Nelle società tradizionali è il trascorrere delle stagioni a scandire il ritmo del tempo. In una società di questo genere, pertanto, emergono una serie di feste e di riti tipici di ogni stagione e mese dell’anno, prevalentemente di tipo agrario o legate alla pesca e navigazione, le due principali attività che per secoli hanno caratterizzato le aree geografiche del Veneto e dell’Istria. Ovviamente, al giorno d’oggi queste usanze si sono trasformate e in alcuni casi perdute a causa dei repentini cambiamenti sociali, culturali ed economici che sono sopravvenuti.

Il Capodanno

In area veneta il primo giorno dell’anno è sempre stato considerato particolare, ricco di presagi per tutte le popolazioni; ancor oggi è infatti diffusa la credenza che l’atto che si compie il primo gennaio verrà ripetuto per tutto l’anno, oppure che il tempo atmosferico del giorno di Capodanno si ripeterà per il resto dell’anno. La tradizione prevede che i primi dodici siano i giorni endegàri, cioè indicatori; in pratica a ogni giorno corrisponde un mese dell’anno, in ordine progressivo; quindi se il 3 è ventoso lo sarà anche il mese di marzo, se il giorno 10 piove, ottobre sarà un mese piovoso, e così via.
In questa giornata erano numerose le cantilene che i bambini usavano per fare la questua durante gli auguri del primo dell’anno, come per esempio: “Bonìn bonàno, auguri de pano, auguri d’arzento, deme la bòna màn [cioè la mancia] e ‘ndarò via contento”.
Vi sono poi alcune credenze popolari assai diffuse riguardo alle persone incontrate per prime a Capodanno. In area veneta si credeva che se la prima persona avvistata in strada era un uomo l’anno sarebbe stato fortunato; l’esatto contrario se ci si imbatteva invece in una donna; infine si riteneva che vedendo un prete di primo mattino ci sarebbe stato nel corso dell’anno un defunto all’interno della propria famiglia.

Mi gò senpre savuo che se te vedi par prima ‘na dona, al primo de l’ano, l’ano va mal, e anca desso, a dir el vero, stao tenta de no védar qualche dona… invesse ‘na volta el primo de ano i putei i ‘ndava pa ‘e case a cantar “Bonino Bonàno, bon prinsipio de ano”, i partia ae sinque e i passava tuto el paese fin a mesodì, e se ghe dava 5-10 schei.

Ci conferma la malaugurata presenza di una donna la mattina del primo dell’anno anche un libro sulle tradizioni popolari del trevisano, edito nel 1938:

Nei paesi è credenza che le donne non devono in quel giorno porgere gli auguri perché portan male e che sia condannato a vivere un anno in disgrazia colui che vedesse per prima, fra gli estranei alla famiglia, una donna.

Anche nel vicino Friuli la tradizione prevede che vengano svolte in questo periodo numerose questue, dette solitamente dei Tre Re, dal numero presunto dei Re Magi che si recarono ad adorare Gesù. La parola ci fa intuire come in diverse zone le questue si svolgessero anche (o soltanto) alla vigilia dell’Epifania. In questo caso la tradizione risulta veramente diffusa per buona parte d’Europa, se pensiamo che nei Paesi di area tedesca il giorno dell’Epifania viene chiamato Dreikonigstag e in quelli di area francese Fête de Rois; infine anche in Slovenia si svolgevano in questo periodo le koliadi, cioè le questue augurali.
Riguardo a chi svolgeva la questua ci sono invece tradizioni differenti, nel senso che in molte zone a farla erano i bambini, mentre in altre zone, come per esempio nel veronese, andavano a questua soprattutto gli anziani o comunque gli adulti più poveri del paese.
In Friuli i raccolti della questua, comprendente per lo più frutta secca, pane di sorgo, fagioli, venivano detti siops e venivano poi portati dai ragazzi alla propria ragazza. Sempre in area friulana si facevano gli auguri di capo d’anno chiedendo, come nel Veneto, la bona man: “Bon dì, bon an, dèimi la buna man ancia chest’an!”.
Nella regione istriana il rituale appare molto simile, nel senso che anche qui la tradizione prevede che arrivino gruppi di bambini e ragazzi per le varie abitazioni dei paesi a porgere gli auguri di buon anno, in cambio di una piccola ricompensa, denominata anche qui la bona man.

Al primo del ‘ano, se festegiava, i fioi picoli vegneva per le case a far i auguri, i diseva: “Bondi bondì de l’ano, fortuna e guadagno!’ e la familia ghe dava na nose, che se disi la bona man!

Anche nelle testimonianze che abbiamo raccolto in Istria è emersa l’usanza di praticare per questo giorno importante dell’anno un pranzo particolare, con le specialità tipiche istriane come carne di maiale e di tacchino, minestra in brodo, crauti alla triestina – ossia i capùzi garbi – per finire con i dolci tipici come i crostoli e lo strucòlo:

Se ndava messa, le done pareciava el pranso, le done pareciava el pranzo, jera za copà le bestie, el dindio, el porco, se fazeva la polenta, del brodo de gaiina, i capuzi garbi se ciama, el polastro rosto, e i dolci jera i crostoli e el strucolo, che xe tipo prestnitz o la putìza che xe robe triestine, che le ga za dentro robe austriache.

