Nell’immaginario comune l’Iran è associato a progetti militaristi, proclami antisionisti, sentimenti antiamericani e fanatismo islamico. Poche persone, sentendo parlare di luoghi come Isfahan, Teheran o Tabriz, penserebbero a imponenti cattedrali e antichi monasteri, come se il cristianesimo non potesse esistere in una repubblica fondata sul Corano. Eppure, la Persia ospita da almeno 2000 anni una folta comunità armena, composta soprattutto da famiglie che si stabilirono nella nazione mediorientale durante il XVII secolo. Per giunta, l’Iran custodisce pregevoli monumenti cristiani, alcuni dei quali rientrano tra le chiese più antiche del mondo.
Il Grande Esilio
Tra il 1604 e il 1605, durante la guerra tra Impero ottomano e Persia safavide, lo shah Abbas I detto il Grande ordinò la massiccia deportazione degli abitanti del Caucaso meridionale, composti soprattutto da armeni, georgiani ed ebrei. L’operazione rientrava nella tattica di terra bruciata adoperata dalle truppe persiane, per impedire al nemico di trarre beneficio dalle zone occupate.
Il progetto aveva anche l’obiettivo di sviluppare i centri urbani dell’Impero safavide – in primis l’allora capitale Isfahan – attraverso un incremento demografico imposto dall’alto. In tal modo, tra 250.000 e 300.000 armeni dovettero trasferirsi in Iran, soprattutto nelle aree occidentali e centrali del Paese. I nuovi arrivati diedero così vita a una comunità numerosa e prospera, i cui membri lavoravano come artigiani, mercanti, imprenditori e artisti.
I cristiani, al pari degli ebrei, erano considerati “gente del libro” (ahl al-Kitāb), godendo così dello status di dhimmi (letteralmente “protetti”): analogamente a quanto avveniva nell’Impero ottomano, agli armeni persiani era concessa libertà di culto e autonomia interna. Di conseguenza, questa minoranza poté costruire scuole, luoghi di culto e punti di aggregazione, coesistendo con la maggioranza musulmana.
I successori di Shah Abbas, specialmente nel corso del ‘700, si mostrarono meno tolleranti verso i cristiani, promuovendo politiche ostili come aumenti della tassazione e tentativi di conversione forzata all’islam. Per tale motivo durante il XVIII secolo non furono pochi gli armeni che migrarono in altri Paesi, quali Francia, Russia, Impero ottomano, Stati italiani, Francia, Province Unite dei Paesi Bassi e Confederazione polacco-lituana.
Le due guerre russo-persiane – combattute negli anni 1804-1813 e 1826-1828 – comportarono pesanti conseguenze per la Transcaucasia: i trattati di Gulistan e Turkmenchay, infatti, conferirono all’Impero zarista il controllo dei territori a nord del fiume Arasse, corrispondenti grossomodo alle odierne Armenia, Georgia e Azerbaigian. San Pietroburgo patrocinò il trasferimento degli armeni nelle zone recentemente conquistate, reputandoli sudditi fedeli in virtù della comune fede cristiana: si stima che nei decenni successivi al 1828 oltre 45.000 di loro abbandonarono l’Iran per reinsediarsi nel Caucaso russo.
Gli armeni persiani tra Qajar e Pahlavi
Nonostante i flussi migratori sopraccitati, in Persia rimase una cospicua comunità armena, presente soprattutto nei centri urbani più rilevanti quali Teheran, Tabriz, Isfahan, Urmia e Arak. Agli inizi del XX secolo la situazione dello Stato persiano – guidato dalla dinastia Qajar – venne mutata dalla rivoluzione costituzionale (1906-1909), che comportò l’introduzione di una carta fondamentale e di un organo rappresentativo chiamato Majlis.
Gli armeni appoggiarono e in alcuni casi presero direttamente parte ai moti costituzionali, come nel caso del celeberrimo rivoluzionario Yeprem Khan Davidyan, ritenuto eroe nazionale dal popolo iraniano. Del resto, la minoranza si giovava del nuovo sistema parlamentare, il quale garantiva la presenza di due rappresentanti della comunità armena nell’assemblea legislativa.

Tra il 1914 e i primi anni ’20 la comunità armenofona nel Paese registrò un incremento della propria consistenza demografica, resa possibile dall’arrivo di decine di migliaia di profughi provenienti dai territori anatolici, sfuggiti al genocidio perpetrato dai triumviri ottomani. A dire il vero, la maggioranza dei fuggiaschi trascorse pochi anni in Persia, decidendo di trasferirsi altrove nel periodo tra le due guerre mondiali: soltanto una fetta minoritaria scelse di rimanere nella nazione ospitante.
Nel 1925 la dinastia Qajar venne definitivamente deposta in favore dei Pahlavi, il cui primo esponente, Reza Shah, adottò una politica assai poco simpatetica verso la minoranza armena. Invero, negli anni ’20 l’insegnamento scolastico della lingua minoritaria fu limitato in favore del persiano, ma nel 1938 il monarca ordinò la chiusura totale delle scuole armene. La comunità armena, infatti, era vista con sospetto dalle autorità iraniane, poiché da un lato era giudicata d’intralcio al processo di nation-building incentrato sulla persianità del Paese, dall’altro era considerata portatrice dell’ideologia bolscevica, dato che all’epoca l’Armenia era parte dell’Unione Sovietica.
