A forza di leggere anatemi del nostro Gianni Sartori contro la distruzione ecologica del Veneto, è venuta voglia anche a me di denunciare qualche scempio, ma dedicandomi in particolare alla Toscana. Sartori, veneto purosangue, è manifestamente convinto che i suoi connazionali inseguano il denaro a ogni costo, sottoponendo il territorio alla violenza di capannoni, sversamenti velenosi, discariche abusive, attività venatorie, monocolture di prosecco, ponti, svincoli e compagnia bella. Difficile dargli torto, anche se va notato come nell’“altra” Padania, quella gallica, le cose non vadano meglio.
Ciò che effettivamente colpisce a prima vista di queste regioni è l’incapacità di pianificare le costruzioni, di radunare l’edilizia industriale in apposite zone come avviene in Francia. I maledetti capannoni sorgono come funghi dove capita, ma non vengono mai abbattuti, neanche quando cascano a pezzi. Poi ne trovi una fila con su scritto “vendesi” o “affittasi”, perché, diamine, c’è la crisi, mentre di fianco ne stanno costruendo di nuovi. E ti chiedi dove abbiano il cervello i sindaci coinvolti.
Sotto sotto, nelle sacrosante denunce di Sartori, avverti tuttavia uno spiffero polemico nei confronti dell’amministrazione regionale – Zaia, la Lega – opposta agli ambientalisti locali che cercano di difendere il patrimonio naturale. Ebbene, oltre a rilevare che un bel po’ di città venete sono in mano alla sinistra, non scordiamoci che le regioni padane nel complesso hanno avuto governatori “progressisti” (ora ne è rimasto uno) e non è mai cambiato nulla. Ci toccherà ammettere che al di sopra della linea LaSpezia-Senigallia l’amore per il territorio si è estinto da un pezzo.
Nel Granducato
In Toscana le cose vanno meglio? Probabilmente, nì. E non certo per il momentaneo (sempre più momentaneo) colore dell’amministrazione regionale. Il governo di Firenze ne ha fatte più che Bertoldo nelle plaghe che i granduchi avevano trasformato in una sorta di capolavoro. I meravigliosi dintorni di Firenze gareggiano ora con Sesto San Giovanni e Cinisello. La Costa degli Etruschi è diventata un tripudio di villette ripugnanti. Il tutto con l’enorme presa in giro di una classe politica che fa finta di essere ambientalista e green, ma se non la fermi ti trasforma Pienza in una discarica di rifiuti prima e di scorie nucleari dopo (aggressioni per fortuna neutralizzate).
Non ho mai dimenticato un episodio che mi occorse negli anni ’90. Per una rivista mensile, stavo visitando un certo numero di feste dell’Unità in tutta Italia all’epoca della famosa “svolta”, e capitai in quella di Riotorto, un paesino collinare che pur completamente staccato da Piombino ne è un rione. Siamo quindi quasi in Maremma. Tra Riotorto e il mare c’è una fascia di macchia con preziosi acquitrini, oggi gestiti in parte dal wwf, e infine una spiaggia interminabile e allora selvaggia.
Passeggiando, tuttavia, avevo visto sorgere vicino al mare una serie preoccupante di costruzioni, una sorta di villaggio. Alla festa comunista incontrai il responsabile amministrativo della frazione e gli chiesi come diavolo venisse in mente a qualcuno di edificare in una fascia di alto valore naturalistico (lungo la quale, sia detto per inciso, passavano già la via Aurelia vecchia e la ferrovia tra Genova e Roma, seguite in breve tempo dalla seconda via Aurelia, quella e due carreggiate e inevitabili svincoli, cui si sarebbe poi dovuta aggiungere quella immane idiozia che era l’autostrada Livorno-Civitavecchia: che grazie a Dio per ora nessuno ha fatto, accontentandosi della superstrada deserta).
Armato di sacro e biodiverso furore, il compagno funzionario mi giurò che si trattava di qualche microcasetta per il tempo libero degli operai piombinesi, nulla più. L’anno dopo, la piccola oasi dopolavoristica si era trasformata in un abitato con un centinaio di villozze, pizzeria, residence, aquapark, e una serie di baracche succhiasangue lungo la vicina spiaggia per accogliere i bagnanti.
Aggiungo che se qualcuno non congeda l’attuale giunta regionale, questi hanno in mente di distruggere uno dei posti più belli della Toscana, l’Alpe della Luna in Valtiberina, con una sfilza di pale eoliche (sono quella roba che se non c’è vento non funzionano, tanto per chiarire).