Epifania

Questo antichissimo rituale ha origini molto probabilmente pre-cristiane, anche se poi la festa è stata cristianizzata come “Epifania”, ossia “manifestazione” del divino, e ricorda l’arrivo dei Magi nella grotta sacra di Gesù bambino a Betlemme. La notte tra il 5 e il 6 gennaio è proprio da tradizione quella dell’arrivo della Befana, la simpatica vecchietta che porta regali ai bambini, ma che prima ancora raffigura la vecchia che viene bruciata o segata per indicare il passaggio dall’anno vecchio all’anno nuovo.
In area veneta il Panevin (noto con diversi altri nomi, come Pìrola Parola, Brunièlo, Casèra, Brusa la veda, eccetera) è una delle feste che si è maggiormente conservata, soprattutto nel trevigiano e nell’entroterra veneziano, e che perpetua la tradizione antichissima di bruciare un grande falò la sera precedente l’Epifania o la sera stessa come rito propiziatorio per un buon raccolto e una buona annata.
Riguardo alle dimensioni del Panevìn, è risultato nella nostra inchiesta come in realtà la grandezza della catasta dipendesse da quanto materiale era presente in loco per essere bruciato, dato che ovviamente una volta si bruciava soltanto il superfluo e niente che potesse poi tornare utile in qualche modo. In molti casi il Panevìn si svolgeva nel proprio colmello se non anche a livello familiare, e pertanto in tali circostanze il mucchio era più piccolo rispetto ad altri (di sicuro lo era rispetto a quelli organizzati negli ultimi anni). Gli studiosi ritengono che il rito perpetui quello dei popoli primitivi che accendevano dei grandi falò per celebrare il solstizio d’inverno.
Questa tradizione cambia nome da zona a zona ma, in ogni caso, funzione e significato sono sempre i medesimi, cioè propiziare un buon raccolto e tenere lontane le carestie. Anche con nomi diversi, il rituale è in ogni caso molto simile: dopo aver eretto una grande catasta fatta di sterpi, canne, legni di scarto, residui della potatura, si dà la benedizione e poi viene acceso il rogo, solitamente da un bambino. Riguardo alla benedizione, esistevano formule simili anche in luoghi distanti, tutte richiamanti il valore dell’acqua santa e le richieste di rendere la terra fruttuosa. Ecco come nel Friuli si faceva la benedizione dicendo:

Aga santa del dì dei tre Res jò ti buti ta chest ciamp, jò ti buti in ta chel s’ciavez. Il Signor va cialant e il demoni va s’ciampant. Pari, Fili e Spiritu Sant.
O acqua santa del giorno dell’Epifania io ti getto in questo campo, io ti getto in questo margine. Il Signore sta guardando e il demonio sta fuggendo, Padre, Figlio e Spirito Santo.

Mentre una testimonianza che abbiamo raccolto a Gardigiano, nell’entroterra veneziano, riporta in modo pressoché similare:

Aqua benedeta, che te fassi bon fruto, che te fassi ‘na bona spiga, che Dio te benediga, nel nome del Padre, del Figlio, delo Spirito Santo.

Spesso sopra la catasta viene messo un fantoccio raffigurante una vecchia, come simbolo della carestia che si vuole assolutamente eliminare. Nel padovano la tradizione prevedeva in alcuni casi anche il processo alla vecchia che si trovava in cima alla catasta da bruciare:

Qua ‘a tradission prevedea che ghe jera i vecioti co na specie de pergamena che i lesea queo che ghe gavea lassà a vecia… par i nostri veci jera l’ocasion par trovarse fora bévare el vin brulé e la pinsa…

Mentre brucia il Panevìn vengono fatti gli auspici a seconda della direzione che prenderà il fumo: “Se el fumo va a sera [cioè a ovest] polenta pien in calièra, se el fumo va a matina [a est] tol sù el saco e va a farina”.
Durante il rogo sono fondamentali le invocazioni di rito, che un tempo erano scandite da veri e propri cori contrapposti di uomini, donne e bambini. Infatti nel trevigiano prima dell’ultima guerra era consuetudine che iniziassero i bambini, cantando: “Pan e vin! pan e vin! Dio ne daga sanità e pan e vin, pan e vin sóto le stele che le biave vegna bele”; e a questa invocazione rispondevano le donne gridando: “Tanta uva e pan e vin da lontan e da visin”. Per terminare con il canto di uomini e bambini insieme che esclamavano: “Pan e vin! pan e vin! La pinsa soto el larin, la lugànega sù par el camin, la massera in te la panera, el servitor nel canevon che me beve quel poco de vin bon. Pan e vin! Pan e vin!”. Una variante di quest’ultima strofa era la seguente: “Pan e vin, pan e vin, la pinsa sul larin, la veda sul camin, la magna i pomi coti e la ne lassa i rosegoti”.
In alcuni casi, documentati nel trevigiano ma probabilmente tipici anche altrove, il Panevìn aveva una coda la mattina seguente, quando avveniva il rito del carga e mantien; vale a dire che si prendevano dei legni bruciacchiati dalla catasta e si andavano a segnare le piante da frutto del podere perché portassero un buon raccolto per l’anno a venire, gridando appunto: “Carga e mantien par st’ano che vien”. Talvolta si segnavano anche le bestie nella stalla e le botti in cantina, sempre perché portassero un buon andamento dell’anno. Nelle aziende agricole era il boaro a svolgere questo compito, solitamente in cambio di un buon bicchiere di graspa. Nel portogruarese questo rito veniva fatto solitamente prima di bruciare la Casèra, quando venivano legati alcuni scovoéti di canne sugli alberi che segnavano il confine di proprietà della campagna; il tutto veniva accompagnato dalle consuete invocazioni (pan e vin) alla fertilità del raccolto:

