foto di Uliano Massimi
Nel folto della foresta equatoriale di Nki nel Camerun meridionale vivono ancora sparuti nuclei familiari di etnia baka, un popolo di cacciatori-raccoglitori che abitano le foreste da tempi immemori. Ma oggi, a causa della creazione di parchi nazionali e dell’assegnazione da parte del governo di grandi aree per adibirle a safari di caccia, questo antico popolo si trova sull’orlo dell’estinzione. Costretti ad abbandonare la lora casa, la selva, si ritrovano a vivere sedentari in piccoli villaggi perdendo così la loro identità e le loro tradizioni.
Partiti da Kilimba, un piccolo villaggio a 25 km da Moulondou, vicino al confine con il Congo Brazzaville, abbiamo attraversato diverse piantagioni di cacao e platano prima di addentrarci nella foresta equatoriale di Nki. Da oltre 5 ore marciamo al cospetto di alberi colossali avvinghiati tra loro da decine e decine di metri di liane e rampicanti. Piante epifite costellano i loro tronchi maestosi. Davanti a noi in una piccola radura si stagliano ora alcune mongulu, le tipiche abitazioni dei baka, i nomadi della foresta, costruite con rami e foglie.
Improvvisamente udiamo voci di bambini provenire da un vicino corso d’acqua nascosto tra la fitta vegetazione; ed ecco venirci incontro Benjamin, l’anziano capo villaggio che conosce bene i due baka che sono con me: Norbert la guida e Gaston il portatore.
Gli abitanti sono arrivati qui ieri e le donne stanno ultimando la costruzione delle mongulu. Dopo aver preparato una struttura emisferica con rametti flessibili, esse incidono gli steli di alcune grandi foglie appartenenti alla famiglia delle Marantaceae per poi incastrarle sull’intelaiatura. Per rendere la struttura impermeabile, sul tetto vengono posizionati rami con foglie verdi, oltre a fogliame secco misto a terriccio raccolto dal terreno circostante. Ai lati altri rami con foglie, piccoli tronchi secchi e stringhe vegetali tutt’attorno per rendere la struttura più stabile.
Nel frattempo Norbert e Gaston preparano il terreno per la mia… mongulu di nylon, oltre a costruire in un batter d’occhio un paio di comode panche di legno. La moglie di Benjamin rientra all’accampamento con diversi bambini. La battuta di pesca è stata proficua. Hanno riempito un piccolo contenitore di plastica di gamberetti, granchi e pesciolini. Poco dopo anche gli uomini rientrano alle capanne, purtroppo a mani vuote. Negli ultimi tempi, a causa soprattutto del bracconaggio, la quantità delle prede è sempre più scarsa e i nuclei familiari sono pertanto costretti a frequenti spostamenti. Periodicamente – ma soprattutto durante la stagione della raccolta del cacao – le famiglie Baka fanno ritorno al villaggio per guadagnare del denaro e prendersi cura del proprio raccolto.
Consegniamo alle donne alcuni platani e qualche arachide che abbiamo portato con noi per preparare la salsa. Il cibo viene suddiviso equamente tra le famiglie. Ogni mongulu ha il proprio focolare domestico. Mentre le donne si mettono “ai fornelli”, gli uomini fumano le sigarette che ho comprato in città. La moglie di Benjamin pressa nel mortaio dei peperoncini ai quali unisce foglie dal contenuto salino. Il composto viene aggiunto al pescato, parte del quale è stato già avviluppato dentro a grandi foglie e messo a cuocere sulle braci. Costituirà la colazione dell’indomani. Il buio scende rapido sulla selva e le mongulu. Solo i fuochi riescono a perforare un poco le tenebre.
Dopo cena, seduto sulla panca di legno, ascolto con emozione lunghe conversazioni in una lingua incomprensibile ma molto musicale piena di strane espressioni di meraviglia: “iiiiihhhhh, ooooohhhhh, uuuuuhhhhh”, con il sottofondo mai monotono della foresta.
Mentre volti e capanne vengono rischiarati da un tenue fuoco alimentato da pezzi di resina raccolta nella giungla – resina simile all’ambra – ascolto in lontananza il richiamo dell’irace degli alberi (Dendrohirax dorsalis, detto anche procavia) che, forse per delimitare il proprio territorio, emette uno dei richiami più belli e misteriosi che abbia mai udito; un suono dalla cadenza costante e di tonalità sempre più alta fino a quando, all’apice dell’intensità, smette di colpo per alcuni minuti per riprendere in un luogo apparentemente lontano dal precedente. Le voci sommesse dei miei amici mi conducono ben presto nel mondo dei sogni.
L’indomani vengo svegliato dal rumore sordo di grossi tronchi sbattuti in terra dalle donne per frantumarli. I fuochi serviranno a riscaldare i corpi intorpiditi dalle fresche notti della selva. Dopo colazione a base di pesce e platano, ci rechiamo nel fitto della boscaglia a predisporre le trappole e a cercare tuberi, funghi e pesce per l’accampamento. Benjamin e i bambini resteranno a sorvegliare le capanne. Seguiamo un sentiero aperto ieri dai baka e dopo 45 minuti arriviamo sul posto. Le trappole consistono in laccetti di acciaio posizionati lungo i sentieri utilizzati dai piccoli mammiferi della giungla. Si scava una piccola buca profonda circa 10 centimetri e la si ricopre con cortecce, sulle quali viene deposto del terriccio per nascondere il laccio che viene tensionato con un ramo flessibile.
Nel frattempo le donne hanno trovato una pianta di igname o yam (dioscorea). Si tratta di una pianta rampicante che produce una grande quantità di tuberi i quali nel passato costituivano la base dell’alimentazione di questo popolo. Oggi i baka all’igname alternano riso, farina di manioca e platano. Con l’aiuto del machete e delle mani per estrarre la terra, si scava una buca di circa un metro di profondità e larga altrettanto per riuscire finalmente a estrarre i tuberi fino a riempire le due ceste di steli intrecciati.
