Fertilissima quanto ignorata dai più, la tradizione poetica di questa terra padana è considerata superiore all’odierna produzione in italiano.
Giovanni Poggeschi
Si dice Romagna, e si pensa subito al turismo che nei mesi estivi trasforma il lembo che va dal Porto Corsini a Cattolica in una delle zone a maggior densità di popolazione del globo. Si pensa a una regione operosa, sia nelle sue piccole e medie industrie, come quelle della ceramica a Faenza, sia nelle sue cooperative agricole che esportano in tutto il mondo i fragoloni di Imola, le pesche di Cesena e i vini tipici, come l’albana, il sangiovese, il trebbiano. Si pensa al “lissio” esportato da showmen ruspanti e anche furbi, come Raoul Casadei. Si pensa a una terra generosa, passionale nei suoi ideali politici, repubblicani, socialisti, cristiani e talvolta anche fascisti. Si pensa, da pane degli sportivi, a una regione che s’infiamma per i goal di Walter Schachner a Cesena, per i canestri di Rod Griffin a Forlì, per i pugni dei fratelli Stecca, Nati e Damiani e per il rombo dei motori sui circuiti di Imola e Misano.
Si pensa anche alla poesia di Giovanni Pascoli, Zvanì, vate della Romagna in lingua forestiera. Ma Romagna è anche poesia in romagnolo, la poesia moderna di Tonino Guerra, di Nino Pedretti, di Walter Galli. Assistiamo oggi in Romagna a una eccezionale fioritura di poeti in lingua locale, tanti e spesso molto buoni. Umberto Foschi, il maggiore esperto di cultura romagnola, sostiene che l’odierna poesia in lingua italiana non è all’altezza della contemporanea poesia di Romagna; tutto ciò accade in un momento, lo sappiamo, di regresso delle parlate locali rispetto alla grande lingua statale. Caratteristica della letteratura romagnola è quella di avere un passato non troppo ricco e glorioso, rispetto a ciò che è successo in questo secolo, specialmente adesso, in questi ultimi anni. I primi componimenti romagnoli, a parte qualche parola sparsa qua e là in documenti sin dal 1200, sono il cesenate Pulòn matt, poema di anonimo del secolo XVI, in parte perduto, che inaugura il filone comico che avrà il suo grande esponente in Olindo Guerrini, e la Commedia Nuova… molto diletevole e ridiculosa di Piero Francesco da Faenza, sempre del secolo XVI, imitazione dell’Orfeo del Poliziano. Fino al secolo scorso pochi furono gli autori, tutti per lo più comici, e considerevole era l’importanza di certa poesia popolare che trovava spazio in pubblicazioni come i lunari; primo fra essi il Lunèri di Smembar, nato nel 1845, tuttora ampiamente diffuso.
Bisogna aspettare però la fine del secolo, con OLINDO GUERRINI di Sant’Alberto di Ravenna (1845-1916), noto anche sotto lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti, per trovare una letteratura più degna. Il Guerrini, uomo dai molti interessi, impegnato nella lotta politica, è forse ancora oggi il più conosciuto poeta romagnolo. La sua è una poesia satirica in cui si muovono innumerevoli personaggi, fra cui Tugnazz, che tanta influenza avrà nella erezione dello stereotipo del romagnolo chiassone, mangiapreti, sempre pronto alla battuta e all’alzata di gomito.
LA BORLA A E’ BARBIR
Donca avì savè che un dé a Bulogna,
Andè in butega da un barbir, zett zett,
Cun una cherta ch’a i’aveva scrett:
“Fate la barba a me, che mi bisogna”
Quest – e’ dìs e’ barbir – l’è una carogna
D’un sord e mott”, e i su sottpanza is mett
A insavunem e’ mus sora un banchett,
Cun una tvaia ch’l’era una vergogna.
E im daseva d’è stopid, d’è sandron,
D’e’ sumar, d’l’imbezell becch e cuntent.
E me a sinteva, mo a staseva bon.
Fata la berba, a dess: “Grazie al mi zent
E adess fasim la savunè ai coion”.
