La Valtiberina è una delle regioni storiche meno conosciute della Toscana, ma tra le più affascinanti e per certi versi misteriose dal punto di vista etnico e archeologico. Si tratta di un’area piuttosto estesa (quasi 700 kmq) e poco abitata: 30.000 persone circa, divise in 6 comuni, con una densità di 45 abitanti per kmq, come l’Afghanistan o la Bielorussia. Malgrado prenda il nome dal bacino plasmato dal corso del Tevere, il suo territorio è per l’80% montuoso, ricoperto di foreste e relativamente poco battuto. La sua posizione ne fa una zona di confine, non soltanto dal punto di vista amministrativo ma anche a livello di civiltà storiche, ubicata com’è all’incrocio di celti, etruschi, umbri e piceni.

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Il territorio della Valtiberina è compreso tra due sistemi montuosi che si sviluppano quasi paralleli in direzione nord-sud e fanno da spartiacque tra i bacini dell’Arno, del Tevere e del Marecchia.

La Valtiberina quale regione orografica sarebbe in realtà più vasta: se a nord, est e ovest essa è ben delimitata dalle montagne, verso sud la sua piana centrale prosegue placidamente lungo il flusso del Tevere in direzione di Perugia, creando la Valtiberina umbra, dai caratteri assai simili alla sorella toscana e con Città di Castello per capoluogo. In effetti questa “grande” Valtiberina parrebbe costituire una regione omogenea, racchiusa dalla possente dorsale appenninica a oriente e da altre catene a occidente che la dividono da Casentino, Arezzo e Valdichiana. Non a caso si era parlato in passato di farne una provincia a sé (ma in quale regione: Toscana o Umbria?), e nella pratica l’interazione tra i centri confinari delle due parti – in particolare Sansepolcro, San Giustino e Città di Castello – è ben maggiore rispetto a quella con Arezzo o Perugia, i capoluoghi provinciali. L’economia però non riesce a sopraffare l’identità: i valtiberini settentrionali si sentono fieramente toscani, e il confine regionale – che serpeggia con vistosa incoerenza tra colli e casolari – sembra linguisticamente impermeabile.
La Toscana non è ricca di zone clinali, ossia quelle fasce confinarie tra le parlate in cui accenti e vocaboli si mescolano rendendo la divisione linguistica meno netta. In Padania il fenomeno è diffusissimo, in particolare dove si toccano le quattro regioni di tradizione celtoromanza, mentre dove passa la Linea LaSpezia-Senigallia il salto è netto, soprattutto in Toscana. La spiegazione è, ovviamente, che tanto più due sistemi linguistici sono diversi, tanto meno tendono a fondersi nei punti di contatto.
Detto questo, la situazione del confine tra le due valtiberine resta lo stesso curiosa: per quanto frastagliata come poche, la linea di frontiera tra Umbria e Toscana rispecchia casa per casa la diversa appartenenza. Poiché è difficile pensare, né risulta storicamente, che la Signoria di Firenze e poi il Granducato abbiano disegnato i confini intervistando gli abitanti, si deduce che queste zone fossero già poco abitate e siano state successivamente rinfoltite rispettando com’è ovvio le demarcazioni. Un’ipotesi (abbastanza condivisibile, considerando i caratteri somatici e psicologici) è che una parte dei valtiberini toscani provenga dal vicino Casentino.
Oltreconfine le “stranezze” non sono da meno. Qualche tempo fa trasmisero alla radio un’intervista all’attrice Monica Bellucci, nata a Città di Castello: ricordando la sua provenienza, le chiesero di dire qualcosa in quella parlata, e lei attaccò a esprimersi con quell’accento agropastorale che – nella nostra fantasia e a Cinecittà – dovrebbe risuonare nella fascia comprendente il sud delle Marche, l’Umbria da Perugia in giù e persino la Ciociaria. Evidentemente la Bellucci deve avere lasciato la sua città in fasce e non esserci mai tornata, perché il “castellano”, quando lo senti per la prima volta, ti dà l’impressione di essere una specie di romagnolo. A mano a mano che ascolti, ti rendi conto che a quell’inflessione e a quelle esse mosce si affianca un sottofondo misterioso, per il quale non hai punti di riferimento, ma che non ha nulla di padano; senza contare l’assenza di vocali turbate (ö, ü, eccetera) che in zona faticherebbero a pronunciare.