Nella tarda mattinata ci spostiamo nel vicino corso d’acqua per pescare. Il sistema di pesca escogitato dai baka, i nomadi della foresta, è veramente singolare. In un primo momento vengono create due dighe con piccoli tronchi e fango a monte e a valle di un tratto del ruscello. Poi, arrotolate grandi foglie a mo’ di palette, si comincia a svuotare l’acqua presente tra le due dighe. Nel giro di 15 minuti tutte le forme di vita ivi presenti rimangono all’asciutto. Non resta che raccogliere i pesciolini e i gamberetti morenti nascosti tra la fanghiglia. Una fatica maggiore occorre per stanare i granchi dai buchi nei quali si stanno velocemente rifugiando. Alla fine della giornata avremo riempito un grosso secchio di plastica. In fila indiana ritorniamo a casa. Uno degli uomini si attarda per cercare funghi commestibili.
Nell’avvicinarmi alla mia strana mongulu, noto sul telo esterno un numero spropositato di mosche nere che si stanno accoppiando. Solo la mattina successiva scoprirò che tutti gli interstizi sono occupati dalle uova depositate dalle mosche il giorno precedente.
Mentre le donne sono intente a preparare la cena che sembra assomigliare a tante altre, gli uomini si rilassano fumando sigarette. Ma anche le donne non disdegnano il fumo. Pian piano il giorno scema lasciando il campo alle creature della notte.
Il mattino successivo, dopo i saluti di rito agli abitanti, lasciamo il villaggio per incamminarci lungo un sentiero che in poco più di un’ora ci conduce in un’ampia radura occupata da otto mongulu. Daniel, il capo villaggio, si prende cura di noi. L’accampamento è pieno di donne e bambini che rimangono stupiti del nostro arrivo ma soprattutto della mia presenza. Lo zaino, madido di sudore, è subito preda di numerose piccole creature alate alla ricerca dei sali minerali. La permanenza nella radura è resa insopportabile da una quantità inimmaginabile di piccoli insetti che si infilano in tutti gli interstizi del viso: naso, orecchie e occhi. Anche vespe e farfalle sono a caccia dei sali minerali emanati dai nostri corpi. Solo al calar della sera il tormento volgerà al termine.
Dentro la foresta invece ritroveremo la pace nonostante sporadiche zanzare.
Dall’accampamento udiamo i richiami disperati di un cefalofo grigio caduto nella trappola. La piccola antilope verrà appesa a un palo tra le mongulu in attesa di essere cucinata. Nella tarda mattinata ci addentriamo nella foresta per raccogliere le noci selvatiche che serviranno per preparare la salsa. Dopo la raccolta ci si siede e si procede all’apertura con il machete. Il frutto verrà quindi tostato e pestato nel mortaio. Nel pomeriggio alcune donne fanno ritorno all’accampamento con igname e funghi biancastri.
Nel frattempo un bambino sta completando la costruzione di una chitarra tradizionale, utilizzando come cassa di risonanza una grossa bottiglia di plastica e come corda il cavo di acciaio di una delle trappole. Stimolati dalla musica che ne fuoriesce, due bambini di pochi anni ballano allegramente. Nel tardo pomeriggio un uomo e alcuni giovani fanno ritorno dal villaggio di Kilimba con platani e parti di scimmia catturata nella mattinata da Papa, uno dei baka del gruppo di Benjamin. Mentre le donne procedono nei preparativi della cena, gli uomini fumano tabacco e commentano le ultime notizie provenienti dal villaggio. Uno di loro mi mostra una grossa tartaruga terricola catturata ieri che mi verrà offerta per cena. Il rettile viene immediatamente messo vivo sul fuoco. Le tartarughe, secondo la loro tradizione, vengono offerte in pasto a ospiti importanti.
Cala la notte sulla foresta, una notte calma ma piena di suoni. A volte, impossibilitato a dormire per il gran caldo, mi sono ritrovato spettatore del concerto della Natura, mai uguale e mai noioso, che neppure il più grande maestro compositore sarebbe in grado di eguagliare.
N O T E
Come tutte le popolazioni di cacciatori-raccoglitori nomadi, anche i baka si muovono ignorando le “frontiere”, che in Africa non hanno nessuna base antropologica né storica, ma sono soltanto un’eredità coloniale. Questo comporta che all’interno di alcuni Stati l’etnia si scontri con politiche penalizzanti se non minacciose. In Congo, per esempio, il loro peggior nemico è il WWF. L’area protetta del Messok Dja, gestita dalla multinazionale ecologista, è totalmente interdetta ai baka i quali, come osserva Survival, “sono una tribù di cacciatori-raccoglitori con una comprensione unica di cosa significa vivere in modo sostenibile, e questo è decisamente in sintonia con gli obiettivi del WWF per la conservazione. Se la biodiversità è così rigogliosa in queste foreste, è perché i Baka l’hanno alimentata e ben gestita grazie alle loro vastissime conoscenze in materia di conservazione”.
Questo per quanto riguarda l’“ecologismo”. Per quanto invece riguarda l’“etnismo” basta aggiungere che tenere i baka fuori dalle foreste significa distruggerli culturalmente ed economicamente. Fisicamente, sembra che ci pensino i guardaparco con stupri e uccisioni ai danni di questa popolazione, e purtroppo si tratta di gentaglia stipendiata proprio dal WWF. Non è una semplice diceria: negli USA e in UK sono all’opera commissioni di inchiesta contro l’organizzazione, mentre la Germania le ha già congelato i finanziamenti. [NdR]