Una prima volta ne avevo sentito parlare oltre trent’anni fa. Un giro in bici, una sosta nella piazzetta del paese (sconosciuto, mai visto prima), un casuale incontro con un’anziana che aveva assistito ai fatti di persona. Mi parlò di un evento all’epoca poco conosciuto (“obliterato”) su cui poco pietosamente veniva steso un velo di silenzio: la deportazione nell’antica villa padronale di Vò Vecchio – la Villa Contarini-Venier – di un gruppo di ebrei rastrellati nel Ghetto di Padova (dicembre 1943). E mi accennò a un episodio ancora più inquietante: il tentativo di una bambina – forse spinta dalla madre – di nascondersi in una barchessa per evitare la definitiva deportazione (luglio 1944).
Qualche anno dopo, sempre casualmente, raccolsi altri particolari da una parente, forse una nipote, dell’anziana ormai scomparsa. La bambina sarebbe stata riportata ai tedeschi il giorno dopo, forse per timore di rappresaglie. Fatto sta che emerse dal racconto una precisa responsabilità delle Suore Elisabettiane (incaricate di occuparsi della cucina nel campo di concentramento) nel “restituire” Sara agli aguzzini.
Ricordo che il controllo del campo di concentramento di Vò Vecchio, uno dei circa 30 istituiti dalla RSI di Mussolini, era affidato a personale di polizia italiano (presenti anche alcuni carabinieri). Invece la lapide sulla facciata della villa in memoria di quanti non ritornarono (posta soltanto nel 2001) ne parla come di un evento avvenuto “durante l’occupazione tedesca” senza un accenno alle responsabilità del fascismo italiano.
Il tragitto dei 43 ebrei dal campo di concentramento di Vò Vecchio verso la soluzione finale è ormai noto e ben documentato. La macchina burocratica funzionava alla perfezione e la pratica di ognuno dei deportati proseguì regolarmente grazie a decine di anonimi complici, esecutori senza volto. Fatti salire su due camion, vennero prima richiusi nelle carceri di Padova e poi inviati a Trieste, nella Risiera di San Sabba. Tappa definitiva, Auschwitz.
Quanto alla bimba, si chiamava Sara Gesses (doveva avere sei o sette anni, anche se alcune fonti parlavano di dieci) e (questo l’ho saputo solo recentemente) venne riportata a Padova con la corriera, quella di linea, dal comandante del campo in persona, un certo Lepore (in alcuni scritti veniva addirittura definito “più umano” rispetto al suo predecessore). Anche al momento di salire sulla corriera Sara si sarebbe ribellata, avrebbe pianto, gridato, forse scalciato. Viene da chiedersi come il zelante funzionario abbia poi potuto convivere con il ricordo di questa creatura condotta al macello. Ma in fondo Lepore non era altro che una delle tante indispensabili rotelline dell’ingranaggio, un cane da guardia addomesticato, servo docile incapace di un gesto sia di ribellione sia di compassione. Pare che un maldestro tentativo di giustificarsi sia poi venuto da parte delle suore che dissero di aver agito in quel modo “per riportarla insieme alla mamma”. L’ipocrisia a braccetto con la falsa coscienza.
In precedenza, insieme ai genitori, la bambina era stata catturata vicino al confine con la Svizzera durante un tentativo di fuga e quindi riportata nel padovano. Non solo. A Padova la madre era riuscita a farla scivolar fuori dal finestrino di un’altra corriera, quella che dal carcere di Padova stava portando i prigionieri a Trieste. Al vestitino di Sara aveva appeso un foglietto con l’indirizzo di alcuno parenti non ebrei. Qualcuno trovò la bambina e la portò nella casa indicata, ma anche qui arrivarono gli sgherri nazifascisti e Sara venne nuovamente catturata.
In Polonia la maggior parte dei 47 deportati, tra cui Sara, furono immediatamente “selezionati” per le camere a gas. Solo una decina vennero momentaneamente risparmiati e di questi solo tre sopravvissero.
Sara, che non aveva incontrato nessun “giusto” sul suo cammino, venne avviata alla camera a gas appena scesa dal convoglio 33T sulla rampa di Birkenau, nella notte tra il 3 e il 4 agosto agosto 1944. La sua “morte piccina” (come quella della bambina di Sidone cantata da De André) rimane un delitto senza possibile redenzione, ma di cui dobbiamo almeno conservare la memoria.