Am cardé ch’ui avness un azident! (1)
In Guerrini non mancano tuttavia pagine malinconiche. Linguisticamente parlando, il suo non è un romagnolo schietto; siamo nel realismo ottocentesco, e deve ancora venire l’opera di purificazione, anche linguistica, compiuta da ALDO SPALLICCI (1886-1973), la cui poesia in forlivese è su un tono completamente diverso. Uomo di impegno politico, antifascista e, nel dopoguerra, senatore per il PRI, professore di medicina, Spallìcci è colui che diede la svolta alla letteratura romagnola, fino all’inizio del secolo legata alla tradizione satirica ottocentesca. Il romagnolista inglese Gregor lo definisce “il Mistral della Romagna”, P.P. Pasolini parla di “pascolismo sano”; secondo Foschi bisogna però stare attenti a questi accostamenti, certo fuorvianti. La poesia di Spallicci, composta in un lungo arco di tempo (1909-1973) fino alla vigilia della morte, tratta molti temi compreso quello politico, ma si esprime soprattutto, con accenti originali, nel rapporto con la natura, nel lavoro dei campi, nell’idilio paesaggistico; è nella natura, insomma, che il poeta si vuole annegare. Una passeggiata lungo uno stradone di campagna fiancheggiato dal biancospino con a lato le zolle rivoltate dall’aratro e i lunghi filari ci porta immediatamente alla poesia spallicciana, solo apparentemente descrittiva, in realtà specchio dell’immagine di una regione, di un popolo.
L’ARPÒS
A m’sò stuglê int e’prè panza sò ’d sóta
ch’l era calê zà e’ sol, dop l’ivmarì,
ch’a n’in puteva piò, la schena rota
parchè l’era dal tre ch ’a seva in pì.
A sinteva e’ calor dla têra assota
e e’ côr ch’u m’s’era stret u s’turné arvì
e ìgnia côsa ch’la m’era pêrsa brotta
ëch ch’l’era bela e tot l’era fiurì.
U j è un mument, passé ch’l’è l’ivmarì
ch’u s’ved e un’s’ ved, ch’ l è bur e ch ’u n’è bur
che al vos dla sera a n’s’fa incora sintì.
U m’era intond la nota eme una seva
e u m’pareva’d sinti sicur sicur
l’armor dal tëst ’d gramegna ch ‘al carseva (2)
Spallicci è il primo grande poeta romagnolo, e l’odierna fioritura di nuovi poeti si deve soprattutto a lui. Da non dimenticare la sua attività di studioso di folklore, fondatore del Plaustro nel primo anteguerra, la rivista che di lì a qualche anno sarebbe divenuta La piê, che gode tuttora di grande seguito e riesce davvero, secondo il programma segnato da lui, a “far conoscere ed amare la Romagna ai romagnoli”.
Altro interessarne personaggio dell’inizio del secolo è LINO GUERRA di Lugo (1891-1930) il quale, con un po’ di coraggio, si potrebbe definire il “poeta maledetto” romagnolo. Il fratello Enzo, anch’egli poeta, ci racconta come sin dalla infanzia Lino si considerasse “sempre e ovunque una specie di diseredato rispetto ai fratelli”; i suoi sedici componimenti non sono poesia intesa come ricerca, bensì lo sfogo, talvolta allegro, più sovente amaro, di un outsider. (3)
NETTORE NERI, di Barbiano di Cotignola (1883-1970), poeta anche in italiano, fu persona colta; la sua poesia è limitata a pochi motivi, ma è intensa e mostra un’influenza derivata dai canti popolari. Il tema privilegiato è l’amore, anche sessuale, ma senza traccia di peccato: vi è molta malinconia la quale non giunge dalla riflessione, ma appare in lui congenita, come vediamo qui:
CUN TE
Un usignol, t’e’ bur d’la nott, e’ canta;
e sumnè d’stèll e’ zil, s’e’ mond, e’ rid.
Un pò, sott’i nost pass, e’ giaren strid;
un pò e’ mov e’ vent al foj d’ gni pianta…
E’ mov al foj d‘ gni pianta alzìr e’ vent…
Mè a n’so s’a séja cuntent o nò cuntent.
A n’ so se nò cuntent o cuntent séja,
se pin d’piasë o pin d’ malincunéja!… (4)
Singolare personaggio della prima metà del secolo è FRANCESCO TALANTI, nato anch’egli a Sant’Alberto di Ravenna (1870-1946); nipote di un greco stabilitosi a Sant’Alberto dopo essere sopravvissuto a un naufragio alle foci del Po, ebbe una vita di intensi viaggi, in Europa come in Oriente, e fu noto matematico, umanista e poliglotta. I sei canti della Divina Commedia tradotti in romagnolo e i componimenti sulla nascita di Roma rivelano una graffiante vena satirica sulle orme del grande compaesano Guerrini. Il 24° canto della sua storia di Roma mostra assai bene la sua avversione per la capitale, mentre nei sonetti si nota una tendenza spiccatamente malinconica.
Mo Roma alora l’era spupuleda,
al strè deserti senza muviment,
e la class d’ j’uratur, la piò sgrazieda,
la tneva al cunfarenz senza la zent.