E dopo i faseva che i ‘ridava so i confini ogniun de ‘a so canpagna co i scovoeti che i jera de sorgo, i ‘ndava a far el giro dea canpagna e i meteva un gropo de sorgo, e i lo ligava so la canpagna, prima de brusarla, la sera dea casèra… e i ‘ndava via cantando: “Pan e vin par el poro contadin”, par dir che el Padreterno mandi pan e vin…

Oggi il Panevìn è probabilmente la tradizione popolare veneta che si è maggiormente conservata, almeno nel trevigiano e nel Veneto orientale verso il Friuli. Un netto cambiamento è comunque avvenuto, poiché negli ultimi decenni il Panevìn è in un certo senso uscito dalle campagne laddove si accendeva da secoli e ha iniziato a comparire nelle piazze di paesi e città. Sono quindi cambiati anche gli organizzatori: non sono più i contadini  ma associazioni (Avis, Associazione Alpini, club sportivi, pro loco, eccetera) a organizzare il rito per raccogliere fondi per le proprie attività; pertanto pìnsa e vin brulé sono sempre più raramente gratuiti per tutti. In altri casi sono le autorità politiche locali a gestire l’evento. Nel complesso, ormai il Panevìn diventa un’occasione per gli organizzatori di mettersi in evidenza davanti ai cittadini.

Panevin.

D’altra parte nella nostra ricerca è emerso chiaramente che, oltre ai Panevìn ufficiali organizzati da enti pubblici e associazioni cui si è fatto riferimento, continuano in alcuni casi a esistere diversi Panevìn più piccoli come dimensioni e numero di partecipanti che si realizzano in modo spontaneo, a livello di borgata e in alcuni casi addirittura a livello familiare. Chi scrive può testimoniare di alcuni Panevìn sorti negli ultimi anni in terreni privati, dove lo scopo è ancora quello di una volta, vale a dire dimostrare la propria liberalità offrendo a tutti i presenti una cerimonia tradizionale con il falò, alla quale si accompagna una ricerca storica sul significato del rito stesso condotta da esperti locali; conclude il tutto una mangiata in allegria all’interno dell’abitazione del parón de casa.
Nella regione istriana è invece emerso che non si svolgevano dei falò propiziatori per l’Epifania bensì per la festa di San Giovanni a giugno, come vedremo più avanti.
In occasione dell’Epifania la tradizione istriana risulta simile a quella di area alpina e prevede la presenza dei Tre Re, ossia i gruppi di ragazzi vestiti come i Magi venuti dall’Oriente par adorare il bambino Gesù:

El 6 genaio ghe jera i tre re, una volta veniva quei de Vilanova, i cantava anca ma mi no me ricordo ben cosa, sì, i veniva disendo: “Noi semo i tre re, noi semo i tre re”, e i girava par le case, co jerimo foi, poco dopo l’esodo, ghe jera gente ma la jera gente nostra, no foresti.

Il rito della Stella, o dei Tre Re, era pertanto molto diffuso anche in Istria. Gruppi di cantori giravano per i paesi e le contrade cantando, come in area lombardo-veneta, Noi siam li tre re d’oriente / che abiam visto la gran stella.
A Verteneglio il canto iniziava con: Siamo i magi de l’Oriente / siam guidati da una stella / di nascosto è proprio quella / che ci porta a Betlem / che ci porta a Betlem.
Altro canto diffuso da Trieste verso la regione istriana: Noi semo i tre re / vignudi dall’Oriente / per adorar Gesù / Gesù bambino ‘l nassi / con tanta povertà / né fisse ne fassè / ne fogo per scaldarse.
Naturalmente anche per l’Epifania la tradizione prevede la partecipazione alla Messa, e in alcuni paesi istriani come Verteneglio è tuttora presente l’usanza della benedizione dei bambini davanti al presepe, come segno di speranza per tutta la comunità:

