Viviamo in un’epoca gastronomicamente ancipite, tra stuoli di trasmissioni di cucina da una parte, e dall’altra una popolazione che nella stragrande maggioranza non ha la minima cognizione del cibo che mangia. Sono nato in un periodo in cui, schierati davanti al bancone del salumiere, cominciavamo a udire la sciura di turno che reclamava il prosciutto “dolce e magro, mi raccomando Gaetano”, e possibilmente tagliato col microtomo. Già allora l’espressione “fette di prosciutto davanti agli occhi” stava perdendo il significato primigenio di ottundimento visivo per assumere quello di “filtro leggero per osservare le eclissi”. Tra noi e il salumiere intercorreva dunque un rapido sguardo d’intesa – bei tempi – tra il povero lavoratore costretto a servire un prodotto inesistente, come l’affettato dolce & magro, e l’avventore che di lì a poco lo avrebbe liberato dei salumi invenduti, quelli buoni con il grasso, il sapore e la stagionatura (laddove la casalinga li pretendeva non solo insapori e inodori, ma ancora grugnenti).
Queste ovviamente sono cose che qualsiasi buongustaio sa molto meglio del sottoscritto, non sto inventando nulla. Come non è certo una novità che a forza di mangiare sin da piccoli alimenti da supermercato la gente non sa più quale sia la versione originale, si tratti d’un prodotto base fornito dalla natura oppure di una preparazione complessa. È la versione adulta del bambino metropolitano che strabuzza gli occhi davanti alla mucca, quando gli dicono che il latte esce da lì.
Facciamo un esempio: la maionese. Se qualcuno nella sua vita ha mai preso due tuorli, un bicchiere di olio d’oliva leggero, una spruzzata di limone e un pizzico di sale, montando poi il tutto, si sarà reso conto che la salsa ottenuta non esiste in commercio. Nessuna marca di maionese sugli scaffali – compresa quella schifezza biancastra e acetata che servono nelle gastronomie – ha un sapore neanche lontanamente simile alla salsa di cui sopra. Qui non si tratta della versione industriale di un sapore casalingo, come avviene talvolta per i sughi da pasta, ma di assegnare lo stesso nome a due entità neppure imparentate. Succede così… ed è successo… che io prepari quella roba lì (abbiamo ancora il diritto di chiamarla maionese?), e il mio commensale salti su dicendo un po’ schifato: “Ma sa di uovo!”. Ebbene sì, la mia versione contiene uova, un piccolo folle tocco di originalità.
Parlo così, ma per certe cose dovrei stare zitto anch’io. Ho passato gli anni della giovinezza detestando la frutta. Erano i tempi in cui in Sicilia le ruspe facevano strage di agrumi – per mantenere i prezzi alti, credo – e mandavano su in Padania arance il cui succo avrebbe potuto disciogliere una salma. La Grande Catena di Supermercati offriva già allora frutta ottima per dipingere raffinate nature morte, ma eternamente oscillante, alla degustazione, tra l’asperrimo e l’insapore. Poi un giorno ho assaggiato un’arancia diversa: era dolce, buona, e ho scoperto che la frutta mi piaceva. Restava ugualmente il problema di dove procurarmene ancora, ma avere capito questo aspetto del mio Io profondo rappresentava un ottimo punto di partenza per una nuova vita alimentare.
Digressione: il volante come analisi etnica
Per altri versi, invece, mi sento del tutto solo e incompreso. Appartenessi all’eletta schiera dei gourmand, frequentassi una consorteria delle Langhe, o anche solo partecipassi a uno dei 213 concorsi culinari da tubo catodico, sarei giustificato. Eppure non posso ugualmente fare a meno di domandarmi cosa abbia nelle papille gustative – e nel cervello a esse collegato – la media dei consumatori. Faccio questo discorso, non perché voglia far pena al lettore (un poco sì), ma nella speranza di trovare qualcuno che come me provi di tanto in tanto un senso di straniamento dal mondo. Qualcuno che qualche (rara, per carità) volta si guardi attorno sconsolato e borbotti: “Ma, sono io il genio, o questi sono dei mentecatti!?”. E siccome a muovere l’incredulità sono cose del tutto elementari e banali – mostruosamente ovvie, diremmo – la prima ipotesi cade secca.
