccola statura, custodi di tesori nascosti, padroni dei segreti dell’arte casearia, eremiti e refrattari alla società urbana.
E poi, appunto, c’é anche l’elfo mugnaio.
Il suo regno sarebbe stato il Molin ‘d Bagneri, una baracca semidiroccata costruita vicino all’impetuoso rio Janka, accanto a una cascata affascinante creata dal torrente proprio dove inizia la parte più ripida dell’antica mulattiera che, partendo dallo stradone per il santuario di Graja, sale verso la frazione alpina di Muzzano.
Proprio lì, il piccolo gnomo sgobbone, senza chiedere alcun compenso, con buona volontà e voglia di lavorare, avrebbe fatto funzionare per ore e ore la macina per ricavare la farina dal granturco e quella dalle castagne.
Come e perché l’elfo si fosse stabilito nel mulino non è dato sapere.
C’era arrivato dopo la morte del vecchio mugnaio e s’era installato nel piccolo edificio, cominciando con grande lena e impegno nel suo nuovo lavoro, e si ricorda soltanto che quand’era stato avvistato per la prima volta era malvestito di stracci, tutti sporchi e strappati.
La sua attività era stata subito apprezzata dalla gente del posto, sicché tutte le donne di Bagneri e delle borgate di Castagnèj e del Munfun avevano deciso di ricompensarlo, confezionandogli un bel vestitino nuovo ed elegante. Quando glielo portarono, dovettero però assistere a un’inattesa trasformazione poiché l’elfo era rimasto talmente contento del dono che aveva abbandonato il lavoro e s’era messo a danzare ore e ore accanto alla lama formata dalla Janka, proprio vicino al mulino dove non voleva più entrare per non sporcare e infarinare il suo bell’abito elegante.
Gli alpigiani, sorpresi e anche un po’ arrabbiati, finirono per protestare per il suo abbandono del lavoro, ma lo gnomo indispettito reagì male ai rimproveri e abbandonò per sempre il mulin dla Janka che, per colmo di sfortuna, doveva finire distrutto negli anni Venti da un’improvvisa e devastante piena del torrente.
Oggi fra Serra e val dl’Elf resta in piedi solo il Molin la Sarèja, che si trova sotto Netro dove sfrutta le acque dell’Ingagna. Ristrutturato, è meta di visite didattiche guidate e ha assunto il nome di Cerea, come la frazione che si trova lì vicino. Ma questo toponimo è impreciso: Sarèja in lingua piemontese è la Satureja montana, in italiano “santoreggia”, una pianta perenne aromatica delle Lamiacee, molto diffusa proprio in quella zona e ben nota alla medicina popolare per gli infusi che aiutano la digestione.
Anche il territorio sotto Bagneri ha conosciuto una devastante colonizzazione linguistica della toponomastica locale: il cantone Munfun è stato rozzamente italianizzato in “Monte Pennone”, il rial Cundèr è diventato, chissà perché, “Rio Lantero” (sic!), e anche la borgata Castagnej non è sfuggita a questa normalizzazione essendo definita soltanto “Castagneti”. Un nome simile, ma non lo stesso.
Vicino alla Janka non ci sono più tracce del mulino e nessuno si ricorda dell’elfo lavoratore.
Anche i resti del mulino lungo il rio Viòna sono spettrali e cadenti, ma in un lontano passato il grande edificio era la casa e il luogo di lavoro d’una numerosa colonia di elfi.
Il mulino che si trova sotto il bosco della Morra, poco oltre la frazione Piaggerà, sfruttava l’energia prodotta dalle acque impetuose d’un torrente che nel suo ultimo tratto prima di unirsi all’Ingagna e poi confluire nell’Elf scorre parallelo alla trafficata arteria provinciale 419 da Mongrando a Settimo Vittone. Oggi è del tutto abbandonato, e la strada che vi conduceva è ormai impraticabile e ostruita dai rovi, ma nella notte dei tempi della fantasia era percorsa da decine di carri che portavano al grande edificio dove gli elfi attivi e operosi macinavano senza sosta le farine degli abitanti di Sala, della Lace e di Mongrando.
Operosi e intraprendenti, gli gnomi vivevano felici e sereni e la loro esistenza era appagata anche dalla presenza di alcune fate del bosco che vivevano in una graziosa casetta posta poco oltre il mulino, sull’altra riva del torrente, allevando caprette e conoscendo tutti i segreti della lavorazione del latte. Allo spuntar della luna, le allegre fatine iniziavano a ballare e cantare e organizzavano feste e banchetti, invitando sempre ai loro trattenimenti gli elfi mugnai.
Tutto andava bene nell’armonia della natura e nella fraternità di esseri magici e fatati, finché un brutto giorno proprio gli elfi che erano andati d’amore e d’accordo per anni avevano iniziato a litigare e ad accapigliarsi a ogni piè sospinto. Si erano tutti innamorati delle fate danzatrici e se ne contendevano le grazie, vedendo negli altri gnomi non più fratelli ma pericolosi concorrenti e avversari, e le baruffe si accendevano per ogni pretesto.
Rotto l’equilibrio, anche il lavoro era andato a rotoli. Pian piano venivano trascurate le richieste dei contadini e nessuno dava più lavoro al mulino, finché gli elfi erano stati costretti ad andarsene lontano, ognuno per proprio conto, infelici, malinconici e desolati anche perché nessuno di loro era riuscito a conquistare il cuore delle fate.
Rimaste sole, le giovinette figlie della magia avevano pensato d’invitare ai loro festini i contadini delle Vignazze, di San Michele e San Lorenzo.
Una sera mentre si esibiva in una danza scatenata, una delle fate era caduta e le si erano alzate le lunghe vesti che la coprivano fino ai piedi, che si rivelarono degli arti deformi, come quelli delle oche. Scoperto il segreto, i paesani di Mongrando avevano costretto le povere fate ad abbandonare la loro casetta sul rio Viòna e l’incanto d’un mondo di allegria, di operosità e d’amicizia s’era rotto per sempre.
Il mulino degli elfi è oggi un mucchio di sassi coperti dai rovi e abitati soltanto dai serpi; le vecchie macine si ricoprono di muschio e l’acqua che scorre sempre impetuosa non muove più nessuna ruota.
Passata di mano, la casetta delle fate c’è ancora, è stata restaurata e a metà Ottocento sulla sua facciata è stata dipinta una bella meridiana. Ma il mondo degli elfi e delle fate è ormai perduto.
N O T E
1) Elf è il nome originale del torrente e dell’omonima valle, ma il suo nome ufficiale italiano è Elvo [NdR].