Mi son stada tanto co mia nona, la nona Dorotea a cantava tanto in italian, e me ricordo che par l’Epifania le me cazava in ciesa e là se benediva i fioi, davanti al presepe, el 6 genaio, e questo xe ancora…

Madonna Candelora

Il 2 febbraio ricorre la festa della Presentazione di Gesù al tempio, in area veneta detta Candelòra perché vengono benedette le candele che ogni fedele porterà nella propria casa. Questa festa è stata sempre molto sentita dalle genti venete, anche perché sino alla riforma liturgica voluta da Pio X la Candelòra era un giorno festivo a tutti gli effetti. La tradizione prevede che le candele vengano conservate; verranno accese in occasioni particolari, come la benedizione della casa da parte del sacerdote o quando d’estate infuria un pericoloso temporale, affinché il Signore tenga lontani fulmini e saette dall’abitazione.
Un giorno importante anche per l’osservazione sull’andamento metereologico della stagione, vale a dire sull’arrivo imminente o ancora lontano della primavera. A tal proposito è parecchio diffuso un proverbio che recita: “Candelòra, Candelòra, de l’inverno semo fora, ma se piove o tira vento de l’inverno semo drento”.
Questa ultima usanza di fare dei pronostici sull’arrivo della primavera a partire dal tempo atmosferico del giorno della Candelora, è emerso in modo similare anche nella regione istriana, dove solitamente si canta: “La Madòna candelora, se la vien co el sol e bora, de l’inverno semo fora, se la vien co piova e vento ne l’inverno semo drento”.

Pust delle Valli del Natisone.

Il Carnevale

Tradizione antichissima e sentita un po’ ovunque, il Carnevale non ha una origine documentata anche se è probabile il suo collegamento con i Saturnali romani, periodo invernale dell’anno quando cadevano le norme gerarchiche e ci si lasciava andare all’abbondanza e a una vera e propria inversione dei ruoli sociali. In alcuni episodi storici concreti, ciò è andato oltre il consueto scherzo per tramutarsi in una vera vendetta sociale, come accadde nella “crudel zobia grassa” a Udine nel 1511, allorché si scannarono tra sostenitori del partito filo-­veneziano e appartenenti al partito filo-imperiale, il tutto favorito dalle maschere carnevalesche che portavano sul viso.
Il Carnevale in area veneta ha presentato per secoli due volti differenti: quello delle città (soprattutto a Venezia) e quello delle campagne, caratterizzato da gruppi di maschere che giravano per i paesi e per i filò nelle stalle rappresentando i personaggi tipici della commedia dell’arte (Arlecchino, Pantalone, Colombina, Rosaura, Balanzone e tanti altri).
In ogni carnevale si mangiavano comunque le fintole, i galani (o cróstoli), le stracaganàsse (castagne secche e dure) e altro.
Sembra che l’uso di portare la maschera nel periodo di Carnevale sia stato importato a Venezia da Costantinopoli dal doge Andrea Dandolo, nel 1204. Lì infatti aveva visto le donne orientali che, ieri come oggi, si coprivano il volto per motivi religiosi. Sembra che da allora sia stata importata l’usanza di mascherarsi che tanta fortuna avrà nei secoli successivi nella città lagunare; anzi la diffusione delle maschere è stata talmente vasta a Venezia, che numerose leggi nel tempo hanno cercato di disciplinarne l’uso, in modo da evitare soprusi, furti e altri delitti da parte di persone non riconoscibili per via del loro travestimento.
La tradizione prevedeva per il Carnevale rituali diversi da zona a zona e da paese a paese; basta ricordare qui la ricchezza di costumi e rituali, in parte oggi conservata, dei carnevali dell’alto bellunese come quello di Canale d’Agordo, dove la tradizione conservatasi fino ai giorni nostri prevede l’elezione della Zinghenesta, letteralmente la zingarella, che rappresenta la reginetta del Carnevale. Pertanto viene scelta ancora adesso la ragazza più bella del paese, vestita con abiti molto appariscenti, in modo da sembrare appunto una zingarella, e viene fatta sfilare seguita da maschere e figuranti, come i matièi (personaggi portafortuna), i diàoi (diavoli vestiti di nero che gettano carbone o ricotta fresca a chi si avvicina al corteo), i roncèi (straccioni adibiti a fare confusione).
Infine tutti i partecipanti si ritrovano in piazza dove, dopo un fantomatico processo, viene bruciato lo strión, cioè un enorme fantoccio a forma di stregone, e così facendo si balla e si festeggia fino a sera tarda. Negli ultimi anni un gruppo di giovani ha organizzato questa iniziativa che vede la partecipazione di un numero crescente di persone, anche da fuori vallata.
Anche il Carnevale nella regione istriana è risultato anticamente presente, sempre come momento particolare dell’anno, dove si capovolgevano tutti i ruoli sociali ed era lecito abbandonarsi ai divertimenti più sfrenati. Ad Albona il Carnevale viene tuttora denominato la “quinta stagione” proprio per sottolineare la singolarità dell’avvenimento.
Soprattutto nei paesi più interni dell’Istria è emersa fino al giorno d’oggi la varietà delle maschere presenti al Carnevale, come la famosa maschera del Pust (Pusti al plurale nel dialetto istro-veneto).
Il Pust è una figura tradizionale del Carnevale presente anche nelle Valli del Natisone, nella cosiddetta Slavia Friulana, ossia la zona più orientale del Friuli dove è storicamente presente una forte comunità slovena. Dalle testimonianze raccolte emerge proprio la figura del Pust come una maschera formata di stracci colorati, a raffigurare l’arrivo della primavera.
Nelle valli del Natisone i Pusti passano tradizionalmente per le case del paese e le mettono a soqquadro per indicare agli abitanti che ormai è il tempo di fare le pulizie di primavera; ma di solito vengono a sfilare per il paese la vigilia dell’Epifania e non negli ultimi giorni di Carnevale. In ogni caso quella del Pust è una figura che si diverte a provocare paura ai protagonisti e soprattutto alle ragazze, come accade con i Krampus a Bolzano e in generale nella regione del Sudtirolo.