Per chiarire meglio cosa intendo, faccio un esempio non culinario. Sto percorrendo l’autosole a tre corsie la domenica mattina (quindi niente camion). La mia corsia, quella di destra, è deserta: siamo a Piacenza Nord, eppure mi par già d’intravedere la Madonna di San Luca sovrastare Bologna, tanto la visibilità è sconfinata. Di fianco a me, invece, due corsie intasate di, a sinistra, buzzurri a bordo di grosse berline tedesche (gli “alfisti” in versione moderna) che sfareggiano a 20 cm da chi precede; al centro, una calca di auto alcune delle quali veleggiano a 90 km/h. Se decido di andare a 100-110, potrei in teoria intraprendere la manovra di base, pericolosissima, che consiste nel farmi largo tra i carovanieri centrali e poi tentare di superare anch’essi per trovarmi il coatto del terzo gruppo nel bagagliaio. L’alternativa – che io scelgo – è di procedere alla velocità che più mi aggrada nella mia tranquilla corsia, quella che la Società Autostrade ha riservato a me e a me solo… quella peraltro che il codice della strada rende obbligatoria (art. 143: multa di 38 euro e ciao a 4 punti) se non si sta sorpassando. Tuttavia, anche questa scelta comporta qualche rischio (chi viaggia al centro potrebbe decidere di spostarsi) e, inevitabili, le occhiate malevole dei babbei che della scuola guida ricordano solo che non si dovrebbe sorpassare a destra, ignorando come chi non cambia corsia non stia sorpassando ma solo superando, il che è consentito. Ma parliamoci chiaro: qui il discrimine non sta nel conoscere o meno alcune regole del codice stradale; sta nell’avere o meno l’uso del cervello. Cioè, noialtri spendiamo miliardi per costruire autostrade a tre corsie e ne utilizziamo soltanto due, ecco il problema.
Bene, approfitto della digressione viabilistica per togliermi un altro sasso dalla scarpa parlando delle famigerate rotatorie; un tema che si presta tra l’altro a qualche considerazione etnica. So bene che questa invenzione di sapore vagamente francese sta sull’anima a molti, talora non a torto: usata sempre e comunque al posto di incroci a precedenza o semaforici, ha più volte creato code dove non se n’erano mai viste. Giustamente Vittorio Sgarbi ne ha stigmatizzato l’uso inutile e antiestetico in campagne deserte e assolate.
Tuttavia, in certi casi le rotonde sarebbero utilissime se solo non venissero interpretate in modo assurdo. Mi sono documentato sulla loro filosofia (è davvero riprovevole che le autorità non educhino gli automobilisti spiegandogliela), ma basterebbe il più elementare buon senso per comprenderne il funzionamento. Sono concepite affinché il flusso dei veicoli sia continuo e il più possibile senza soste, pur nel rispetto della precedenza per chi si trova già all’interno. L’utilizzo dei lampeggiatori – sinistro per chi continua a percorrerla, destro per chi affronta la prima uscita – serve a far capire a chi si sta immettendo se possa farlo o debba rallentare per dare la precedenza. Punto.
Un gruppo virtuale di guidatori normalmente intelligenti la supererebbe in modo tranquillo eppure rapidissimo; un gruppo di automobilisti reali, invece, si avventa nell’anello impedendo l’ingresso degli altri e costringe chi deve entrare a esercitare la telepatia per capire se il proietto in avvicinamento uscirà prima o proseguirà… Risultato: incazzature, frenate, rischi di tamponamento, un sacco di tempo sprecato, inutili spese pubbliche per appalti e bustarelle.