Qui interviene la singolarità del territorio, il fascino misterioso della Valtiberina. È fuori discussione che questa cantilena romagnola non sia casualmente autoctona, ma provenga in qualche modo dalla Romagna. Ma come? Interrogati, i castellani – che sono consci di questa similarità – rispondono, anche i più colti, che infatti la Romagna è vicina, tutto verrà da lì… Ora, in linea d’aria il confine romagnolo dista 35 km a nord, che diventano una quarantina su strada; considerando, oltretutto, che parliamo di una punta della regione padana che si protende verso sud grazie a Mussolini e al suo desiderio di annettere le sorgenti del Tevere al Forlivese; considerando anche che esiste un solido cuscinetto di etnia toscana a dividere le due realtà.
E allora non sarebbe più semplice prendere atto che pochissimi chilometri a est di Città di Castello, proprio sulle alture che la sovrastano, ci sono gli abitanti del Montefeltro? E che il montefeltrino è una varietà del romagnolo? Ricordo che la prima volta che feci un giro tra queste splendide e semidisabitate alture tra Toscana, Umbria e Marche, sentendomi pienamente ambientato dal punto di vista psicologico nell’Italia centrale, mi ritrovai improvvisamente in un borghetto remoto (Parchiule, per la cronaca) i cui abitanti erano… padani. Facce, modi di fare, accento: sembrava di essere a Bagnacavallo.
Negli anni successivi esplorai questo pezzo di territorio umbro-marchigiano in cui le voci si intersecavano in modo totalmente indipendente dai confini amministrativi, diversamente dalla parte toscana. Rendendomi sempre più conto del fatto che l’“anomalia marchigiana”, in un Paese dove la diseducazione etnica è imperante, fa sì che il nome amministrativo abbia surclassato l’appartenenza culturale, al punto da confondere gli stessi abitanti sulle loro radici. O, in termini più chiari, che il fatto di appartenere alla Regione Marche abbia spinto i montefeltrini a dimenticarsi di essere romagnoli e a non essere riconosciuti come tali dai loro vicini umbro-valtiberini.
L’anomalia marchigiana consiste nel fatto che questa regione amministrativa ha una struttura a dir poco bislacca. La provincia di Pesaro e Urbino non c’entra nulla con l’Italia centrale e dovrebbe essere annessa all’Emilia-Romagna. In particolare, la zona di Pesaro e la costa fino a Senigallia (non a caso, l’Ager Gallicus dei tempi augustei) costituisce la prosecuzione tout-court della riviera romagnola, mentre l’interno urbinate, cioè il Montefeltro, potrebbe essere considerato una variante della Romagna propriamente detta (qualcuno li definisce gallo-piceni). La parte centrale, con Ancona come centro nevralgico, sembrerebbe una regione a sé (saranno loro i marchigiani veri?), mentre il meridione ascolano è strettamente imparentato con l’Abruzzo, almeno linguisticamente. In pratica è come se in un’unica regione confluissero la Padania e il Regno delle Due Sicilie, altrimenti distantissimi anche geograficamente…
D’altra parte, per i compaesani di Valentino Rossi (a proposito, non vi viene da sorridere quando lo presentano come il “pilota marchigiano” e poi lo sentite parlare?) il problema deve essersi posto, giacché alcuni comuni del Montefeltro (Casteldelci, Maiolo, Montecopiolo, Novafeltria, Pennabilli, San Leo, Sant’Agata Feltria, Sassofeltrio e Talamello) sono passati per referendum all’Emilia, e altri costieri, come Gabicce Mare, ci stanno provando.
Tornando ai castellani, oltre al loro “capoluogo” (appartenuto dal XVI al XVIII allo Stato Pontificio) essi abitano comuni come San Giustino, Citerna, Pietralunga, Monte Santa Maria Tiberina, spingendosi verso Umbertide. Hanno caratteristiche del tutto peculiari che li distinguono dagli altri umbri e dai vicini toscani. Anche fisicamente: per esempio, si notano sovente individui con testa ampia e robusta; talvolta la struttura è brevilinea, con gambe corte e tronco ben piantato. I castellani sono persone estremamente gentili e di grande senso civico. Lavoratori scrupolosi e efficienti, hanno creato nelle zone industriali attorno ai principali centri una miriade di attività artigianali e piccole fabbriche, con prodotti e servizi che potrebbero attrarre molto il mercato settentrionale ed estero se fossero meglio pubblicizzati. 1)