Qua no ghe jera le maschere tipiche da noi, ma su verso la montagna jera quei bruti, co i corni dei manzi, ghe digo mi, dopo ghe jera quei co el capei co tute le rose de carta crep, quei vestidi de dona, anca se i jera omeni, e dopo ghe jera quei che i ghe diseva i Pusti, el pust sarìa el pi bruto del Cameval, co le straze vecie e in testa sta testa de bue che fazi paura, tuti i fioi no i nadava gnanca vizin ale maschere par la paura dei Pusti.

In altri paesi istriani, come a Pinguente e a Sovignacco, è presente la tradizione del Carnevale costituito da una lunga sfilata di persone, ognuna con il proprio ruolo, dai musicisti a chi portava le ceste con le uova o con le salsicce. Addirittura erano distinte le donne e le ragazze belle da quelle brutte, che formavano pertanto due gruppi diversi. Da notare il fatto che da tradizione in questi paesi era proprio una donna ad avere il ruolo di capo del Carnevale:

Me papà jera de Sovignacco, come de Pinguente e quei posti là, e là el Carnevai xe tuta na conseguenza dei riti, in paese doveva essare tante de quele bele co i fiori, tante de quele brute, i se meteva d’acordo cussi, e dopo doveva essarghe na signora che la portava la carovana del Carnevale, che tuti quanti doveva seguir le indicazion de questa capo-carnevale, che la jera a l’inizio dela colona… ghe jera uno che ndava vanti co el cesto, chi che gaveva i ovi, le luganeghe, po ghe jera i musicisti, insoma tutti ndava vanti co el suo ruolo, disemo…

In altri paesi istriani come a Buie e a Verteneglio, il Carnevale veniva vissuto invece mascherandosi per bene e andando nelle case del paese senza essere riconosciuti. In alcuni casi particolari il mascheramento veniva sfruttato per cercare di provare la fedeltà del marito, come emerge in questa simpatica testimonianza:

Se usava ndar quela setimana e i se vestiva in mascara e se usava ndar par le case mascheradi, par indovinar chi che jera, e me ricordo che el vecio Nini ndava senpre par casa dei Camieli, e la Maria se rabiava, e alora una volta par Carneval la Maria la se vesti e la va indove che ndava so mario; alora la riva là, lo careza, la se senta in zenocio ma alora lu el ghe dise: “Dona mia, no tocarmi, no xe par mi, ma perché me mojer la xe molto gelosa”.

Le Rogazioni

Come è noto la primavera è una stagione molto importante per la maturazione di coltivazioni, piante e ortaggi. La tradizione del Veneto contadino prevede quindi nei tre giorni precedenti la festa della Sensa, vale a dire dell’Ascensione che cade 40 giorni dopo la Pasqua, lo svolgimento di lunghe processioni e preghiere per i campi, dette Rogassión (dal latino rogare, pregare), con alla testa del corteo el piovàn coi zaghèti che benedice le crocette che si trovano appese agli alberi lungo il cammino. Questa tradizione è molto antica e sembra risalire al V secolo d.C. quando San Mamerto, vescovo di Vienne (Francia) organizzò questo tipo di preghiere itineranti per allontanare le calamità che allora affliggevano le regioni del Rodano. Diffuse quindi in buona parte d’Europa, queste funzioni avevano inizio di buon mattino quando il prete, inginocchiato ai piedi dell’altar maggiore della chiesa, iniziava il canto in latino delle litanie.
Poco dopo iniziava la processione per le campagne del paese, seguita dalla folla che cantava le litanie e le invocazioni; la processione si fermava quando si incontravano le croci appese agli alberi, oppure dei capitelli o chiesette lungo la strada. In questo caso il celebrante si fermava, benediceva nei quattro punti cardinali la campagna, invocando a gran voce l’aiuto divino per tenere lontane le calamità naturali e affinché il raccolto fosse di buona qualità: “A fulgore et tempestate libera nos, Domine”, “ut fructus terrae dare et conservare digneris, Te rogamus, exaudi nos”.
Il percorso poteva continuare anche per diversi chilometri, tanto che talvolta segnava addirittura i confini della parrocchia. Le testimonianze che abbiamo raccolto sottolineano la vasta compartecipazione ai canti sacri di tutti i presenti, vecchi o giovani che fossero, e testimoniano che il ricordo delle rogazioni si sofferma soprattutto sulla loro lunghezza, come ci conferma Lina che ricorda le Rogassion svolte a Portogruaro:

