Forse è ancora presto per un bilancio complessivo del lungo sciopero della fame avviato da Leyla Guven e condotto eroicamente per mesi da centinaia e centinaia di prigionieri e militanti curdi, disposti a giungere fino alle estreme conseguenze per porre fine all’isolamento totale a cui è stato sottoposto – per otto lunghissimi anni – Ocalan.
I militanti, molti di loro almeno, versano in condizioni critiche e devono o almeno dovrebbero essere ospedalizzati. Invece arrivano inquietanti, notizie di maltrattamenti nei loro confronti da parte dei carcerieri.
Viene anche da chiedersi cosa ancora rappresenti, dopo ormai vent’anni di detenzione, quest’uomo per il suo popolo. Sicuramente un elemento fondamentale di coesione, un simbolo (come fu Mandela per i neri del Sudafrica), anche se talvolta questa dedizione potrebbe sembrare quasi eccessiva, una forma per quanto comprensibile di “culto della personalità”.
Sicuramente la condizione di prigioniero non ha impedito a Ocalan (paragonabile in questo a Gramsci) di continuare a pensare, scrivere, elaborare. Fornendo al suo popolo e a quanti si riconoscono nelle lotte di liberazione un metodo, una strategia (il Confederalismo democratico) in grado di avviare il superamento delle contraddizioni insanabili del capitalismo. E anche delle realizzazioni del socialismo (nelle sue svariate interpretazioni), talvolta deludenti.
Ma altrettanto sicuramente (e sapendo con ciò di rischiare di formulare un giudizio troppo drastico, magari ingiusto) ha rappresentato talvolta un “tallone di Achille” per il movimento di liberazione curdo che ha subìto ricatti, forse manipolazioni, da parte di Ankara (e non solo). Vedi le ricorrenti trattative – a senso unico però – per una soluzione politica del conflitto che hanno portato a “disarmare”, non solo in senso metaforico, la guerriglia o almeno alcune sue componenti.
Sono come minimo sette i prigionieri (a cui si deve aggiungere un ottavo militante che si era immolato col fuoco in Germania) che hanno perso volontariamente la vita durante questa protesta. Come sempre (sia per i dieci repubblicani irlandesi del 1981, sia per quelli turchi e curdi del 1996 e degli anni successivi, quasi 150) viene da chiedersi: ne valeva veramente la pena? Troppo presto, appunto, per formulare un giudizio definitivo. In attesa di vedere quali saranno gli sviluppi, rimane l’amarezza per la perdita – irreparabile – di questi compagni.
Finiamo con una buona notizia.
Domenica scorsa due donne curde – Evin Incir (34 anni) per il Partito Socialdemocratico svedese e Ozlem Alev Demirel (35 anni) per la tedesca Die Linke – sono state elette al Parlamento Europeo.
Evin Incir proviene dalla città svedese di Uppsala ed era tra i primi cinque candidati della sua lista. Pochi giorni prima aveva dichiarato che sperava di essere eletta per poter promuovere la causa del popolo curdo e affrontare con forza la soluzione dei problemi che lo affliggono. “Le ingiustizie e l’oppressione che i Curdi hanno patito e che continuano a subire”, aveva spiegato, “sono questioni importanti che ho intenzione di sollevare nella sede del Parlamento Europeo se verrò eletta”.
L’altra nuova parlamentare curda, Ozlem Alev Demirel (alavita, originaria di Malatya in Bakur), è impegnata in politica da quando aveva 18 anni. Laureata all’università di Bonn, aveva espresso l’intenzione di “essere una voce per i senza voce”. Come i curdi, appunto.
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