Tra etruschi e umbri

Con queste chiacchiere un po’ in libertà volevo introdurre l’atmosfera dell’ambiente valtiberino, in cui si intrecciano comunità differenti e dove anche l’archeologia risente della frammentazione etnica e della non facile accessibilità del territorio. Ben testimoniata, invece, la presenza di fattorie “romane” sulle pendici collinari lungo la piana del Tevere, grosso modo a partire da dove oggi c’è la diga di Montedoglio e andando verso sud (vicino a Celalba è stata individuata la villa di Plinio il Giovane). 2) Scavare un campo lungo il Tevere (sempre tenendo presente che all’altezza di Sansepolcro il corso del fiume è stato deviato di 3 km verso est nel XIII secolo) oggi significa non di rado portare alla luce un’installazione agricola di epoca romana, se non una necropoli con tombe alla cappuccina. Ovviamente per un antropologo, più che per un archeologo, questi insediamenti sono “romani” nel senso dell’epoca, non necessariamente in quello etnico: così come molti casali da queste parti sono attualmente abitati da inglesi, varie fattorie saranno appartenute sia a forestieri sia ad autoctoni di quel tempo e di quell’universo socio-politico.
Più difficile capire chi fossero davvero, questi autoctoni. Malgrado la relativa vicinanza dei “padani” cui si accennava dianzi, non vien da parlare di celti. I galli senoni antenati dei romagnoli sembra si siano spinti fino al Montefeltro in epoca posteriore alla celtizzazione vera e propria della Padania. Tale celtizzazione, tra parentesi, non ha a che vedere con le invasioni galliche del IV secolo a.C., poiché le suddette tribù, paletnologicamente appartenenti alla civiltà di La Tène, arrivarono in una Padania già in buona parte celtica dalla prima età del ferro (culture di Golasecca, Canegrate, Hallstatt). Ammetto che, al mio arrivo qui, per deformazione etnica fui colpito dal nome di un importante torrente, il Cerfone, che mi ricordava il fiume di Biella: brutalizzato in “Cervo” dagli italiani, il nome originale piemontese di quest’ultimo è Saarv o Serf, derivante dal gaelico sar, acqua che scorre (da cui il fiume Saar/Sarre e il lombardo seriola per ruscello). Ma un illustre studioso della zona, l’archeologo Giovanni Nocentini, compose subito la questione spiegandomi che l’idronimo Cerfone è umbro-piceno e si riferisce alla divinità Cerfia.
Questo torrente posto tra la Valtiberina e Arezzo era dunque sacro per gli umbri. Ma, come ha ben raccontato lo stesso Nocentini sulla nostra rivista, il Cerfone è anche dominato da un altrettanto sacro tempio etrusco, quello di Filonica.
Si delinea dunque una situazione protostorica in cui gli antenati dei toscani e dei castellani si muovono per la Valtiberina senza che ci sia possibile capire bene chi e dove comandi prima dell’amministrazione romana. Arezzo, importantissimo centro etrusco, è a pochi chilometri e la sua influenza si sarà di certo fatta sentire, ma è un fatto che nel settentrione tiberino i ritrovamenti collegati a questa civiltà sono rari. Se è vero, come è stato detto, che si sono condotte poche ricerche in questo senso – e alcune parti del territorio di certo non le favoriscono – è anche possibile che le indagini debbano indirizzarsi alla viabilità piuttosto che agli insediamenti stanziali. In altre parole, la Valtiberina toscana ha indubbiamente rappresentato un importante nodo viario per gli etruschi, ed è all’architettura stradale e alla localizzazione dei percorsi che dovremmo rivolgere le nostre ricerche.
L’importanza della viabilità è stata suggerita a Giovanni Nocentini da un particolare ritrovamento lungo la valle del Cerfone, proprio nei pressi del santuario di Filonica, ovvero