Le Rogassion, altroché se le se fasea, e longhe anca, chilometri che no so, se partiva pal dòmo e po se vegneva su descalsi, dal Dòmo ciapàvimo la strada par Villastorta e su par ogni confin i preti i cantava la roba de ciesa, “Fulgore e tenpestate libera nos domine”, e se vegneva fora qua via… le rogassion se le fasea cussi.

Una magistrale descrizione dello svolgimento ci viene dal Mazzotti, personaggio di spicco della cultura trevigiana che scrive negli anni trenta:

Nel mese di maggio, i contadini fanno piccole croci di ramicelli ai termini dei campi, in attesa delle Rogazioni, con le quali si invocano dal cielo le benedizioni sulla terra. Cospargono di petali di rose la strada per dove passerà la processione, formando iscrizioni “Viva Maria, Viva Gesù”; e con un tavolo coperto da una tela bianca preparano un piccolo altare davanti al cancello delle loro case. Esce il prete dalla chiesa all’alba, con la croce astile, e poche persone che cominciano a cantare andando verso la casa più vicina, dove si inginocchiano davanti all’altare. Canti nitidi si spandono nell’aria fresca. Finite le preghiere, due o tre persone della prima casa si uniscono alla processione che cresce così di casa in casa.

In tutta l’Istria ex veneta si svolgevano le Rogazioni il 25 aprile, giorno di San Marco, dato che una leggenda sosteneva che le sue reliquie fossero approdate in Istria, prima di arrivare a Venezia. C’erano una serie di tappe nei campi dove il sacerdote leggeva il Vangelo e poi i fedeli si inginocchiavano, mentre il sacerdote impartiva la benedizione ai campi. Se queste erano le Rogazioni Maggiori, ancora più sentite erano le cosiddette Rogazioni Minori, fatte di solito nei tre giorni prima dell’Ascensione (il giovedì che cade 40 giorni dopo la Pasqua) e che prevedevano un lungo cammino che partiva alle 6 di mattina dal duomo, proprio come si fa ad Asiago, nella montagna veneta.
La benedizione delle campagne veniva impartita in direzione dei quattro punti cardinali, e il prete di solito intonava

  • verso oriente: A fulgore et tempestate, e il popolo rispondeva: Libera nos Domine!
  • verso meridione: Ab inundatione et aquarum, e il popolo rispondeva: Libera nos Domine!
  • verso occidente: Aut fructus terrae dare et conservare digneris, e il popolo rispondeva: Te rogamus audi nos!
  • verso settentrione: Aut nos exaudire et digneris, e il popolo rispondeva: Te rogamus audi nos!

Portar Maggio

Nella regione veneta è attestato che il primo maggio, prima di diventare il giorno simbolico dei lavoratori e delle lotte sindacali, vedeva lo svolgimento di una tradizione molto antica, tuttora in uso nei paesi nordici oltre che come vedremo in Istria, detta in altre zone d’Italia “Calendimaggio”.
È un altro periodo dell’anno assai particolare, essendo la Notte di Valpurga, dal nome della santa che si riteneva fosse protettrice dal Demonio. Si tratta di una festa celebrata da secoli quaranta giorni dopo l’equinozio di primavera e conosciuta nella civiltà celtica con il nome di Beltane.
La tradizione veneta del Portar Maggio, ormai scomparsa, prevede che, quando la primavera ha ormai manifestato il suo segno nei campi, ogni innamorato porti un simbolo (da cui il nome Portar màjo) alla propria innamorata o ex innamorata. Infatti ogni cosa aveva un preciso significato: un rametto di ciliegio o di rosa significavano che la ragazza era onesta e da prendere in sposa, mentre un cancello (spesso preso dai vicini di casa) invitava a vigilare sulle scappatelle della ragazza; e poi un màro de fèn o peggio ancora el stalòto del màs-cio indicavano che la ragazza era poco seria; un ramo di noce pronosticava invece un futuro da zitella (quando ste nose te batarà, un moroso te catarà). Il Mazzotti attestava per il territorio della Marca Trevisana, prima dell’ultima guerra, la seguente simbologia:

Nel mese di maggio i giovani dopo la mezzanotte si dedicano a portar maggio, cioè a fare scherzi, dispetti e omaggi alle donne. Portano foglie di ravizzone (che è il pasto delle oche) alle stupide; ortiche alle cattive; l’erba detta lingua di vacca alle maldicenti; fiori alle belle che sono graditi, lasciando questi ed altri doni sulle finestre o vicini alle case, su pali e rami d’albero, dove appendono fantocci, iscrizioni e simboli.