Romolo ch ’us l’avdeva mel pareda
e mandè un band par tott i cuntinent,
imprumitend la libartè e l’intreda
a i prit, i vagabond, i delinquent.
E currè d’ogni pert d’i farisei,
d’isansël, d’ j’imbruion dla zent buleda,
d’i rufian e d’i ledar e dal spei.
J’era tott sprë, zintazza cundaneda,
ch’i s’impiantè carscend com’i cunèi,
e cla razza la’n s’è mai piò stirpeda. (5)
I contemporanei
Giungiamo finalmente al dopoguerra e a oggi, momento magico della poesia romagnola. Se Spallicci ha effettivamente fondato la poesia romagnola, è TONINO GUERRA di Sant’Arcangelo a darle la svolta decisiva. Personaggio notissimo nel mondo dello spettacolo come sceneggiatore (fra gli altri, di Rosi, Antonioni, Fellini), è anche romanziere in italiano. Cominciò a scrivere poesia o, piuttosto, a dettarle a Vincenzo Strocchi, altro stimato poeta romagnolo, durante la prigionia in Germania. La prima opera pubblicata è del 1946, I scarabòcc, con la prefazione di Carlo Bo il quale già avverte in questi versi neo realisti una straordinaria coscienza dell’autore nei propri mezzi, e una “volontà di pulizia interiore, un senso esatto delle cose e delle voci, la capacità di distinguere con precisione la parte della realtà da quella limitata nel suo sogno”. La presentazione dello stesso Guerra della S-ciupteda, raccolta uscita nel 1950, può essere considerata il manifesto della nuova poesia: “È un errore, secondo me, credere che il paesaggio che ci circonda sia quello di cento anni fa… Ogni cosa ha la sua storia: il bue, le galline, le candele, i tubi al neon, le sedie… Mi pare che bisogna vedere a che punto è la loro storia e a che punto è la nostra di uomini, altrimenti si rischia di vivere come in un vecchio album di fotografie, con le famiglie sugli aeroplani di cartone”. Pasolini nella sua antologia del ’52 (6) definisce quello di Guerra “un linguaggio intensamente sostantivato, oscuro per l’intensità non per evasività”, che ha in comune con Montale il tipico antipetrarchismo pascoliano. La Romagna rappresentata non è più quella bucolica spallicciana, ma è la Romagna dei diseredati, dei mortificati, degli oppressi, dei matti.
SIVIO E’ MATT
Quand che parlèva,
e’ parlèva ad scatt,
tott un brandèll
da in chèva fina in pi,
se brètt cun la visira arvólta indrì,
che l’era avstéid da chéursa
Sivio e’ matt. (7)
Non è difficile ricollegare a questa figura il personaggio dello zio matto dell’Amarcord felliniano, film in cui l’impronta dello sceneggiatore Guerra è evidentissima. Anche I madèun è presente in Amarcord, pur se italianizzata e resa caricaturale per il grande pubblico.
I MADÉUN
E’ mi nomi e féva i madéun
e’ mi ba e féva i madéun
mè a faz i madéun: os-cia i madéun!
Mèla, disméla, al muntagni ad madéun
e mè la chèsa gnént.
Ò fat la chesa nova de’ Sufraz
ò fat tòt quant al chèsi de’pasègg,
ò fat al tòri, i péunt e dì térazz,
ò fat la véla granda di padréun ch’la ciapa tòt e’ soul,ù
e mè la chèsa gnént. (8)
Nel 1954 esce E’ Lunèrì, dedicato alle stagioni, sentite in modo impressionistico attraverso brevi incisivi epigrammi. I bu, edito nel 1972 da Rizzoli con la prefazione di Contini, e contenente la raccolta delle opere precedenti più alcuni eultum vers, decreta il definitivo successo dell’autore, grazie anche all’ottima versione italiana di Roberto Roversi.
L’ARIA
L ’aria l’è cla roba lizira
cla sta datonda la tu testa
e la dvénta piò céra quand che t’roid. (9)
Nel 1981 esce II Miele, poema in 35 cantate. Il progetto è ambizioso, ma il risultato è centrato. L’andamento del poema è cinematografico, il finale apocalittico conclude una storia di povera gente, nove sopravvissuti di un paese una volta popolato da 1200 anime. L’universo guerriano è sempre lo stesso: storie domestiche disparate, una natura presente ma non materna, il senso del disfacimento, ma anche la voglia di vivere mai sopita in questa umanità derelitta. Ed è importante sottolineare che questa non è poesia slegata dalla realtà: c’è un drammatico accenno al ritrovo annuale per il teatro popolare che si tiene a Sant’Arcangelo ogni anno da qualche tempo e che turba le cadenze di vita di questo paese.