Ma comunque, sì, in effetti la Toscana si è comportata meglio della Padania nei confronti della propria estetica, e non penso abbia a che fare con la politica ma con l’etnia. Sarebbe troppo lungo ricostruire le possibili caratteristiche storiche e culturali che hanno determinato in questo popolo un senso del bello più sviluppato, ma è indubbio che qui è nata l’arte rinascimentale e, nei secoli successivi, una programmazione territoriale e architettonica che ha fuso paesaggi e abitati in una sinfonia che continua ad attirare appassionati da tutto il mondo (finché funziona).
Anche negli ultimi decenni di barbarie un minimo di rispetto è rimasto. Lo si nota abbastanza bene nell’attraversare il confine con l’Umbria: come è noto, anche questa regione ha fior di borghi antichi, similmente conservati, ma tutto ciò che è moderno appare parecchio più brutto e raffazzonato rispetto alla Toscana. In pratica, anche senza la mappa in mano, ti rendi conto che sei passato dalla Toscana in Umbria quando l’estetica peggiora.
La pientizzazione
Proprio perché la Toscana è così bella, gli scempi risultano più clamorosi e irritanti. Da tempo si parla di un fenomeno chiamato “pientizzazione”, il quale inizialmente ha preso spunto dalla trasformazione della cittadina senese di Pienza in un parco giochi per turisti, dove tutto diventa finto e dove gli abitanti non hanno più spazio – fisico, economico, culturale – se non si dedicano alla nuova attività. In seguito il termine ha abbracciato anche il mutamento del territorio circostante, letteralmente costruito da secoli di agricoltura mirata e da insediamenti a essa legati. A parte il generico abbandono della terra, peraltro più incisivo in zone montane e forestali, nelle zone collinari della Toscana sono cambiati i principali tipi di coltivazione, ma soprattutto molti appezzamenti attorno a casali e fattorie sono passati insieme alle suddette abitazioni nelle mani di forestieri. Tutta (o quasi) gente che ama il posto, intendiamoci, ma che non ha un motivo al mondo per mantenere terrazzamenti, campi, alberaie e canali come i precedenti contadini. Per non parlare della costellazione di piscine a sfioro che si vede dalle foto aeree.
Il fatto è che un certo tipo di Toscana, dalla val d’Orcia al Chianti, dalle Crete alla Valdichiana, è rinomato – e quindi visitato – grazie a un’estetica paesaggistica costruita nei secoli dalle attività umane, e se le suddette attività umane scompaiono, scompare anche la scenografia. Al centro di campi che stanno cambiando forma e colori, degli inconfondibili casali restano (se va bene) soltanto i gusci, mentre gli interni secolari vengono snaturati come avviene quando le banche mettono le mani sugli antichi palazzi nobiliari delle città e li sventrano. Quanto alle “fattorie” superstiti, finiscono trasformate in agriturismi, sottoposti a una deturpazione ancora peggiore per gli adattamenti richiesti, più che dalla comodità degli ospiti, dalle ridicole normative della burocrazia italica.
Nel complesso il grosso problema del turismo contemporaneo è che viene trattato come un fenomeno omogeneo, e la massima differenziazione negli inevitabili servizi prefestivi dei telegiornali si riduce alle percentuali che scelgono “il mare, la montagna, le città d’arte, l’estero”. Ovvio che si tratta in teoria di soluzioni diversissime per persone mosse da interessi altrettanto diversi; ma se poi chi le accoglie è il primo a non fare una cernita fornendo offerte mirate, è ugualmente ovvio che i patiti di Riccione finiranno per intrupparsi nei vicoli di una cittadina rinascimentale. A quel punto l’amministrazione del borgo potrà scegliere se incoraggiarli, disseminando negozi di souvenir e bar plasticati, concerti serali in piazza con Marilisa & i Pierrot, massacrando l’estetica e l’acustica dell’abitato, oppure provvedere al restauro e alla valorizzazione culturale per offrire qualcosa di adatto a chi ama veramente l’arte e la storia (e, inevitabilmente dal punto di vista antropologico, la tranquillità).
Verrebbe da sentenziare che più rispetti gli abitanti originari di un luogo, più quel luogo avrà fascino sufficiente ad attrarre visitatori colti e appassionati. Inutile competere con i posti da movida, locali e discoteche, perché alla fine il turista di massa preferisce l’originale alla piccola copia, e le sue visite si ridurranno a un frettoloso e dannoso mordi-e-fuggi.
Il caso di Anghiari
Un esempio da manuale di gestione malaccorta di un borgo medievale è Anghiari, in provincia di Arezzo. Si tratta di uno di quei centri “bandiera arancione” che colpiscono per l’estetica e la posizione romanticamente arroccata sulle mura. Ancora non troppo conosciuto – come lo è d’altronde la circostante regione toscana della Valtiberina – il suo nome circola più che altro per l’omonima battaglia combattuta nel 1440 tra fiorentini e milanesi, ripresa poi da Leonardo da Vinci in una pittura murale oggi scomparsa.