la presenza di resti di fusione nella modesta frazione di Albiano, situata, in relazione alla strada che solca la vallata, dalla parte opposta del tempio e un po’ in altura. Qui il proprietario di un vecchio casolare ristrutturato mi mostrava alcuni resti di fusione dicendo che nel raggio di 80-100 metri se ne trovavano in abbondanza. Ben presto si affacciava l’idea della presenza di una fonderia in epoca antica, anche in relazione al contesto naturale, costituito da grandi estensioni boschive a castagni e querce e ben ventilato per correnti d’aria che costantemente percorrono la vallata. Infatti, sia la legna ad alto rendimento calorico – come quella delle specie citate – sia l’abbondanza di ossigeno, possono garantire una buona fusione dei metalli.
Se queste scorie ferrose rinvenute ad Albiano fossero di epoca etrusca, come sembrerebbe, allora dovremmo evincere che il ferro che ivi veniva fuso doveva provenire, almeno in gran parte, dall’Isola d’Elba, dove gli etruschi avevano delle miniere per l’estrazione del ferro. A questo punto dobbiamo chiederci quale percorso facevano gli etruschi, dall’Elba, per giungere qui.

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Le scorie ferrose rinvenute ad Albiano. Foto Nocentini.

L’archeologo Alvaro Tracchi descrive un percorso stradale utilizzato dagli etruschi che porta da Populonia ad Arezzo, cioè da un imbarco per l’Elba verso l’Etruria orientale. 3) Di località in località, la strada arriva a Ciggiano, frazione di Monte San Savino, e da lì con un rettilineo raggiunge la periferia di Arezzo. E qui iniziano delle considerazioni sull’andamento geografico e astronomico di questi tracciati che ci saranno utili anche più avanti. Osserva infatti Nocentini:

Quest’ultimo tratto rettilineo presenta un evidente orientamento verso la levata del sole al solstizio estivo. Tracciando l’allineamento della strada da Google Earth risulta un azimut di 55,60°, ovvero 55° 36’. Usando il programma online Sun Earth Tools per il tratto di strada in questione, l’azimut del sole al 21 giugno risulta essere tra 56° e 57°. La differenza tra l’azimut della strada e l’azimut astronomico del sole è sull’ordine di un grado, dunque possiamo ritenere corretto l’orientamento solstiziale della suddetta strada. Vogliamo precisare – come già detto nella relazione sul tempio etrusco di Filonica – che gli etruschi, per qualsiasi riferimento astronomico, si riferiscono alla sfera celeste senza tenere conto dell’orizzonte apparente, dettato dalla morfologia del territorio.

