Negli ultimi anni c’è stato un enorme boom di investimenti in Africa, in particolare per oleodotti, gasdotti e altri progetti nel campo dell’energia e delle infrastrutture. Tuttavia, nella corsa allo sviluppo economico si è avuta ben poca considerazione per gli impatti ambientali e umani di questi progetti. I leader africani sostengono questo tipo di crescita e hanno varato un Programma per lo Sviluppo delle Infrastrutture in Africa (PIDA) quale modello per il continente.
Da quando sono entrate in vigore politiche di sviluppo e piani come Kenya Vision 2030, Tanzania Vision 2025, Agenda 2063 dell’Unione Africana, è esplosa la crescita del partenariato pubblico-privato. L’Africa si è aperta a progetti e imprese titaniche, riprendendo la corsa alle risorse naturali. Le grandi trattative economiche tra le multinazionali e i governi stanno procedendo senza che i popoli indigeni abbiano voce in capitolo. Affinché questo boom di investimenti sia sostenibile e di utilità generale, è indispensabile tenere in considerazione i diritti umani e le questioni ambientali, nonché le tradizioni indigene di utilizzo delle terre, il che in gran parte non è stato fatto.
L’espansione di oleodotti e gasdotti in tutta la regione sta avendo impatti negativi sulle comunità locali. Progetti come il Lamu Port-South Sudan-Ethiopia-Transport Corridor Project (LAPSSET), il Progetto Energia Eolica Lago Turkana, il progetto geotermico KenGen a Naivasha e le dighe Gibe in Etiopia, stanno mettendo a rischio le popolazioni indigene per una serie di ragioni, e le loro legittime proteste non vengono prese in considerazione mentre i lavori avanzano.
Nella maggior parte dei casi, le terre su cui tali progetti sono programmati appartengono storicamente a nativi che ora si vedono costretti ad andarsene, oppure vedono le loro risorse impoverite o distrutte, con accesso limitato ai pascoli, all’acqua potabile e ai luoghi sacri per le loro culture. Queste popolazioni continuano a non ottenere giusti indennizzi, né le compagnie responsabili di tali opere si degnano di condividerne i benefici con le persone che costringono a sloggiare.
Il Lamu Port è un progetto di punta per l’Africa orientale, destinato a fornire mezzi e infrastrutture logistiche per il trasporto di petrolio tra Kenya, Etiopia e Sud Sudan, collegando una popolazione di 160 milioni d’individui. Due oleodotti trasporteranno petrolio greggio e raffinato in tutta la regione. Questa impresa colossale “arerà” innumerevoli comunità indigene, costringendole non solo ad andarsene dalle loro terre senza compenso o senza il loro consenso informato (Free, Prior and Informed Consent, o FPIC), ma li spingerà in aree ancor più marginali. Le voci degli abitanti non sono state ascoltate, e i tentativi del governo keniota per esaminare le loro preoccupazioni sono stati vanificati dalla corruzione e dalle politiche a sfavore degli interessi indigeni.
La Lamu County in Kenya, territorio cruciale per il progetto, è la patria tra l’altro delle etnie bajun, sanye, orma, awer, mji kenda, pokomo, somali e kikuyu. Popoli come lo awer abitano queste terre da secoli, e stanno per esserne scacciati senza procedure FPIC e senza condividere il minimo beneficio. Il progetto minaccia anche le contee di Tana River e Garissa che ospitano orma, wardei, munyoyaya, le comunità pastorali dei sanye e i cacciatori-raccoglitori awer, mentre la Isiolo County è abitata da borana, samburu, turkana, somali e meru.
Preoccupano anche l’assenza di valutazioni d’impatto ambientale, la mancanza di informazioni accessibili sul progetto, le minacce ai mezzi di sussistenza tradizionali, i rischi per il World Heritage Site di Lamu Island, la mancanza di un chiaro meccanismo di ridistribuzione dei proventi, il mancato riconoscimento dei diritti territoriali individuali e comuni. Anche se il governo keniota ha formato un comitato centrale di coordinamento incaricato di affrontare le recriminazioni delle comunità coinvolte, finora non risulta alcuna riunione ufficiale.