CANTÈDA TRENTATRÈ
St’iristèda l’è arivàt ch’la gioventò
da strapàz ch’la mètt e’ nès d’impartótt
e ch ’la è sémpra in viaz ti casséun di càmion
o stugléd sòura i barchéun ch’i zirca
l’Africa.
I s’è sistemè dróinta la chèsa dal tre surèli
americhèni in dò che e’ pésgh
e ciapa tòta l’aria tra i méur. I dórma
sòura e’ sulèr gupléd da i straz
e i slònga al mèni par magné la fròta.
E dè ì camóina schèlz tal stradini svòiti,
i rógg, i róid, i s bóta la pòrbia in faza
e i s fa di béus ti braz.
E me a m sò stòff da dòi ch’i m ròmp e’
caz,
énca al cavalèti c’al va dalòngh dalòngh
al mòr durènt e’ viaz.
E’ fìul dla Filuména l’è andè véa sa lòu. (10)
Degno compaesano di Tonino Guerra è NINO PEDRETTI, pure di Sant’Arcangelo (1923-1976), il più colto fra i poeti romagnoli: sente gli echi della grande poesia straniera, specie tedesca, ma la sua personalità, il suo stile, la sua lingua purissima e il suo senso umano si fondono in un’unica alta voce. Carlo Bo lo colloca — specie per il suo ultimo libro La chèsa de témp, uscito poco prima della prematura morte — tra i poeti che contano nel nostro secolo. I poveri, i derelitti sono protagonisti; per loro persino il sesso non è fonte di gioia, ma di emarginazione e dolore. Certi versi scritti volutamente in italiano suonano esterni e anonimi, rispetto all’intimità della lingua materna. Secondo l’autore il “dialetto” è una lingua tragica, con cui il povero può fare ironìa. La disperazione esistenziale, la fatica di vivere delle poesie di Pedretti non portano però alla rassegnazione: occorre trovare il bello della vita pur nel momento più buio. Il “dialetto” è per Pedretti la lingua dei poveri, la lingua della rivolta, delle rivendicazioni sociali; ma è anche il mezzo espressivo per liberare la propria fantasia, per disegnare immagini che solo nell’intimo ci si può figurare.
LA LÈNGUA DLA MI MÀ
Sa scòrr e’ tedeseh
adèss i m capéss tótt.
Mo sa scòrr
la lèngua dla mi mà
alòura a fazz di sprai
dal ziruvaghi
dal giostri, di fiéur
sal mi paróli. (11)
Anche il tema della scomparsa degli idiomi è uno dei più sentiti da Pedretti:
SE LA LÈNGUA LA MOR
Se la lèngua la mòr
se la s’invléna,
se la pérd i parént
cumè una vèdva,
se la piénz da par sè
splèida te còr di vécc
tal chèsi zighi,
alòura e’ paéis l’è andè
u n à piò stòria. (12)
Questo è il manifesto di chi si oppone all’appiattimento, al futuro senza rispetto delle cose che hanno contato per secoli. A Sant’Arcangelo opera RAFFAELLO BALDINI, giornalista di «Panorama», che condivide con Tonino Guerra la tematica ma non lo stile, essendo i suoi componimenti piuttosto lunghi e in forma narrativa. Sempre in questo miracoloso borgo di poco più di 10.000 anime vive GIANNI FUCCI, grande amico di Nino Pedretti, il quale ha nel cuore la poesia dei suoi concittadini, nonché di Garcia Lorca. E ancora a Sant’Arcangelo troviamo GIULIANA ROCCHI, massaia, la quale pur difettando di mestiere offre interessanti e incisivi epigrammi che ne mettono in luce l’onestà e un certo umanissimo femminismo.
LA VEITA D’UNA DONA
A séra znina
e’ cmandéva chi grend
a sò vecia
e’ cmanda chi znìn
Quant ch ’ l’avnìrà
e’ cmandarà la morta.
E me a n’ò cmandè mai. (I3)
Tra impegno e lirismo
Spostandoci di una quindicina di chilometri, a Cesena incontriamo WALTER GALLI. Egli è considerato fra i più grandi poeti contemporanei, e non solo romagnoli; se non altro il più originale. Uomo affabile e spiritoso, dopo alcune esperienze in italiano sul Politecnico di Vittorini, abbagliato dalla nuova poesia di T. Guerra, capisce che anche per lui il romagnolo può essere lo strumento più adatto per esprimere la sua poetica. Nascono cosi poesie potenti che hanno per protagonista l’uomo nella sua disperazione del vivere, in situazioni ingiuste create dalla guerra e dal nazionalismo;
AL MUDAI
Un pèt ad mudai ch’e’ faseva vója
i galun da capurèl magiór
«per aiti di eroismo e gravi ferite alla testa».