Nel trevigiano alla sinistra del Piave la tradizione veniva ripetuta per tutti i sabati di maggio e veniva detta anche i Maghi del Majo, prevedendo che oltre ai simboli appena descritti vi fosse la tavola da lavare (el lavadór) per una ragazza che non era tanto pulita, uno sterco bovino (a boàssa) per una con la puzza sotto il naso – che se la tira, si direbbe oggi – mentre un pitèr di gerani indicava che la giovane era bella come un fiore.
Nel basso Polesine la tradizione presenta diversi tratti analoghi, tanto che si portavano spesso dei rami di susino, di noci, di biancospino, di frassino, tutti con il loro significato: la noce voleva dire essere dura, cioè restare zitella, il frassino significava che la tosa doveva sbrigarsi a prendere una decisione, l’olmo segnava il distacco, e via così. Anche qui venivano portate delle grandi cataste di oggetti per deridere la famiglia della ragazza, come sacchi di cenere, mucchi di fieno, botti pesanti, sicché genitori e fratelli facevano la guardia di notte affinché non arrivasse tutta questa mercanzia.
La tradizione, in forme più o meno simili, sembra diffusa in buona parte d’Europa, con i nomi di Maibaum in area tedesca, Maypole nelle zone inglesi, Calendimaggio nel centro Italia. L’origine dell’usanza sembra sia proprio pagana, dato che già i celti danzavano intorno a un albero vivo per propiziarsi la divinità che lo abitava e per augurarsi frutti preziosi. La Chiesa Cattolica nei secoli ha cercato di combattere queste feste di maggio per dare precedenza alle Rogassión e al Fioréto, che sono i riti religiosi più importanti del mese.
In area tedesca la tradizione prevede che venga regalato alle ragazze l’“albero di maggio” e che i bambini sfilino in corteo su cavalli di legno adorni di fiori, segno ancora una volta della fertilità della natura che si vuole evocare.
Il portar majo è quindi una tradizione ormai sparita che si teneva in molti paesi veneti il primo di maggio, anche se nella presente ricerca è emerso che avveniva tutti i sabati sera del mese. In pratica, come la primavera aveva già manifestato il suo segno nei campi, così i ragazzi dovevano portare un messaggio alle ragazze del paese, par far loro capire il bene o il male che provavano verso di loro. Veniva portato un po’ di tutto, e ogni cosa aveva il suo preciso significato, come ci spiega Decimo, classe 1924, da Zero Branco (TV):

Alora i sabi de magio, de note, là dipendea dove che ghe jera ‘e tose, se ghe portava fiori, opure se le jera tose che parea cussi… se ghe portava Spagna o fén, se le pareva queo là… [cioè poco serie]. Opure se portava via i cancei, se magari ‘na casa i jera de caratere chiusi, el jera un segno… so ‘na casa pensé che i ghe ga messo dei baràtoi pieni de trina (pissaròt, liquame) cussi sto qua co el ga verto la porta, penseve che disonor! Opur i ‘ndava cantarghe so la strada, sensa farse conóssere, pi che altro i jera fiori che i portava dapartuto dove che ghe jera tose, el jera un modo de cortegiar diverso, però no te savei mia chi che lo portava, e po jera de note… Tante volte i inpenia el cortivo de erba e de fen e alora a la matina i sercava de scoar via tuto in pressa, che la zente no vedesse. Tante tose ‘e stava tente de no lassar i pitèri de fiori fora, seno i te i portava da ‘naltra parte…

Quella dei vasi di fiori sembra una costante di questo tipo di scherzi, come ci racconta Clara, classe 1924, da Martellago, nell’entroterra veneziano:

La me ga tocà a noaltri, che i me ga portà via i pitèri de fiori, che ‘na volta i gavéimo so ‘e mastele vecie, i gò catai dopo do mesi, i me ga dito, “Vara là che ghe xe dei fiori che non xe nostri”, mi ghe gò dito “Assa che i veda”, e ora i gavea portai via da casa mia… e sì, se una i ghe portava i fiori jera parché i ghe volea ben, jera un modo par cortegiarla.

Alcune volte si passava dal corteggiamento con i fiori, come abbiamo visto, a un messaggio ben più pesante per la famiglia intera che lo riceveva, soprattutto se in quella casa c’erano madèghe, cioè zitelle, che come si sa non erano ben viste nella società contadina, dove per una donna era un disonore non essere feconda e non avere figli. Rina, 83 anni, da Zero Branco (TV) ci dice che

El portar magio ‘a jera na roba che i ghe fasea a quée che jera zitèe, i ghe fasea tuti i dispeti, i ghe portava de tuto, come erba, fasioi, e anca la cabineta del porseo… a mi però no i me ga mai portà ninte, parché me so sposà zóvane, a 22 ani, no i ga fato ora a portarme magio. De le volte co ‘a luce i vegnea bàtarme e i me fasea paura, e ‘na volta dopo i ga messo na sbara par traverso, che l’ano là i ga ciamà anca i carabinieri, parché se passava qualchedun se fasea mal, ma dopo i ga assà pèrdar, a chei ani là.

