Più autonomia potrà risolvere e superare i conflitti tra le diverse etnie presenti in Etiopia?
A quanto pare nel Paese va rinforzandosi il federalismo e si opera per il superamento di antichi conflitti etnici attraverso una maggiore autonomia. Soluzione forse inevitabile in uno Stato costituito da un mosaico di etnie conviventi con quelle dei tre gruppi principali (amhara, oromo e sidama).
Un primo segnale positivo era giunto nel 2018 con la nomina a primo ministro di Abyi Ahmed, di origini miste oromo-amhara e per questo inizialmente ben accetto da entrambi i gruppi etnici (anche se poi gli oromo lo hanno accusato di “tradimento”).
Abyi Ahmed aveva intrapreso alcune riforme a favore delle storiche rivendicazioni identitarie e territoriali rimaste irrisolte, in parte conseguenza di inopportune precedenti divisioni amministrative.
Gli ultimi referendum di questo genere erano stati quelli del 20 novembre 2019 e del 23 novembre 2021. Avevano rispettivamente sancito la nascita di due nuovi Stati federali, Sidama (dove il 99,7% per cento degli aventi diritto si era recato alle urne e il 98,5% aveva votato per l’autonomia) e South West. Separandosi entrambi dallo snnpr (Stato regionale delle nazioni, nazionalità e popoli del sud) già teatro di scontri e conflitti etnici.
Previsto per il 6 febbraio 2023, il nuovo referendum si terrà nella prospettiva della creazione di un dodicesimo stato regionale. Dovrebbe svolgersi in sei zone amministrative (Wolayita, Gamo, Gofa, South Omo, Gedeo e Konso) e cinque distretti speciali (Amaro, Burji, Basketo, Derashe e Alle). Attualmente integrati nello snnpr.
Risale al 1995 la costituzione basata sul “federalismo etnico” che formalmente garantiva una relativa autonomia alle oltre ottanta etnie del Paese (uno dei più popolati dell’Africa con quasi 120 milioni di abitanti). Possibilità non sempre adeguatamente accolta dagli interessati o rispettata dai governi. Si consideri a titolo di esempio il conflitto armato nel nord tra il governo centrale e l’eprdf, la coalizione guidata dal Fronte di liberazione popolare del Tigray (tplf).
Anche recentemente, in settembre, si era nuovamente interrotta la tregua durata alcuni mesi nella prospettiva di una adeguata soluzione politica. Poi il 2 novembre gli accordi confermati in Kenya dopo dieci giorni (e che in teoria prevedevano il disarmo dei combattenti del tplf entro la metà di dicembre, tutto da verificare naturalmente). Altri conflitti ricorrenti, quello con l’Esercito di liberazione oromo e la ribellione del Benishangul (ovest dell’Etiopia).
Strutture regionali
Ma i problemi non riguardano soltanto le questioni etniche. Altre emergenze coinvolgono trasversalmente ogni regione del Paese, in particolare le ultime generazioni. Con il 70% della popolazione sotto i 35 anni (in buona parte disoccupata, emarginata nonostante il notevole incremento della scolarizzazione), manifestazioni, scioperi, rivolte e disordini sono fenomeni ricorrenti e in genere repressi con durezza.
Ma contemporaneamente al contenimento del ribellismo, i governi hanno sviluppato un altro modo per controllare, incanalare le istanze della gioventù etiope: quello di integrarli in formazioni giovanili strutturate su base regionale. Come la milizia “Fano” per gli amhara (una delle più consistenti numericamente e ben armata, talora qualificati come “vigilantes”) e i “Qerro” (sinonimo di “scapoli”, molti legati al sistema tradizionale di autogoverno, democratico e inclusivo) per gli oromo. In passato alleati dei Fano, erano poi sorti contrasti a causa dell’ideologia pan-etiopica, egemonica e antifederale caratteristica degli amhara.
Consistenti numericamente anche altre organizzazioni giovanili come gli “Yelega” in Wolayta, gli “Ejeetto” nel Sidamo, a cui si sono aggiunti “Nebro”, “Zarma”, “Aeigo” e “Dhaaldiim”.