E d’alé a quelch an:
zeincv curtlèdi a la moi
i bourdéll zó int e’pózz. (14)
o chiuso nel ghetto della Valdoca dove regna la miseria. Ma oggi che in questa contrada del centro di una Cesena ricca la povertà non esiste più, quella che sembrerebbe disperazione legata alle difficoltà economiche diventa l’angoscia esistenziale dell’uomo in sé, anche se benestante. La sua ironia è dissacrante, lo stile netto e tagliente è preso a prestito dalla viva voce popolare, sanguigna e antiretorica; osserva Pedretti, in veste di critico: “Egli usa nelle sue brevi composizioni una sorta di zampata finale che coglie il lettore di soprassalto e gli fa rivedere la poesia in una luce completamente nuova e improvvisa: è la sua sigla, il colpo di immaginazione poetica di una lunga attesa di scavo morale”. (15)
GIGETTO
«Stanòta l’è mórt Gigetto: utentòt an!».
In sdé ‘torna un banchett da calzulèr
int un curtilaz, d’instèda,
int un sottschèla, ’d invéran.
Par quel ch’l à rimigì
par quel ch’l’à cnusù dla vita
s’e’ muriva int la cóndla utentòt an fa
l’era precis. (16)
Ma Galli non si ferma alla disperazione o all’ironia, sa anche formulare un tenero messaggio al proprio figlio:
E’ TU VÈC (pr’e’ mi fiól)
S’t’a t’avéss d’imbat’ int e’ tu vèc
lassa un mumantin j amigh
vin m’incontra
dmandum cm’a stagh
s’a j ò bsogn ’d gnint
ciàpum sottabraz
fam fè du pass cun te sin a ca’
e no’ farmèt int la pòrta,
entra, mett’in sdé.
A l’avessi fat me cun e’ mi ba’. (17)
Importante è per Galli la tematica sociale ma, come abbiamo visto, non è certo l’unica della sua opera che scava nell’animo umano al di là delle barriere sociali. Ben diversa la posizione del suo concittadino e amico CINO PEDRELLI, studioso nonché notaio, che con Galli ha in comune solo la parsimonia nel comporre; infatti la sua poesia è intimista, con qualcosa, dice Valentini, di leggero e aereo; la sua è poesia di rara finezza stilistica, nella quale è usata molto bene la rima. Nella zona di Ravenna, più esattamente fra Cannuzzo e Castiglione di Cervia, opera TOLMINO BALDASSARI. Questi è il più “moderno”, nel senso che è il più influenzato dalla poesia colta attuale, come possiamo rilevare dai frontespizi dei suoi primi due libri in cui riporta versi di Yeats e Tagore. La sua poesia tocca più temi: la natura, il ricordo, l’erotismo, e mai il suo amore per la poesia contemporanea lo rende imitatore, ché scopriamo nei suoi versi un esistenzialismo molto personale. È conscio della sua funzione di artista a uomo impegnato socialmente (è infatti sindacalista) e invita tutti, con le parole di Yeats, a lasciarsi perseguitare dalla “immagine d’isole e magiche spiagge senza numero”. A proposito della sua poesia, Foschi parla di espressionismo con qualche venatura di romanticismo, Guido Laghi invece di realismo magico. Ecco due esempi; l’uno è riconducibile alla poetica del ricordo, l’altro è indice del suo antifascismo:
E’ VIÖL
In t’al föli dla mi nona
u j’era sempr’un viöl:
la fiöla de’ re
l’as pardeva in t’e’ bosch
e la truveva un viöl
(e me a camineva cun lì);
di pur burdèll smarì,
chi s’aveva d’andè a ca,
i truveva un viöl
(e me a camineva cun ló).
In t’la mi vita, nona,
dal völti am so neanch pers
e a n ’ho truvë che viöl dal föli.