Soltanto l’abdicazione dell’imperatore (1941) e la sua sostituzione con il figlio Mohammed Reza Pahlavi migliorarono la situazione. Sotto il nuovo monarca gli armeni iraniani sperimentarono la propria età dell’oro: riaprirono scuole, aumentarono le chiese sparse per il Paese e costruirono una rete associativa formata da luoghi di ritrovo e organizzazioni culturali e sportive. L’incremento demografico, inoltre, portò i membri della comunità a lambire la cifra di 200.000-300.000 individui.
L’ayatollah e la croce
La fine del periodo monarchico rappresenta uno spartiacque per la storia iraniana, specialmente dal punto di vista delle minoranze cristiane. Nel 1979 la rivoluzione islamica rovesciò il regime di Mohammad Reza Pahlavi – costretto all’esilio – rimpiazzandolo con la teocrazia dell’ayatollah Khomeini. I decenni seguenti videro calare drasticamente il numero di armeni presenti in Iran, decisi ad abbandonare la terra natale a causa non solo del timore di essere perseguitati, ma anche del conflitto con il vicino Iraq (1980-1988) e delle sanzioni internazionali che tuttora colpiscono Teheran. La principale destinazione degli espatriati sono gli Stati Uniti, seguiti da Canada, Francia, Germania, Australia e perfino Armenia, dove 25.000 armeni iraniani erano migrati già negli anni ’40.
Il numero dei rimasti, invece, viaggia tra le 25.000 e le 80.000 unità, anche se alcune stime propongono la cifra di 100.000 individui: essi appartengono alla Chiesa apostolica armena, eccezion fatta per alcune centinaia di persone affiliate alla Chiesa armeno-cattolica. Purtroppo, la situazione geopolitica della zona, caratterizzata dalla presenza di un regime autoritario e teocratico in conflitto con Gerusalemme e Washington, complica le condizioni di vita per coloro che non hanno abbonato l’Iran.
Nel 1981 il nuovo regime vietò l’insegnamento delle lingue minoritarie all’interno dell’istruzione, suscitando vive rimostranze da parte armena. Pertanto, le autorità concessero la possibilità di insegnare l’armeno nelle scuole cristiane, sebbene per poche ore a settimana: il governo islamista, infatti, temeva le spinte centrifughe esistenti nel Paese, soprattutto in zone densamente popolate da minoranze etno-linguistiche, come l’Azerbaigian iraniano e il Kurdistan. Il ripensamento fu giustificato ricorrendo ai legami tra lingua armena e Chiesa apostolica, dato che la prima rappresenta l’idioma ufficiale della seconda.
Attualmente gli armeni sono riconosciuti de jure come minoranza religiosa, cosicché lo Stato riconosce loro il diritto di inviare due rappresentanti in parlamento, commemorare il Metz Yeghérn e mantenere appositi edifici ecclesiastici e scolastici. Questa minoranza dispone pure di due testate pubblicate nella propria lingua madre, ovvero il quotidiano Alik e il settimanale Arax, entrambi editi a Teheran. In quanto non musulmani, però, subiscono discriminazioni sociali e giuridiche: ad esempio, non possono essere giudici, ricoprire cariche pubbliche troppo elevate, ereditare beni da un musulmano e fornire testimonianze di pari valore rispetto a un concittadino maomettano.
La situazione è aggravata dalle frequenti tensioni che intercorrono tra la Repubblica islamica e le nazioni occidentali, in particolare Stati Uniti e Israele. Durante la recente guerra dei dodici giorni, alcuni missili sono atterrati nei paraggi dell’ufficio editoriale di Alik, danneggiando l’edificio senza provocare morti o feriti. Il timore di perdere la vita ha spinto molti ad abbandonare temporaneamente il Paese, cercando rifugio nella vicina Armenia: fortunatamente, pare che nessun armeno sia deceduto durante gli scontri.
Il patrimonio armeno in Iran
Nella regione iraniana dell’Azerbaigian – da non confondere con l’omonima repubblica caucasica – figurano oltre centro edifici cristiani appartenenti alla minoranza armena, a testimonianza della loro millenaria presenza. Gli esempi più noti sono la cappella di Dzordzor e i monasteri dei Santi Stefano e Taddeo, riconosciuti dall’unesco come patrimonio dell’umanità. L’ultimo luogo di culto, nel dettaglio, rientra nel novero delle chiese più antiche tuttora esistenti, in quanto fondato tra il I e il III secolo; gli altri due, invece, risalgono al periodo medievale.
All’interno del quartiere armeno di Isfahan, noto come Nuova Julfa, è possibile visitare l’imponente cattedrale dedicata al Santo Salvatore, caratterizzata da un aspetto peculiare che combina stili persiano, occidentale e armeno. Il duomo, chiamato vank (“monastero” o “convento”) dagli abitanti, fu eretto nel 1606 dagli armeni della città, arrivati in loco durante il Grande Esilio. Un discorso analogo può essere fatto per altre chiese – come quelle di San Nicola, Santa Maria, San Giovanni Battista e Santa Betlemme – situate nella medesima zona, poiché condividono origini storiche e aspetti stilistici con il duomo.
Nella capitale, invece, svetta la moderna cattedrale dedicata a San Sergio, aperta nel 1970 durante l’era Pahlavi. Tre anni più tardi fu inaugurato il memoriale in ricordo del genocidio armeno, visibile nel cortile della chiesa madre. A Teheran, comunque, vi sono una decina di chiese cristiane innalzate dalla minoranza armenofona: la più antica, costruita in onore dei Santi Taddeo e Bartolomeo, risale al 1768.












