È fresca di stampa la pubblicazione del testo cardine dell’indipendentismo La Sicilia ai Siciliani, scritto nel 1942 dal professor Antonio Canepa con il nome di battaglia di “Mario Turri”. Credo di essere stato tra i primi a documentare le spericolate avventure giovanili di un personaggio straordinario come Canepa: nel 1995, nei primi numeri di “Storia Ribelle”, scrissi un articolo sul suo audace e fallito tentativo di colpo di stato a San Marino nel 1933, e un altro sulla fondazione del Partito dei Lavoratori a Firenze nel 1944.
Ma questa era soltanto la tempestosa infanzia d’un condottiero, poiché l’inquieto studioso doveva successivamente passare alla storia soprattutto come fondatore e capo indiscusso dell’“Esercito Volontario per l’Indipendenza Siciliana”, della cui lotta l’opuscolo ora ristampato era la sintesi ideale: una lotta che trovava grande sostegno popolare, considerato – come ben ricorda Maurizio Castagna nella prefazione – che all’epoca gli indipendentisti della Trinacria potevano contare nell’isola su 500.000 iscritti, “molti di più di quanti ne fossero iscritti, complessivamente, a tutti gli altri partiti del fronte antifascista”.
Com’è noto, Canepa venne ucciso in un conflitto a fuoco con una pattuglia di carabinieri che lo intercettò la notte del 17 giugno 1955 a Randazzo, in località Murazzu Ruttu, mentre su un furgoncino tornava da un’azione di autofinanziamento del movimento separatista con cinque giovani compagni. Mentre due di loro riuscivano a fuggire, Canepa e due guerriglieri perirono sotto i colpi di pistola mitragliatrice e un altro rimase ferito. Quest’ultimo, creduto morto, venne anch’egli rinchiuso in una bara finché un necroforo si accorse che respirava e, schiodata la cassa, gli salvò la vita.
Molti studiosi sono concordi nell’affermare che l’agguato della Benemerita non fu casuale ma provocato da una delazione: essi puntano il dito soprattutto sui servizi segreti d’una Gran Bretagna che in un primo tempo aveva sostenuto gli indipendentisti, ma poi li aveva abbandonati al proprio destino quando si convinse che avevano perso la partita.
Altri ricercatori pensano che le posizioni socialmente avanzate di Canepa dessero fastidio ai settori conservatori del movimento separatista, i quali avrebbero tramato per farlo cadere in una trappola, eliminando una figura scomoda e carismatica. Personalmente, non dimenticherei che il potente senatore del Partito Comunista Italiano, Edoardo D’Onofrio, ha a suo tempo dichiarato per iscritto che i togliattiani consideravano Canepa uno di loro, ma avevano cominciato a guardarlo con sospetto e timore scoprendo la sua militanza separatista che poteva mettere in ombra l’organizzazione stalinista.
Sia come sia, eliminato “Mario Turri”, il separatismo siciliano perse di mordente, ripiegò sulla lotta elettoralistica e tornò a un’efficace pratica militare e di guerriglia soltanto con Turiddu Giuliano, quando l’occasione storica della Sicilia era ormai andata perduta e si doveva abbandonare il sogno di quell’isola “pacifica, laboriosa, ricca, felice, senza tiranni e senza sfruttatori” auspicata da Canepa proprio nell’opuscolo La Sicilia ai Siciliani, testè riedito.
Per quel che ne so, il testo di “Mario Turri” era già stato pubblicato nel 1987 a cura di Nicola Trupia dalle edizioni palermitane Il Foglio, e nel 1990 in appendice al bel libro L’esercito della lupara del direttore di “Maquis”, Filippo Gaja. È soltanto un dettaglio minore, ma va tuttavia segnalato che, sia pure soltanto in parti marginali e secondarie, il testo riportato da Gaja – a suo dire quello “pubblicato clandestinamente in capitoli staccati a Catania” – è parzialmente difforme da quello dato oggi alle stampe.
Tuttavia, il convincente testo sicilianista di Canepa resta un documento basilare della cultura indipendentista, accanto al manifesto federalista di Ventotene e al programma autonomista alpino di Chivasso. È una pietra miliare che, come opportunamente sottolinea Castagna, riafferma il sacrosanto diritto all’autodeterminazione delle nazioni oggi ancora senza Stato.