Uno dei progetti che destano maggiori preoccupazioni è la costruzione di una mega-diga nel Laikipia lungo il fiume Ngiro Ewuaso. L’invaso fornirà acqua per una delle città turistiche previste lungo il corridoio Lamu nella Isiolo County. Il governo non ha rivelato quante persone dovranno evacuare a causa della diga e della futura città, né ha preso contatti con alcuno per discutere trasferimenti e indennizzi. Lo sbarramento del fiume, unica fonte idrica per migliaia di pastori in questa regione semiarida, avrà vaste ripercussioni sulle condizioni di vita di tanti, per non parlare della fauna selvatica.
Con il supporto della Banca Mondiale, il Kenya ha intrapreso anche una vasta campagna di estrazione geotermica nel territorio masai. Di nuovo, assenza totale di coinvolgimento della comunità e politiche di compensazione. Problemi confermati da un primo rapporto investigativo del World Bank Inspection Panel, che ha visitato l’area per verificare le lamentele presentate dalla comunità masai. Secondo un leader della comunità di Longonot, in Kenya, “questa società è una minaccia per la nostra esistenza. Abbiamo sperimentato sfratti, minacce, sottrazioni di terreni e altre violazioni dei diritti umani. Adesso le loro attività sono volte a distruggere i nostri mezzi di sussistenza. Ormai è un flusso continuo di fanghi dentro una valle che rappresenta l’unica risorsa d’acqua sia per gli uomini sia per le mandrie”.
La comunità ha analizzato l’acqua, trasformatasi in una fanghiglia nera e puzzolente, e ha scoperto che i livelli di richiesta biochimica di ossigeno sono al di sopra dei parametri nazionali per lo scarico degli effluenti in questo particolare ambiente. L’acqua contaminata è stata messa in relazione con la morte di numerosi animali, che costituiscono la principale fonte di sostentamento per la locale comunità masai. A Naivasha, un bambino masai è annegato in una delle vasche di smaltimento delle acque reflue, lasciata senza protezione. I masai stanno premendo affinché vengano rispettati i protocolli di sicurezza prima che venga autorizzato qualsiasi finanziamento a questo tipo di progetti.
Quella geotermica è un’energia pulita, ma la realtà è che le tubature stanno scoppiando, l’acqua bollente si sta riversando nei villaggi, e i bambini giocano intorno ai condotti e finiscono per ustionarsi.
Il più grande investimento privato del Kenya fino a oggi, il Lake Turkana Wind Power, è costituito da 365 turbine eoliche che coprono 40.000 acri di terra nel nord del Paese: è stato assegnato senza alcuna consultazione pubblica e senza ottenere il consenso informato FPIC dalle popolazioni indigene della zona. Nel 2006, un consorzio composto da quattro aziende private e tre fondi di sviluppo statali ha affittato ulteriori 150.000 acri di terra e spostato un piccolo villaggio. Secondo il consorzio, l’unica popolazione indigena della zona sono gli el molo. Le altre tre tribù locali – rendille, samburu e turkana – non sono riconosciute come indigene dal consorzio, sebbene lo siano dalla African Commission on Human and Peoples Rights. C’è un procedimento giudiziario pendente per acquisizione illegale di terreni, ma la costruzione è andata avanti malgrado ogni opposizione.
Numerose organizzazioni, imprenditori, difensori della natura e proprietari terrieri nella regione di Samburu (IMPACT, Samburu Women’s Trust, Pastoralist Development Network Kenya, Save Lamu, Friends of Lake Turkana) si stanno mobilitando per contrastare l’impatto del Lamu Project sulle loro comunità. La Turkana County si è opposta al test iniziale della multinazionale Tullow Petrol ed esige una compartecipazione agli utili. A Sarima la gente ha contestato il Lake Turkana Wind Project. Un tribunale di Meru ha bloccato la costruzione delle ultime sei turbine.
I popoli indigeni stanno facendo di tutto affinché i loro diritti siano rispettati.