Se non fosse solo tragico sarebbe comunque tragicomico. Mentre si candidano al ruolo di mediatori e “pacificatori” nel conflitto russo-ucranino, la Turchia e il presidente Erdogan non hanno certo smesso di opprimere i dissidenti, i prigionieri politici e le minoranze (nel caso dei curdi parlerei piuttosto di “popolo minorizzato” dagli artificiosi confini statali che frantumano la loro nazione). E ovviamente Teheran non è da meno in questo tentativo di estromettere dalla storia un popolo coraggioso (che poi ci riescano è un altro paio di maniche).
Andiamo con ordine partendo dall’Iran.
È di questi giorni la conferma della condanna a morte per il guerrigliero curdo Hatem Ozdemir, militante delle Forze di Difesa del Popolo (HPG) considerato il braccio armato del partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Catturato in un’imboscata dei pasdaran nel luglio 2019 e attualmente richiuso nel carcere di Urmiye, era già stato condannato a morte in prima istanza.
Contro di lui le accuse di “ribellione contro lo Stato” e di “appartenenza al PKK”.
Recentemente un altro militante curdo, Firaz Mousallou, è stato condannato a morte. Ingannato dalle promesse di amnistia, si era consegnato alle autorità iraniane nel 2019. Al momento non è chiaro se appartenesse al PKK o al PDKI (partito democratico del Kurdistan d’Iran). E comunque, nel dubbio, è stato condannato a morte per “ribellione contro Dio e lo Stato”.
Ma talvolta l’esecuzione avviene anche senza condanna, in maniera “extragiudiziale”. Sarebbe questo il caso di un venticinquenne curdo, Milad Jafari, arrestato a Teheran il 7 aprile – pare per detenzione di sostanze stupefacenti – e poi deceduto in un commissariato.
Secondo i familiari, informati del decesso soltanto dopo molti giorni e molte richieste di notizie, e secondo l’ONG Kurdistan Human Rights Network (KHRN), Milad sarebbe stato vittima delle torture. E non, come sostenevano in un primo tempo le autorità, di suicidio. Così come non appare credibile che sia morto l’11 aprile, come dichiarato dalla polizia, visto che il suo corpo risultava trasferito al dipartimento di medicina legale di Kahrizak già l’8 aprile.
I soliti turchi
E passiamo alla Turchia. Anche qui alcuni dei numerosi prigionieri politici curdi, oltre una decina, deceduti negli ultimi mesi si sarebbero suicidati. Ma è assai probabile che in realtà siano stati spinti al suicidio dalle durissime condizioni carcerarie e in particolare dalle torture a cui vengono sottoposti. Più o meno quanto avviene a quelli che muoiono per incidenti o malattie (curate poco e male). Senza escludere che talvolta il presunto “incidente” o la tempestiva “crisi cardiaca” siano soltanto una copertura per le vere ragioni della morte del detenuto: pestaggi, torture, maltrattamenti…
Rinchiusi in carceri ormai fuori dal controllo delle organizzazioni indipendenti e nelle mani di carcerieri razzisti, i prigionieri curdi riescono solo raramente a informare l’opinione pubblica di quanto avviene. Per esempio denunciando che i secondini, dopo averli torturati, avevano lasciato nelle celle corde e rasoi con l’intento evidente di spingere i prigionieri, disperati e sofferenti, a togliersi la vita. Tecnicamente si tratterebbe di “suicidio forzato”.
Tra gli ultimi prigionieri che dopo aver subìto la tortura nel carcere di tipo L di Silivri hanno tentato di suicidarsi, Ferhan Yilmaz e un altro di cui non si conosce ancora il nome sono riusciti purtroppo nel loro intento.
Sarebbe invece ancora in terapia intensiva un altro prigioniero, Halil Kasal, mentre non si hanno notizie precise sulla sorte di Çoşkun Ağca, Tolga Okçu, Abdulmenav Çetin, H. Masal e Ali. Un avvocato, su richiesta della famiglia di Çoşkun Ağca, si è recato nel carcere di Silivri dove è stato informato che il detenuto era stato trasferito con l’ambulanza nel carcere di tipo F di Izmir.
Sempre da Silivri un altro detenuto curdo, Ercan Morkoç, ha confermato in una telefonata alla famiglia che i secondini lasciavano nelle celle corde e rasoi incitando i prigionieri a suicidarsi. Ha anche aggiunto che Orhan Hacıoğlu, Abdulmenav Çetin, H. Masal e Tolga Okçu erano stati portati all’ospedale e qui posti in isolamento. Avrebbero anche iniziato uno sciopero della fame.
Per Hikmet Yılmaz, invece il fratello Ferhan sarebbe stato direttamente “ucciso in prigione a due giorni dalla liberazione”. Sul volto e sul corpo aveva chiari segni di torture: occhio tumefatto, labbro spaccato, tracce di sangue; e secondo quanto avrebbe detto in via ufficiosa ai familiari un medico, anche lesioni interne. Oltre naturalmente ai segni di una corda sul collo. “Ma perché mai”, si era chiesto, “uno dovrebbe uccidersi due giorni prima di tornare in libertà?”.