Non possiede, diversamente dalla vicinissima Sansepolcro, né i superpalazzi rinascimentali né un museo con le opere di Piero della Francesca, ma da punto di vista del fascino architettonico è una vera gemma.
Anghiari ha avuto un recente passato di prestigio ospitando, a partire dal 1979, il Premio Internazionale di Cultura, che per una decina d’anni ha visto l’affluenza di studiosi, artisti, musicisti, premi Nobel da ogni angolo del pianeta. Gli abitanti di una certa età ricordano ancora quando si soffermavano nei vicoli a chiacchierare con Fabrizio de André e Umberto Eco, o di essersi esibiti nelle osterie in gare di stornelli e ottave rime con Roberto Benigni. Il miracolo era stato possibile grazie a una fortuita convergenza astrale tra un geniale sindaco comunista old fashion (cioè non una mezza pippa arcobaleno), Franco Talozzi, e un grandissimo giornalista e storico, Gian Franco Venè. Insieme i due avevano messo in piedi un’organizzazione perfetta, d’altissimo livello e intonata alla scenografia come meglio non si poteva.
Ritiratosi Talozzi e scomparso Venè, la comunità è stata gestita fino ai giorni nostri da una serie di amministrazioni, a dire degli abitanti, “una peggiore dell’altra”. Si è conservato, è vero, un secondo fiore all’occhiello, la Libera Università dell’Autobiografia, una struttura collegata alla Statale di Milano che attira frequentatori anche dall’estero; ma si tratta di un cantuccio erudito che sta affogando in una pletora di manifestazioni da gnocco fritto. Quello che doveva essere un teatro del silenzio e della meditazione, ambìto da visitatori colti e – diciamolo pure, ché non guasta – benestanti, si sta trasformando in un luogo troppo rumoroso. Non che non esistano alcune manifestazioni di buon livello, ma sono troppo poche rispetto a trovate che sarebbe meglio lasciare alla riviera romagnola…
Sicché da qualche anno, a partire da giugno, i vicoli un tempo silenti si affollano sempre più di quei turisti ciabattoni che visitano le “città d’arte” come se si aggirassero per Mirabilandia. Non essendo gli anghiaresi particolarmente votati al turismo, i forzati delle vacanze barcollano sotto il sole cercando locali che non ci sono, lamentando che a ferragosto non si vede un buco aperto, e in certi casi capisci che non sanno nemmeno dove si trovino e che significato abbia l’ambiente circostante. (Tipica telefonata: “Ciao, Piero, adesso siamo… cara, come si chiama questo posto? Angioni?”. O altrettanto tipica domanda indispettita della turista: “Ma… negoziettih?”… E cercali a Positano, i negoziettih.)
Non paga di questo fastidio che non porta utili (quasi) a nessuno, l’amministrazione sempre peggiore della precedente indice nei mesi estivi i cosiddetti Mercoledì di Anghiari, dove si danno convegno per vie e piazze gli sfaccendati e i ragazzotti delle Valtiberine tosco-umbre, dalle sorgenti del Tevere a Perugia. Il risultato è caciara fino a tarda notte con quintali di spazzatura e vetri rotti. Che, in un paese dove la pulizia delle strade è una specie di farsa, si traduce in un bel problema. Come mi ha detto un illustre studioso del posto: “Anghiari può assorbire tre bar. I Mercoledì servono per mantenere il quarto”. Una semplificazione, ma rende l’idea.
Come dicevamo più sopra, il fascino e l’attrattiva di un luogo sono proporzionali all’integrità socio-culturale dei suoi abitanti. Ora queste manifestazioni chiassose si svolgono tutte quante nel centro storico, perché il centro storico è più bello, fa più figo e, guarda caso, non c’è mai un sindaco che ci abiti. Alla sera il primo cittadino di turno prende e se na va a casa in qualche villetta silenziosa, mentre nelle vie della zona medievale scoppia la movida, con karaoke, orchestrine che bombardano fino e oltre mezzanotte da un palco eretto… nei giardini della parte nuova? nello stadio giù nella piana? No, proprio nella piazzetta più bella, davanti allo splendido palazzo pretorio, un edificio del XIV secolo da cui esercitavano il potere i vicari e i podestà fiorentini.
