La pulizia etnica adottata dalla Turchia nei confronti della popolazione curda assume vari aspetti. Dalle centinaia di attacchi con gas asfissianti contro la guerriglia in Bashur, all’ormai infinito rosario di prigionieri politici morti in (e di) carcere, fino ai continui rapimenti di civili nei territori occupati della Siria. Alla fine di ottobre un’organizzazione per i diritti umani ancora operante in Afrin, se pur in difficili condizioni, aveva calcolato che solamente negli ultimi due mesi (contando sia quelle rapite a scopo di estorsione, sia per repressione politica) erano state rapite circa 300 persone, tra cui sono state identificate 25 donne, mentre almeno 6 civili sono stati assassinati dalle stesse forze di occupazione.
Uno stillicidio, quello dei rapimenti, pressoché quotidiano. Anche in questi ultimi giorni.
Stando a quanto dichiarato da fonti locali, il 3 novembre una milizia al servizio di Ankara (Faylad al-Sham) ha sequestrato 14 civili da Iska, un villaggio situato nel cantone di Afrin. Si tratterebbe soprattutto di donne, di età compresa tra 23 e 56 anni.
Due anziani sono stati prelevati dai servizi segreti turchi e dalla “polizia militare” il giorno successivo in un altro villaggio, Germuk (sempre nel cantone di Afrin invaso e occupato dal 2018).
Sarebbero invece tre le donne prelevate, sempre il 3 novembre, a Suluk, altro territorio della Siria sotto occupazione turca.
Il 2 novembre le stesse fonti locali avevano denunciato il sequestro di una decina di persone (di cui si conosce l’identità solamente di sette) nel villaggio di Mamila (distretto di Mabata, sempre nel cantone di Afrin).
I responsabili dei rapimenti appartengono, in genere, alle varie milizie jihadiste (ma anche a formazioni di estrema destra) che collaborano con l’esercito di Erdogan sotto la copertura del cosiddetto Esercito Nazionale Siriano.
Ulteriori esempi del regime di terrore instaurato da Ankara. Un regime responsabile di crimini di guerra riconducibili a quella che sempre più appare come un’operazione di pulizia etnica.