Nona, insègnum che viöl! (18)
FASÌSUM
Stanota a j’ho insugné
un mònd sànza libar
– a j’ho tarme ad pavura –
l’era e‘ mònd di fasèstar. (I9)
Nella parlata di San Zaccaria scrisse GIUSEPPE VALENTINI (1907-1969). Colto, perseguì la carriera diplomatica, e scrisse poesie in italiano, francese e spagnolo. Il romagnolo non fu per lui la lingua materna, essendo nato ad Ascoli; fu la lingua delle vacanze estive, dei nonni paterni, che apprese e introiettó a tal punto che anche decenni dopo, nel suo ufficio di responsabile culturale di varie ambasciate, specie in Sud America, si ricordava di vocaboli di uso rarissimo, rintracciabili ormai solo nell’Ercolani. Sulla linea spallicciana dell’amore per la natura e il paesaggio romagnolo è GIUSEPPE BARTOLI di Brisighella. Nei suoi componimenti c’è spesso un invito alla fratellanza. Particolarmente interessante è la descrizione della contadina che lascia la campagna per la città:
E’ CASTEL DL’ADELA
Cvànd che l’Adela
i l’à strapé
da la caimisa di chenp
per purtela dentre a Furlé
la sanguneva coma na radisa
d’un cebar tiré per i cavel
La vëcia cuntadéna
la stè srêda tla ca növa
per cvàtar mìs
coma ôn brânc’d fringuel
’c zerca ôn pas bôn
t’ón zel nemig. (20)
Lo stesso si può dire dei ravennate LIBERO ERCOLANI, uno dei maggiori teorici della lingua romagnola, delle tradizioni e dei costumi di questo paese. Autore del più noto vocabolario romagnolo, trasferisce nei suoi versi una perfetta padronanza stilistica e lessicale. I suoi componimenti non si limitano alla descrizione del paesaggio e degli animali, ma toccano temi storici e anche ricordi personali legati alla lunga prigionia che dovette patire in India.
A Ravenna operò e scrisse GIORDANO MAZZA VILLANI, nato nel 1911 e scomparso nel 1976. Proprietario di una delle più importanti collezioni europee di burattini, esercitava la professione di meccanico dentista. Amico fraterno di Benigno Zaccagnini, era pervaso da una grande fede cristiana (concretizzatasi anche nell’altruismo con cui svolse la sua professione) che non gli impediva però di ironizzare sulla fede, ingenua e onesta, della povera gente. La sua poesia è malinconica ma a un tempo serena, e talvolta risulta scherzosa alla maniera di Guerrini.
Il più giovane fra i poeti conosciuti è GIUSEPPE BELLOSI di Maiano di Fusignano, ventinovenne, unico fra gli autori qui citati a firmarsi con il soprannome, caratteristico ed efficace mezzo di riconoscimento da secoli in Romagna (Jusëf d’Piacöt). Famoso per l’attività di ricerca culturale romagnola, mostra nelle sue poesie la preoccupazione di scrivere in una lingua ancora viva, anche se per bocca soprattutto dei vecchi che infatti ama ascoltare:
AL PARÒL
S’a m’afìrm a ’scultê du vec ch’i scor
aj vègh drì a svulê
cal parôl ch ’a j ò pérs
e a li voj tnì da cont.
Mo al n ’è bris d’una vôlta al parôl ch ’a
druv:
l’è e’scórs ch’aj ò int la bocca tot i dè,
s’a ciachër a ca mi,
par la strê cun la zent,
sinò curi j amigh de’ cafè (21)
Ma quella di Bellosi non è solo opera di filologo: la sua è poesia sorgiva, sia che evochi immagini agresti sia che tratti dei sentimenti umani. Fondamentale l’antologia in due volumi, curata da lui insieme a GIANNI QUONDAMATTEO (Cento anni di poesia dialettale romagnola, ed Galeati, Imola 1976), che offre una ricca panoramica sui poeti romagnoli e supplisce alle dolorose esclusioni di questo articolo. Preme solo citare qualcuno dei tanti altri poeti viventi: Leo Maltoni, Duilio Farneti, Giliana Montanari, Dino Pieri, Ubaldo Galli, Lidia Miccoli, Edda Forlivesi, Francesco Fabbretti, Sante Pedrelli, Aldo Zama, senza dimenticare lo scomparso Mario Bolognesi. (22) Come si vede la produzione è realmente imponente; ma in una regione in cui solo pochi bambini parlano la lingua dei loro nonni, quanto tempo di vita ha ancora questa letteratura? Venti anni, forse cinquanta? Quel che sappiamo è che Guerra, Galli, Bartoli hanno alle spalle un esercito di giovani poeti. A Ravenna vi sarà in primavera la premiazione del concorso di poesia “Giordano Mazzavillani”, riservato ai poeti di non oltre 35 anni: è molto consolante vedere che gli scrittori in lizza sono ben 110! Anche i Trebbi, riunioni periodiche di poesia romagnola, resistono vivi e vegeti sin dal 1910. Molte sono le iniziative culturali; interessante quella degli “Amici dell’arte” i quali ogni venerdì si riuniscono alla “Casa delle aie” di Cervia per ascoltare discorsi sulla cultura locale e versi in romagnolo; volendo, davanti a un buon bicchiere di Sanzvès che colà, ve lo assicuro io, non è niente male… Attivissime sono anche alcune case editrici locali, come la Longo di Ravenna, diretta dall’omonimo impegnato titolare, le “Edizioni del Girasole” di Mario Lapucci, pure di Ravenna, appassionatissimo e competente cultore di cose romagnole, la Forum di Forli, la Galeati di Imola e Maggioli di Rimini. Sebbene anche in Romagna occorra sensibilizzare sempre più la gente sul destino della propria cultura, da questo lembo sud orientale della Padania giunge una lezione eloquente e ammonitrice ai fratelli padani, specie a quelli della contigua Emilia.
