“Io uso una spada per giustiziare criminali maschi e armi da fuoco per giustiziare criminali donne. La decapitazione significherebbe scoprire il loro volto ed esporre il collo e parte della schiena”. Così spiegava qualche anno fa il boia saudita Said bin Abdullah bin Mabrouk al-Bishi.
Ma certe attenzioni evidentemente non valgono per le presunte “streghe”. In quei giorni la decapitazione di Amina Bent Abdellhalim Nassar (12 dicembre 2011) aveva riaperto il dibattito sulle violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita. La donna, secondo il comunicato del ministero degli Interni, era accusata di “stregoneria e magia”, pratiche vietate dal sistema giuridico basato sulla sharia. Va anche detto che, almeno per questo reato, nella petromonarchia (alleata storica dell’Occidente e sede di basi militari statunitensi) esistono pari opportunità per “streghe” e “stregoni” di sesso maschile. Tra i casi di cui si è venuti a conoscenza, quello di Ali Ibn Hadi Ateef che venne decapitato nel marzo 1995 per “attività basate sulla magia e sui giochi di prestigio”. Nel dicembre 1996 stessa sorte per un cittadino siriano, Abdul Karim Al-Naqshabandi, giudicato colpevole di “stregoneria” dopo una confessione estorta con la tortura. Di entrambi i casi si era occupata, invano, Amnesty International.
Nell’ottobre 2011, invece, un’altra donna era stata decapitata per aver provocato la morte del marito incendiando la casa (azione evidentemente considerata degna di una “strega”: per un banale adulterio l’avrebbero lapidata).
Come non esistono dati complessivi definitivi sulle esecuzioni capitali, così non si conosce con precisione il numero delle donne giustiziate. Le informazioni di Amnesty International segnalano un tendenziale aumento dell’uso della pena capitale con periodiche impennate.
Se il numero medio annuo di esecuzioni tra il 1980 e il 1986 era stato di 29, tra il 1987 e il 1999 saliva a 73, con il poco invidiabile record di 191 nel 1995.
Complessivamente, dal 1980 al 1999 le esecuzioni accertate erano state 1163. Nel 2000 furono 121. In seguito, la media annuale sembrava destinata a diminuire, ma nel 2007 si arrivava a 158. Quasi un centinaio l’anno seguente. Altra impennata nel 2011, con 73 esecuzioni accertate dopo che nel 2010 erano scese a 27.
Nel 2012 il 2 gennaio si contavano già 3 esecuzioni, destinate a diventare una ventina nel corso dell’anno.
Secondo un nuovo aggiornamento fatto all’epoca da AI, ma calcolando solo quelle eseguite dal 1985, con il 2013 le esecuzioni approdavano a quota 2000.
Nel 2014 furono una novantina.
Ulteriore aumento l’anno successivo: almeno 85 tra gennaio e maggio. Un ritmo che sarà mantenuto per tutto il 2015. Alla fine dell’anno, secondo i dati forniti da “Nessuno tocchi Caino”, se ne conteranno 159 (tra cui 72 stranieri).
Sempre nel 2015 suscitò scalpore la notizia che Riad intendeva assumere almeno otto nuovi boia per far fronte all’incremento delle esecuzioni.
2 gennaio 2016: ben 47 esecuzioni simultanee nello stesso giorno (tra cui quella di un leader sciita). Alla fine dell’anno Oltre 150 (una ventina gli stranieri) il conto finale dell’anno.
La prima esecuzione del 2017 risale al 7 gennaio. La vittima, un saudita, Mamdouh Al Anzi. Era stato condannato per aver ucciso un connazionale durante una lite.
Oltre che per omicidio, stupro, rapina a mano armata e traffico di droga, la pena capitale è prevista per ogni atto di “corruzione sulla terra”. Quindi apostasia, adulterio (prevista la lapidazione), sodomia e il già citato “esercizio di arti magiche”. Circa due terzi dei condannati a morte sono stranieri, in quanto i processi offrono scarse possibilità di difesa ai lavoratori immigrati. Molti di loro non comprendono bene la lingua e comunque, secondo AI, “non vengono messi in condizione di difendersi”.
Frequenti sono i casi di donne, in genere filippine assunte come domestiche, che uccidono il datore di lavoro per difendersi da un tentativo di stupro. Magari inconsapevolmente, queste donne lavoratrici mettono in pratica “la prosecuzione della lotta di classe con altri mezzi”.
Senza poi dimenticare che l’Arabia Saudita (definito lo “Stato islamico bianco”, per distinguerlo da quello “nero” dell’ISIS) non risparmia nemmeno i minorenni, trasgredendo le norme internazionali.
Tra le decine di donne uccise per mano dello Stato saudita, gran parte erano accusate di omicidio nei confronti del marito o del padre, una forma di ribellione alla condizione di subalternità imposta dalle tradizioni culturali e religiose. In molti casi sono costrette a confessare a causa dei metodi brutali usati dai poliziotti. Funzionari maschi che approfittano della condizione di svantaggio in cui versa la donna nella società saudita, fortemente caratterizzata in senso maschilista e gerarchico.
Nonostante tutto questo, la maggior parte dei media occidentali sembra riservare un trattamento di riguardo al fondamentalismo saudita. Merito delle forniture petrolifere?