La viabilità etrusca – come d’altronde qualsiasi progetto costruttivo di tale civiltà – attribuisce quindi una estrema importanza all’orientamento astronomico, e questo ci serve, ad esempio, per teorizzare ed eventualmente individuare i percorsi valtiberini. Non a caso, proseguendo la linea Ciggiano-Arezzo, si superano le aspre alture che dividono l’Aretino dalla valle del Tevere e si raggiunge Anghiari. Di qui, attraversata la piana, sempre nella direzione del solstizio, si sale sulla dorsale appenninica, la si valica passando per località come Vesina e il Passo delle Vacche (nominate sulle carte archeologiche per tracce etrusche), quindi si prosegue verso l’Adriatico fino a Santa Marina di Focara, a nord di Pesaro, dove si trovava un importante scalo marittimo greco. Ecco dunque che abbiamo una “autostrada dei due mari” che serve agli etruschi per trasportare le proprie merci, ma ubicata solo in parte nel proprio territorio. 4)
Conviene dunque dedicarsi alla ricerca di “strade” etrusche, in Valtiberina, e lasciare tombe a tholos e altre leccornie a luoghi dell’Aretino più fortunati come Cortona o Chiusi? E nel caso, con quale criterio? La… via è stata tracciata da studiosi “sul campo” come l’antropologo Giovanni Caselli, il quale utilizzando buone gambe e carte IGM ha ricostruito negli anni ’70-80 la rete viaria etrusca della Toscana centro-occidentale, dall’Emilia al Lazio. L’importante è capire che le piste e i sentieri segnati sulle mappe sono spesso antichissimi; e altrettanto spesso erano preferiti, anche per lunghe distanze, a percorsi che oggi ci sembrano immensamentre più comodi, più pianeggianti, più ameni. Le antiche strade correvano lungo i crinali, piuttosto che nelle valli fluviali, e valicavano passi che oggi sembrano riservati agli amanti del trekking.
Proprio percorrendo le piste sterrate, che in Valtiberina si snodano per centinaia di chilometri, ci si può imbattere in testimonianze protostoriche. Chi scrive ha localizzato nella foresta sovrastante il torrente Padonchia (tra Monterchi e Arezzo) una muraglia di fattura possibilmente etrusca. Con Giovanni Nocentini, abbiamo poi ipotizzato che si trattasse di una massicciata stradale e tentato di seguirne il percorso, che probabilmente – abbandonata l’immancabile valle del Cerfone in zona Le Ville – risaliva fino al cimitero del paese fantasma di Bivignano, dove sembra siano state trovate a fine ’800 tracce di una necropoli tirrenica.

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Particolare delle mura di Filonica. Foto Sonaglia/Etnie.
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Tratto di una possibile massicciata stradale nella valle del Padonchia. Dista da Filonica circa 2400 metri in linea d’aria. Foto Sonaglia/Etnie.

Se ciò fosse vero – considerata anche la vicinanza a Filonica e a una località, Socena, dall’inconfondibile radice etrusca – la teoria di Nocentini su una “deviazione” della via maestra che da Arezzo portava verso l’Adriatico ne uscirebbe rafforzata. Nel suo articolo, infatti, lo studioso ipotizza che il tempio di Filonica sia dedicato a Ercole, una divinità il cui culto sarebbe stato diffusissimo in Valtiberina, ricca di toponimi come Monterchi, Montemercole, eccetera, e di santuari dedicati al suo “sostituto” per interpretatio christiana, San Michele Arcangelo. Ercole era il dio protettore dei commerci e delle strade, nonché custode della transumanza, ed è facile evincere come gli etruschi, mettendosi in cammino con i loro carichi di merce, si fossero raccomandati alla divinità e magari, durante il percorso, avessero sostato nei loro templi per rinnovare la protezione, come nel caso di Filonica.
In questo particolare frangente, essi avrebbero dovuto compiere una deviazione rispetto alla strada “solstiziale” da Arezzo ad Anghiari, percorrendo la valle del Cerfone. 5)
Potremmo intravedere qualche difficoltà in questa soluzione, sia perché la valle in sé appare poco percorribile soprattutto se il torrente è gonfio (ora ci passa una superstrada, ma poggia abbondantemente su piloni!), sia perché, come si diceva, un fondovalle non sembra la scelta primaria degli antichi. Qualora se ne dimostrasse l’autenticità, la strada sopra il torrente Padonchia aiuterebbe a far luce sulla questione, suggerendo quantomeno che nella zona di Filonica era presente una rete di strade alternative al Cerfone.

Verso il solstizio

Deviazioni a parte, torniamo alla nostra “autostrada dei due mari”: si parlava di un possibile tracciato che da Arezzo si dirige verso l’Adriatico seguendo l’azimut del sole al solstizio estivo, tra 56° e 57°, passando per l’attuale cittadina di Anghiari. La cosa curiosa è che una strada del genere ad Anghiari esiste davvero dal XIV secolo, costruita dall’allora signore vicario del borgo toscano, Piero “Saccone” Tarlati, come collegamento per la vicina Sansepolcro. Il cosiddetto “stradone di Pier Saccone” costituisce tuttora un richiamo turistico in quanto il suo tracciato rettilineo – una discesa abbastanza vertiginosa che taglia in due l’abitato e si tuffa nella piana del Tevere – s’incendia di luce ogni anno, all’alba del 21 giugno, il solstizio d’estate.
Qual è il suo rapporto con la via etrusca? Difficile pensare che i due percorsi non abbiano una relazione; eppure il secondo, quello più recente, segue un azimut di 62° contro i 56-57° del primo, pur essendo entrambi intenzionalmente rivolti al solstizio d’estate… Come è possibile? Nella prossima puntata cercheremo di risolvere questa apparente contraddizione astronomica. Ma soprattutto ci imbatteremo in una serie di imprevedibili schemi geografici e geometrici che, proprio a partire da queste antiche vie, sembrano disegnati volontariamente sulla mappa da una mano misteriosa.

