Propongo qualche considerazione, mi auguro “non allineata”, su quanto sta avvenendo in Iran. Già in altre sedi avevo sottolineato come l’autodeterminazione dei popoli in generale, e l’indipendentismo in particolare, siano divenuti una variabile “USA e getta” a seconda degli interessi geo-strategici in gioco: quella che uno studioso catalano aveva definito “indipendenza a geometria variabile”.
Gli esempi dei “due pesi e due misure” si sprecano, e i curdi, da questo punto di vista non fanno certo eccezione. Beatificati qualche anno fa quando si facevano massacrare per sconfiggere l’ISIS, erano stati poi di fatto dimenticati. Abbandonati in balia delle milizie islamiste filoturche in Rojava, sotto i bombardamenti turchi (anche con armi proibite dalla convenzione di Ginevra) in Bashur e sepolti vivi nelle carceri di sterminio in Turchia.
Quanto al Rojhilat, il Kurdistan sotto amministrazione iraniana, se si esclude in passato qualche tentativo di strumentalizzazione da parte del Mossad, parevano completamente scomparsi dal radar. Nuovamente alla ribalta in quanto tra i principali protagonisti della rivolta in corso (innescata dall’assassinio di Jina Amini) tornano a godere di qualche attenzione – interessata – da parte dei media occidentali.
Talvolta in maniera paradossale. In un recente articolo apparso su un noto quotidiano italico si celebra “l’arte di resistere” di questo popolo indomito, ma a mio avviso in modo alquanto parziale. Ben due paginoni per ricordare, oltre alla lotta contro ISIS e Daesh, perfino il “rapporto turbolento” dei curdi dell’Iraq con Bagdad; e dilungarsi – addirittura – sulle antiche battaglie dei carduchi (probabili progenitori dei curdi) celebrate da Senofonte in Anabasi.
Ma nessun accenno al Bakur, il Kurdistan sotto occupazione turca, o al “Mandela curdo” Ocalan.
Riproponendo comunque una visione riduttiva – sempre a mio modesto avviso – dell’attuale crisi iraniana interpretata come legata essenzialmente alla questione dell’hijab. In realtà ritengo che il problema, in particolare per le donne curde, sia leggermente più complesso. Andarsi a rivedere le percentuali di donne impiccate per essersi ribellate al patriarcato; con le minorenni – in genere vittime di matrimoni combinati – che se accusate di aver ammazzato il marito o un cognato, rimangono in cella in attesa della maggiore età e dell’esecuzione.
Del resto anche la rivolta nel famigerato carcere di Evin, a Teheran, sembrerebbe essere stata innescata, nella serata del 15 ottobre, dai prigionieri politici curdi. Non i soli qui rinchiusi, ovviamente (ci sarebbero anche personaggi noti, in quanto stranieri, come la franco-iraniana Fariba Adelkhah e, almeno fino alla fine di settembre, lo statunitense di origine iraniana Siamak Namazi).
Per completezza va riportata anche un’altra inquietante ipotesi. Ossia che potrebbero essere state le stesse autorità carcerarie ad appiccare l’incendio come pretesto per eliminare dei pericolosi dissidenti.
Minoranze, il danno e la beffa
In ogni caso, oltre a strumentalizzare le lotte dei curdi, stavolta si è fatto avanti anche chi vorrebbe ora emarginarli, ridimensionare il ruolo fondamentale che questa “minoranza” ha avuto, insieme ai beluci, nella rivolta in atto ormai da oltre un mese.
Il 15 ottobre a Londra, in una manifestazione di sostegno ai manifestanti e rivoltosi iraniani, i nostalgici dell’artificiosa monarchia decaduta nel 1979 hanno cercato di allontanare chi inalberava bandiere del Kurdistan e del Belucistan. In quanto, secondo i seguaci della buonanima di Mohammad Reza Pahlevi, “non graditi”.
E rivendicando il fatto che nel 1936 Reżā Shāh Pahlavī (il padre di Mohammad Reza) aveva proibito per decreto l’uso di hijab e chador.
Ma sorvolando, al solito, sulle concessioni fatte tre anni prima alla Anglo-Persian Oil Company, operazione a cui tenterà di porre termine nel 1951 Mossadeq (poi destituito con un colpo di stato imbastito da USA e Gran Bretagna) riuscendo anche per un breve periodo ad allontanare lo scià dal Paese.
E così i tardi epigoni di quel regime crudele (ricordate le brutalità, le torture commesse tra il 1957 e il 1979 dalla polizia segreta, la Savak?), mentre con grande faccia tosta pubblicamente invocano l’unità del popolo iraniano contro l’attuale regime, negano a priori i diritti dei popoli minoritari (ma sarebbe più corretto definirli “minorizzati” in quanto sia i curdi sia i beluci vivono separati in vari Stati, divisi da artificiose frontiere).
Popoli sottoposti all’egemonia persiana e a cui viene tuttora negato il diritto alla propria lingua e cultura. Per non parlare di quello all’autodeterminazione.
Oggi con gli ayatollah, così come ieri con lo scià.
Fatti del genere, oltre che a Londra, erano già avvenuti a Parigi davanti all’Hôtel de Ville il 6 ottobre. Durante – si badi bene – l’omaggio reso dalla sindaca di Parigi Anne Hidalgo a Jina Amini, la giovane curda uccisa dalla polizia.
Appare evidente come questi reazionari monarchici (potremmo, credo, definirli tranquillamente dei “fascisti”) vorrebbero impadronirsi della rivolta popolare, strumentalizzarla ai loro fini. Quanto al fatto che possano riuscirci, è tutto un altro paio di maniche.