Note
(1) LA BURLA AL BARBIERE – Dunque dovete sapere che un giorno a Bologna, / andai nella bottega di un barbiere, zitto zitto, / con una carta dove avevo scritto: / «Fate la barba a me, che mi bisogna». // «Questo – dice il barbiere – è una carogna / di un sordo e muto», e i suoi sottopancia si mettono / ad insaponarmi il muso sopra un panchetto, / con una tovaglia che era una vergogna. // E mi davano dello stupido, del sandrone, / del somaro, dell’imbecille becco e contento. / Ed io sentivo, ma me ne stavo buono. / Fatta la barba, dissi: «Grazie la mia gente / e adesso fatemi l’insaponata ai coglioni». // Credetti che gli pigliasse un accidenti!
(Cento anni di poesia dialettale romagnola, a cura di Quondamatteo-Bellosi, Galeaii, Imola, 1976.)
(2) IL RIPOSO – Mi sono disteso sul prato a pancia in giù / ch’era calato già il sole dopo l’avemmaria, / che non ne potevo più, la schiena rotta / perché era dalle tre che ero in piedi. // Sentivo il calore della terra asciutta / e il cuore che mi s’era streito tornò ad aprirsi / ed ogni cosa che m’era parsa brutta / ecco ch’era (bella e tutto era fiorito. // C’è un momento, passata che sia l’avemmaria, / che si vede e non si vede, ch’è buio e non è buio, / che le voci della sera non si fanno ancora sentire. // M’era attorno la notte come una siepe /e mi pareva di sentire di sicuro sicuro / il rumore dei capi della gramigna che crescevano. (Cento anni…, cit.)
(3) Lino Guerra, Canti e poesie, Girasole, Ravenna, 1976.
(4) CONTE. – Un usignolo, nel buio della notte, canta; / e, seminato di stelle, il cielo, sul mondo, ride. / Un po’, sotto i nostri passi, il ghiaino stride; / un po’ muove il vento le foglie di ogni pianta…// Muove le foglie di ogni pianta leggero il vento… / io non so se sia contento o non contento. // Non so se non contento o contento sia, / se pieno di piacere o pieno di malinconia!…
(Cento anni..cit.)
(5) Ma Roma era allora spopolata / le strade deserte senza movimento, / e la classe degli oratori la più disgraziata / teneva le conferenze senza la gente. // Romolo che si vedeva in cattive acque / mandò un bando per tutti i continenti / promettendo la libertà d’entrata / a preti, vagabondi e delinquenti // Corsero d’ogni parte farisei, / sensali, imbroglioni, gente bollata, / ruffiani, ladri e spie. // Erano tutti disperati, gentaccia condannata, / che s’impiantò crescendo come conigli, / e quella razza non si è mai più estirpata. (Francesco Talami, A dila s-ceta, Girasole, Ravenna, 1976.)
(6) P.P. Pasolini, Poesia dialettale del 900, Guanda, Parma, 1952.
(7) SILVIO IL MATTO – Quando parlava parlava a scatti / tutto sbrindellato / dalla testa ai piedi / il berretto con la visiera rovesciata, / perché vestiva da corsa / Silvio il matto. (Tonino Guerra, I bu, Rizzoli, Milano, 1972).
(8) I MATTONI – Mio nonno fabbricava mattoni / mio padre fabbricava mattoni / anch’io faccio mattoni, ostia i mattoni! / ma non ho la casa. // Ho costruito la chiesa nuova del Suffragio / le case nuove del centro / le torri i ponti i terrazzi / la grande villa del padrone che è tutta voltata nel sole / ma io la casa non l’ho.
(T. Guerra…op.cit.)
(9) L’ARIA (a Elio Vinorini) – L’aria è quella roba leggera / che ti gira intorno alla testa / e diventa più chiara quando ridi.
(T. Guerra…, op.cit.).)