 

N O T E

1) Peraltro Città di Castello è universalmente nota come una delle capitali della stampa tipografica.
2) La Villa di Plinio (se è proprio lei) dimostra tra l’altro che il confine etnico tra etruschi e umbri non correva dove lo vediamo oggi tra toscani e umbri. Plinio infatti si riferisce alla sua fattoria come “in tuscis”, cioè tra gli etruschi, e gli stessi scavi hanno individuato nel sito un substrato etrusco. E non correva neppure dove lo avevano posto i romani: come si vede dall’illustrazione sottostante, il confine tra le Regio VI (Etruria) e VII (Umbria) taglia fuori dalla prima non solo la zona di Celalba ma anche Tifernum (Città di Castello), nel cui agro sono state portate alla luce alcune testimonianze etrusche. E la suddivisione augustea (primi anni del I secolo d.C.) è avvenuta ben prima di Plinio, vissuto nella seconda metà del secolo.

Viene dunque da chiedersi quanto il Tevere abbia rappresentato una demarcazione tra umbri ed etruschi. Se per l’establishment di Roma è il fiume a segnare il confine tra VI e VII, in età preromana la permeabilità è piuttosto elevata. Per esempio, scendendo molto più a sud, nella zona di Amelia, troviamo una fila di castellieri difensivi umbri tutti sulle alture un bel po’ a est del Tevere, con quello di Monte Croce di Serra posto a ben 6 km dal fiume. Mentre tornando nella nostra zona a nord di Perugia, una suggestiva muraglia di monti piramidali da 3 a 6 km a ovest del Tevere ospita una sequenza di fortificazioni e santuari che potrebbero essere in parte umbri.
Una spiegazione è che nella catena montuosa posta tra Arezzo-Cortona e la Valtiberina, il confine tra i due popoli abbia oscillato nei secoli, pur con una complessiva opera di etruschizzazione a partire dal VII-VI secolo a.C., proprio per quella “frequentazione dei percorsi viari che attraversano la valle e mettono in collegamento l’Etruria con la valle Padana e il territorio marchigiano abitato da Galli e Piceni” (Marisa Scarpignato, Alle radici della città, Città di Castello 2004).
3) Alvaro Tracchi, Dal Chianti al Valdarno, ricognizioni archeologiche in Etruria, Roma 1978.
4) Sull’Adriatico, più a nord, gli etruschi gestivano in territorio fondamentalmente “straniero” l’importante porto di Spina.
5) In Italia Centrale, Ercole era una divinità assai importante per il mondo pastorale e rappresentava in primo luogo il protettore della transumanza. La trasformazione cristiana nell’arcangelo non fu difficile: se il primo usava la clava e uccideva i mostri, il secondo aveva la spada e uccideva il diavolo. Ma è soprattutto interessante notare come, in questo mondo appenninico, il concetto di vie di transumanza sia strettamente correlato con gli etruschi: come osserva Lidia Calzolai, “in Toscana, una trama viaria di questo tipo doveva essersi complessivamente già disegnata e consolidata in epoca etrusca, in relazione agli intensi scambi tra le città della costa tirrenica e quelle adriatiche e comunque con le varie popolazioni transappenniniche. Lungo alcuni di questi itinerari, infatti, sono stati rinvenuti reperti archeologici di epoca etrusca” (Gli itinerari della transumanza in Toscana, Firenze 2003).
Ricostruire questi percorsi permette in molti casi di aumentare le nostre conoscenze sulle strade dell’antico popolo.