Ho osservato bene due particolari situazioni “etniche”, e devo dire che le rotatorie possono rappresentare un buon indicatore per capire la psicologia dei locali. Le aree in questione sono il Biellese e la Valtiberina toscana. Nel primo caso, l’automobilista medio si immette nella rotonda rispettando scrupolosamente la precedenza, ma appena dentro subisce una mutazione. Peli si allungano, zanne crescono, e con la bava alla bocca egli si scaglia contro chiunque ardisca a mettere piede nel suo territorio. Ne consegue che, con un buon traffico (nel Biellese, dove la gente non fa lavori terziari e fantasiosi come a Milano, esistono ancora le ore di punta quattro volte al dì), entrare nelle rotonde è un’impresa lunghissima e colma di insidie. Il loro scopo di base ne risulta compromesso, talché nella piccola provincia piemontese sarebbe più pratico smantellarle e rimettere i semafori. Il carattere biellese è qui rappresentato sì dal rispetto formale delle regole, ma anche dall’acrimoniosa determinazione a non cedere un millimetro dei propri diritti, non priva di una certa petulante litigiosità.
In Valtiberina, invece, l’automobilista ignora l’esistenza dei lampeggiatori, che ritiene strumenti occasionali per festeggiare il santo patrono. Muovendosi su quelle strade non si sa mai cosa combineranno i guidatori circostanti, soprattutto se si tratta dell’onnipresente novantenne con berretto della Landini su Panda Euro -2. Insomma, si entra nelle rotatorie senza sapere assolutamente cosa si inventeranno gli altri, ma tutto ciò avviene con tale lentezza da non pregiudicare l’incolumità. Il problema è che si creano code pesanti laddove le rotonde sarebbero state introdotte proprio per evitarle.
Analisi etnica? Il toscano della Valtiberina è di buonissimo carattere, non saettante nelle decisioni e, purtroppo, non del tutto capace di distinguere tra un’automobile e un trattore.
Il mistero del latte alla plastica
Ho talmente deviato sull’automobilismo che chiedere se mi sia spiegato rischierebbe di suonare offensivo. Volevo far capire che talvolta qualcuno (molti? pochi?) di noi si trova a osservare incredulo il comportamento della maggioranza. Ma, per tornare alla gastronomia e alle sconcertanti papille della cittadinanza, ancor più della maionese mi sconvolge la questione del latte. Non le quote, il sapore. Dunque, da anni verso nella seguente surreale situazione. Tralasciando che la quasi totalità del latte “fresco intero” mi sembra gesso liquido, e che i panel di assaggiatori di Altroconsumo premiano prodotti che se vedessero una mucca da vicino scapperebbero a gambe levate; tralasciando insomma il fatto che questi liquidi 8 su 10 non sanno di niente, il mio problema è il saporaccio di plastica. Non sto scherzando: bendatemi e fatemi assaggiare latti della stessa marca in versione tetrapak (cartone), vetro e PET, e io vi dirò quale proviene dalla bottiglia di plastica. Mosso da curiosità scientifica, ho chiesto lumi a un illustre collega, il nutrizionista e divulgatore Giorgio Donegani, il quale mi ha assicurato di non aver mai udito nulla di simile. Butto lì: sarò allergico al PET? No, perché il polietilenter-eccetera non rilascia alcuna sostanza. Ora, non posso e non voglio mettere in dubbio le affermazioni di Donegani, il quale nel suo campo è un’autorità, ma tecnicamente parlando il gusto e l’olfatto non sono analizzatori remote sensing – come un telescopio o un rivelatore a infrarossi termici – ma entrano fisicamente in contatto con la realtà esterna. Se io avverto un odore o un sapore è perché una molecola è stata catturata e analizzata da papille e chemiorecettori; talché se sento sapore di plastica significa che ho messo in bocca almeno una molecola di plastica, non si scappa. Tanto più se non avverto nulla del genere bevendo dal cartone o dal vetro.
Ma di nuovo il dibattito non è da indirizzare a questioni scientifiche, bensì alla percezione della massa. E infatti a un certo punto, per tagliare la testa al toro, ho aperto una costosa bottiglia di latte “alta qualità” (quasi 2 euro, per la cronaca), ho riempito un bicchiere e l’ho porto a un paio di persone amiche. Di cosa sa? ho chiesto. Risposta: di plastica!