(I0) CANTO TRENTATREESIMO -Quest’estate è arrivata quella gioventù / da strapazzo che mette il naso dappertutto / e che è sempre in viaggio nei cassoni dei camion / o distesi sui barconi in cerca d’Africa. // Si sono sistemati dentro la casa delle tre sorelle americane dove il pesco / prende tutta l’aria in mezzo ai muri. Dormono / sopra il pavimento avvolti negli stracci / e allungano le mani per mangiare la frutta. // Di giorno camminano scalzi nelle stradine vuote, / urlano, ridono, si buttano la polvere in faccia/ e si bucano nelle braccia. // E io mi sono stufato di dire che rompono il cazzo, / anche le cavallette che vanno lontano lontano / muoiono durante il viaggio, // Il figlio sciocco della Filomena è andato via con loro.
(Tonino Guerra, il miele, Maggioli, Rimini, 1981.)
(11) II. LINGUAGGIO DI MIA MADRE-Se parlo il tedesco / adesso mi capiscono tutti. / Ma se parlo / la lingua di mia madre / allora con le parole / creo dei riverberi / delle carote, delle giostre / dei fiori.
(Nino Pedretti, Al vòusì, Girasole, Ravenna,1975. )
(I2) SE LA LINGUA MUORE – Se la lingua muore / se s’impesta / se perde le parole / e prende il lutto, / se nelle case cieche / e nel cuore dei vecchi / s’imprigiona, / allora il paese è finito, / è senza storia. (N. Pedretti, op.cit.)
(13) LA VITA DI UNA DONNA – Ero piccina / comandavano i grandi / sono vecchia / comandano i piccoli. / Quando arriverà (il momento) / comanderà la morte. / E io non ho comandato mai.
(Cento anni…, cit.)
(14) LE MEDAGLIE – Un petto di medaglie che faceva invidia / i gradi da caporal maggiore / «per atti di eroismo / e gravi ferite alla testa», // E di lì a qualche anno: / cinque coltellate alla moglie / i figli giù nel pozzo. (Walter Galli, la pazinzia, Girasole, Ravenna, 1976.)
(15) Poesia romagnola del dopoguerra, in Lingua dialetto poesia. Girasole, Ravenna, 1976.
(16) «Stanotte è morto Gigetto: ottantotto anni!». // Seduto ad un bischetto / in un cortilaccio, d’estate, //in un sottoscala, d’inverno. // Per quel tanto che ha messo da parte / per quel tanto che ha conosciuto dalla vita / se moriva nella culla ottantotto anni fa // era lo stesso. (W. Galli, op.cit.)
(I7) IL TUO VECCHIO (a mio figlio) – Se ti dovessi imbattere nel tuo vecchio / lascia per un momento gli amici / vienimi incontro / chiedimi come sto / se ho bisogno di niente / prendimi a braccetto / fammi fare due passi con te fino a casa / e non fermarti sull’uscio, / entra, siediti. // L’avessi fatto io con il mio babbo. (W. Galli, op.cit.).)
(18) IL VIOTTOLO – Nelle fiabe di mia nonna / c’era sempre un viottolo: / la figlia del re / si perdeva nel bosco / e trovava un viottolo / (e io camminavo con lei); / dei poveri ragazzi smarriti, / che dovevano ritornare a casa, / trovavano un viottolo / (e io camminavo con loro). / Nella mia vita, nonna, / a volte mi sono anche smarrito / e non ho trovato quel viottolo delle fiabe. / Nonna, indicami quel viottolo! (Tolmino Baldassari, Al progni serbi. Girasole, Ravenna, 1975.)
(19) FASCISMO – Stanotte ho sognato / un mondo senza libri / ho tremato di paura / era il mondo dei fascisti. (T. Baldassari, È pianafört, Girasole, Ravenna, 1977.)
(20) IL CASTELLO DELL’ADELA – Quando l’Adela / la strapparono / dalla camicia dei campi / per portarla dentro a Forlì / sanguinava come una radice / di un albero tirato per i capelli / La vecchia contadina / rimase chiusa nella casa nuova / per quattro mesi / come un branco di fringuelli / che cercano un «passo» buono / in un cielo nemico. (Giuseppe Bartoli, Ona finestra averta. Girasole, Ravenna, 1980).
(21) LE PAROLE – Se mi fermo ad ascoltare due vecchi che parlano / li seguo per scoprire / quelle parole che ho perduto / e le voglio tener da conto. // Ma non sono di una volta le parole che adopero: / è il discorso che ho nella bocca di tutti i giorni, / se parlo a casa mia, / per la strada con la gente, / sennò con gli amici del caffè. (Giuseppe Beliosi, I segu, Girasole, Ravenna, 1980.)
(22) Per altre notizie cfr. Accorsi, Dialetto e dialettalità in Emilia Romagna dal Sei al Novecento, Boni, Bologna, 1982.