Così, oltre a non poter dormire o anche solo tenere le finestre aperte, gli abitanti del centro storico, evidentemente considerati alla stregua di comparse teatrali, non sono più liberi di starsene all’aperto davanti a casa. E non possono neppure più mettere l’auto nei tre o quattro parcheggi periferici, perché al sindaco di turno – che tiene la macchina nella sua villetta – non è mai venuto in mente di riservare dei posti per i residenti. Che talvolta sono anche anziani e non riescono neppure a portarsi la spesa vicino a casa. Se si aggiunge che non si palesa da anni un corpo di polizia urbana, il caos parcheggi durante le “manifestazioni” è totale. In sostanza, per i residenti nella parte storica la cittadina si sta trasformando in un inferno estivo.
Questa di Anghiari, a ben vedere, non è neppure pientizzazione allo stato puro. Certe manifestazioni autentiche e tradizionali (e ne sono rimaste, grazie a Dio), qui, non vengono adattate per i turisti, non si inscena un falso medioevo come altrove, né ci sono quegli orrendi empori di vasellami, balestre e cimeli che infestano San Gimignano o Montepulciano. Al turista non viene proposta la rivisitazione hollywoodiana di un borgo medievale: solo l’opportunità di ciabattare senza costrutto o, se si ferma in un b&b entro le mura, di non dormire il mercoledì notte.
Tra l’altro, giusto per essere propositivi e non limitarci a criticare, non esiste soltanto un ambiente urbano che potrebbe diventare una specie di “club” internazionale per persone amanti della cultura e della tranquillità (non nel senso di Capalbio, dio ci scampi): fuori dalla possente cinta muraria si estende infatti una natura bellissima, con foreste, torrenti, colli e montagne. Un eldorado per chi ama passeggiare, esplorare, osservare una fauna sorprendentemente ricca. Ma anche per chi vuole scoprire pievi ancora vive e altre abbandonate, angoli misteriosi dove la protostoria, il paganesimo e il cristianesimo si sono avvicendati fino a essere ricoperti dalla foresta. Un intrico di sentieri, tra l’altro accuratamente segnati, in cui purtroppo non incontri quasi anima viva nemmeno a ferragosto, perché chi dovrebbe pubblicizzare tutto ciò non è in grado o non lo vuole fare: meglio arrivare in auto, sedersi al bar che occupa il cassero, il punto più bello della cinta trasformato in una sorta di luna park, e star lì a berciare fino al momento di andarsene. E l’indomani raccontare agli amici che hai passato il weekend ad Angioni.
Come (non) difendere il territorio
Una tale incuria per l’anima del posto, con la conseguente erosione antropologica, si accompagna inevitabilmente a un’incuria estetica e paesaggistica. Ma questo, temiamo, è storia normale di tutti i piccoli comuni: gli uffici preposti ti fanno le pulci per una tegola spostata, e poi permettono la costruzione di villette che farebbero senso a Viserbella. Così la “periferia” del borgo medievale si allarga progressivamente con quella tipica cacofonia di stili (chiamiamoli così) che rivela la totale mancanza di programmazione da parte degli amministratori.
Se si può imputare qualcosa agli anghiaresi è di non avere reagito abbastanza a questi abusi. Ma quando è troppo è troppo, e l’ultimo scempio ha finalmente dato vita a un comitato di protesta. L’attacco è partito dall’esterno dei bastioni, ma qualcuno ha aperto il ponte levatoio dall’interno. Fuor di metafora bellica, la inwit spa, che costruisce “torri” per la telefonia, ha deciso di impiantarne una gigantesca (24 metri) in uno dei punti più belli e panoramici (insulto estetico), cioè lungo la strada che dal borgo porta al santuario del Carmine (insulto culturale) ed è la prediletta dagli abitanti per fare passeggiate (insulto sociale). Da un’azienda come quella non c’è da aspettarsi né l’intelligenza né la sensibilità di non deturpare un luogo così bello, per carità. C’era invece da aspettarsi che il sindaco di turno, sempre peggiore del precedente, non tenesse nascosto il fatto il più possibile alla cittadinanza che avrebbe dovuto tutelare, fino all’esplosione del bubbone.
Il Comitato No Antenna, a differenza di gruppi analoghi in altri luoghi, non ha potuto fare nulla perché, non solo l’ottimo primo cittadino non ha mosso un dito per aiutarlo, ma non ha neppure predisposto il “piano antenne” (tra l’altro previsto dalla Legge Regionale 49/2011) per regolamentare il fenomeno. Il tar ha così finito per dare ragione a inwit; al primo cittadino la comunità ha dedicato l’orrido ripetitore battezzandolo con il suo nome; e se non si approverà un piano antenne, il prossimo sindaco, che sarà peggiore del precedente, potrà disseminare di torracchioni l’intero territorio. E allora addio bandiera arancione.