Quindi, in definitiva, l’impressione è che il mercato sia invaso da latte che sa di plastica, ma nessuno se ne accorga. Ho fatto ricerche su internet e non ho trovato un solo riferimento al problema.
Prosciuttopoli, tutti zitti
Chi si sia trovato nella mia stessa condizione per vari motivi, probabilmente sa che si finisce per cadere in uno stato di inquietante incredulità. Da una parte la verità è lì di fronte a te, lampante; dall’altra non puoi seriamente pensare che il resto del mondo non la veda.
Eppure mi tocca citare un’altra esperienza, una situazione peraltro assai grave per la credibilità dei prodotti padani. Premessa: per la solita faccenda del prosciutto dolce & magro, ho sempre preferito la varietà toscana a quella di Parma, ormai prona ai gusti delle casalinghe (le quali dagli anni ’70 in poi si sono evolute nella versione natural-chic, bici con cestello e mezza minerale per idratarsi, con un’influenza disastrosa sulla qualità statistica degli alimenti). Tuttavia, di un’infanzia passata per lunghi periodi nel parmense, ricordo splendidi prosciutti dal grasso saporito e correttamente stagionati. Il fatto è che da qualche anno trovo questa costosa qualità ai limiti dell’immangiabile, e lo stesso penso del San Daniele. Ovviamente se fai un discorso del genere, tutti ti prendono per matto (“Il prosciutto di Parma!”, “Il disciplinare!”, “L’eccellenza che tutto il mondo ci invidia!”, eccetera).
Bene, adesso salta fuori che, appunto da qualche anno, tali prosciutti vengono ricavati da cosce di maiali duroc danesi, le quali – come spiega il consumerista Roberto LaPira – sono “razze non adatte a ottenere prosciutti di Parma e di San Daniele, e si riconoscono perché la carne troppo umida non regge la stagionatura e per le diverse dimensioni della noce di grasso al centro del prosciutto”. Questa varietà, proibita dal disciplinare, veniva utilizzata in quanto i maiali raggiungono il peso standard un mese prima degli altri. E il bello è che i “controllori”, cioè i consorzi, o hanno fatto finta di niente o non si sono accorti della truffa. Adesso si ciancia di DNA complicato da individuare, difficoltà dei controlli e compagnia bella, ma la domanda torna eternamente ad affacciarsi: ma per la miseria, qualcuno le assaggia queste “eccellenze”? I numeri sono da paura, con 300.000 prosciutti sequestrati, 140 allevamenti sotto inchiesta e – udite – i due istituti di certificazione che dovevano controllare il rispetto dei disciplinari, commissariati per sei mesi dal ministero dell’Agricoltura per gravi irregolarità. Ovvero, uno scandalo di proporzioni colossali, di cui si trovano scarse tracce sui giornali. Quegli stessi giornali sempre pronti a megafonare qualsiasi bufala della pur benemerita Coldiretti, che in questo caso fischietta aspettando che la bufera passi.
Ma, ripetiamo fino alla noia, considerato che da anni a questa parte quasi tutta la produzione di Parma e San Daniele è ormai dichiaratamente basata su cosce scadenti, perché diavolo nessuno ha detto che il sapore non era buono? Nessuno si è accorto che la carne talvolta era sanguinolenta per la scarsa stagionatura? (Ho saputo da una fonte interna a questa industria che alcuni prosciutti vengono stagionati 4 mesi – e al resto pensa la chimica – contro un minimo di 12 mesi.) No, nessuno se n’è accorto perché il condizionamento alimentare è arrivato a un punto tale che qualsiasi cosa venga proposta dalla pubblicità sarà accettata e persino apprezzata, anche la cacca di cavallo.
Ecco spiegato il motivo per cui (e qui rientro nel mio àmbito professionale), quando raccontano che un’orda di aitanti individui in fuga da un wifi scadente sono delle povere vittime e rappresentano una risorsa per tutti noi, l’intera popolazione non scoppia a ridere.