C’è un’Italia federalista da ricordare proprio mentre celebriamo l’anniversario dell’assassinio di Matteotti.
La storiografia conformista ha sempre dimenticato che una concreta alternativa autonomista ebbe un certo peso proprio nel momento drammatico della crisi dello Stato, falsamente liberale, che non seppe o non volle reagire al centralismo fascista, nemmeno quando il regime mostrò il suo volto più feroce e criminale con l’omicidio del deputato social-riformista.
Arroccate nella difesa dello Stato (solo formalmente) costituzionale o perdute nel labirinto senza uscita della mancata rivoluzione del biennio rosso, le sparse forze delle opposizioni non riuscirono a indicare una credibile alternativa tra camicie nere e colletti bianchi, e si sbandarono, finendo poi in buona parte ad aggregarsi al carro littorio; il quale, in fondo in fondo, corrispondeva alle aspettative storiche dell’imperialismo straccione di cui erano anch’esse espressione.
Eppure, proprio in quei momenti di grave crisi, non mancarono spiriti liberi e pensatori lungimiranti, capaci di indicare nuove vie per fermare una volta per tutte il processo autoritario portato alle estreme conseguenze che stavano mettendo in atto Corona, ceti medi instabili, militarismo aggressivo e le determinanti forze del potere economico e finanziario.
Pensiero federalista
Apertamente su posizioni autonomiste, scesero in campo il Partito Sardo d’Azione e il piemontese Partito dei Contadini con il suo motto “da noi”, ma non furono i soli. Oltre ai gruppi politici delle minoranze sudtirolesi, slovene e croate, si proclamarono per un’alternativa anticentralista i giovani repubblicani della rivista “Critica Politica” di Oliviero Zuccarini, che pubblicava i testi di Arcangelo Ghiglieri e proclamava l’attualità di una
organizzazione regionale e nazionale su basi federali: autonomia dei comuni e delle regioni nella loro costituzione e nei loro affari […] L’accentramento è incompatibile con la democrazia: distrugge la libertà, non la realizza. Il decentramento, in quanto è molteplicità, varietà ed autonomia di organi e di funzioni ed in quanto avvicina gli interessi agli interessati, ha come realizzazione democratica un’importanza maggiore del suffragio universale, della proporzionale e di ogni riforma del meccanismo elettorale.
Su analoghe posizioni, ma ancor più spinte, si schierò il lombardo Carlo Molaschi, anarchico senza se e senza ma, che pubblicò proprio nel 1924 il saggio Federalismo e libertà, piccola ma preziosa opera che gli attuali avversari, sedicenti di “sinistra”, delle riforme autonomiste evidentemente non conoscono; o peggio hanno buttato nella discarica assieme al meglio del patrimonio ideale del movimento operaio.
Nel saggio, stampato dal gruppo di Pensiero e Libertà, Molaschi critica aspramente il processo di costruzione violenta dello Stato unitario, ricordando che già allora uomini lungimiranti come Cattaneo e Giuseppe Ferrari “tentavano di concretare un sistema d’ordinamento statale e di convivenza sociale in cui la Regione rimanesse autonoma ed in cui gli interessi delle classi povere non venissero sacrificati ai privilegi delle classi abbienti”; una battaglia ovviamente perduta, di fronte alla marcia sanguinaria degli eserciti sabaudisti, delle avventure garibaldinesche e soprattutto dal prevalere degli interessi dei ceti economici dominanti.
Misconosciuta come realtà a sé stante, tuttavia, la Regione rimase “una realtà che ha profonde radici nel divario esistente fra Italia continentale, Italia peninsulare ed Isole”, un divario storico tra quelle che Molaschi definiva “Regioni etnografiche”, che non si poté mai cancellare, anche se “ad unità nazionale compiuta, si è cercato di attenuare le disparità tra Nord e Sud amalgamando le diverse regioni nell’uguaglianza delle leggi, non solo politiche ma anche economiche. E si mandò al Nord un esercito di funzionari reclutati nelle regioni del Sud e si mandarono al Sud i reggimenti dei soldati arruolati nelle regioni del Nord. L’incrocio non ha ancora risolto nulla: la realtà regionale resta sempre”.
A misconoscerla era ed è “lo Stato accentratore”, con la sua burocrazia che “pesa sul lavoro con tutte le conseguenze di corruzione, di sperpero, di pesi fiscali sproporzionati” e favorisce
il formarsi ed il persistere nelle masse dei cittadini, di una pigra mentalità; è il cittadino che aspetta tutto dallo Stato; è lo Stato che diventa il “buon padre” che provvede a tutto: al bene ed al male. Il cittadino perde ogni spirito d’audacia e d’iniziativa e di fronte alle crisi nazionali non agisce di moto proprio ma aspetta i provvedimenti dello Stato.
Questa pigra mentalità rende il cittadino servo del potere, suddito rassegnato che accetta sempre, individuo mansueto di null’altro preoccupato che del proprio benessere personale, desideroso sempre di vivere in armonia ed in servitù di chi sta in alto per aver favori, benefici e facilitazioni speciali.
Lo Stato inoltre è figlio non degenere del principio d’autorità, e più l’autorità è forte, più lo Stato è accentrato. Perciò tende ad espandersi; sconfina dalla politica per entrare nel campo dell’amministrazione; non pago ancora, entra nel campo del lavoro e s’accaparra i servizi pubblici.Ovunque porta il peso della propria burocrazia, la malattia dello sperpero, il veleno del nepotismo, del favoritismo, della corruzione; porta l’elefantiasi della sua pesante struttura.
Parole di cent’anni fa. Ancora purtroppo attuali.