In alcuni casi veniva colpito l’onore di tutta la famiglia della ragazza, con significati ben precisi, come spiega Venanzio, 80 anni, di Gardigiano:

Te decidei cossa portarghe in base a queo che jera ‘a persona, ‘a zente; se una jera sporca i ghe portava leame, se una jera poco seria, spagna o lengua de vaca.

Ma tutte queste cose non si facevano per odio o per disprezzo, anzi, racconta la stessa fonte,

se ‘ndava portar magio par ridare, par schersare… tanto dopo se savea ben chi che jera stài, ‘a sera se cataimo tuti insieme, jera tanto par ridare.

La tradizione del portar magio ha avuto, nel corso del Novecento, due grossi eventi che l’hanno fatta gradualmente sparire. La prima è stata senza dubbio la guerra, come hanno confermato quasi tutti gli intervistati: la guerra è stata un taglio netto con il passato, ha stravolto tutta la società, e così i tosi della generazione degli anni venti quando il conflitto è terminato nel 1945 erano adulti o quasi, e i ragazzi più giovani non hanno più ripreso la tradizione come prima.
Di sicuro l’usanza è proseguita in qualche paese anche nel dopoguerra, ma spesso è cambiata, come risulta per esempio nel veneziano, a Martellago, dove negli anni Cinquanta non portavano più maggio in senso fisico davanti alle case delle ragazze, ma attaccavano dei cartelli sui platani lungo le strade con messaggi per prendere in giro le persone, un po’ come si fa oggi in occasione del matrimonio di amici e parenti. Si è così passati dall’originaria dimensione amorosa allo scherzo più generale.
La seconda ragione è di ordine pubblico, se pensiamo che un conto erano gruppi di persone che si spostavano di notte in strade senza traffico, ben altro fare la stessa cosa sulle strade d’oggi, senza contare l’impossibilità di mettere ostacoli lungo le vie come si faceva una volta.
Anche nella regione istriana è presente storicamente la tradizione del Maio: a Muggia era attestata la tradizione di piantare il 1° maggio un albero davanti alla porta del podestà. Esso veniva adornato con arance, limoni, carrube e altri frutti, e controllato da una guardia per tutta la notte, mentre il giorno seguente i frutti venivano raccolti e donati al podestà; l’albero infine rimaneva sul posto per altri due o tre giorni.
Ma la tradizione istriana più diffusa per molto tempo, se non fino a oggi, è molto simile a quella veneta del “portar maggio”: si svolgeva nella notte del primo maggio quando le ragazze del paese, soprattutto quelle più ambiziose, ricevevano anche qui messaggi molto chiari tramite oggetti posti davanti alla porta di casa, per esempio un mazzo di spini o addirittura un asino legato vicino all’ingresso dell’abitazione:

La note del primo magio, quando jera qualche ragaza che se riteniva tropo anbiziosa, alora i ndava a portar magio, i ndava in stala de qualchedun che gaveva el mus, i ndava e lo ligava el mus davanti ala porta dela ragaza che se riteniva anbiziosa, opur i ghe tajava i spin e i ghe meteva el spin davanti casa. Me mama la diseva de ndar vedar cosa che i portava, e noialtre sorele jerimo tute terorizade, le ne svejava prima posibile par ndar vedar se qualchedun ghe portava qualcossa.

Nella zona di Pisino, quindi nelle aree più interne dell’Istria, è attestata una tradizione che viene messa in atto fino al giorno d’oggi, quella dei “rubafiori”, cioè uomini che vanno durante la notte del primo maggio a rubare i fiori fuori dalle case di alcune donne o ragazze per trasportarli altrove, sempre con l’intento di lanciare un messaggio ben preciso di gradimento alla ragazza desiderata oppure, se si era stati respinti, una forma di simbolica vendetta:

La su a Pisin par el primo de magio xe tradission dei rubafiori, là xe tuta la note sti omeni che i porta via sti vasi de fiori, e ancora adess i lo fa, tuti sti omeni co la cariola i va in giro co sti fiori, xe un trafico…

La notte di San Giovanni

La notte di San Giovanni, il 24 giugno, coincide con l’arrivo del solstizio d’estate e ha perciò da sempre per i popoli un fondo di magico. Ancor prima del cristianesimo sembra che i celti e probabilmente anche i veneti antichi accendessero grandi falò per rischiarare questa notte particolare, ricca di simbologia. I roghi venivano innalzati per santificare il dio Sole, e sembra che anticamente avvenissero anche sacrifici umani, come testimonia per le Gallie Giulio Cesare; mentre ai tempi del Re Sole, nel XVII secolo, in Francia si praticavano sacrifici animali con un grande cesto contenente una volpe e due dozzine di gatti, che venivano messi al rogo.
La notte di San Giovanni rappresenta anche nel nord Europa la festa di mezza estate, la notte con l’oscurità più breve tra tutte, per cui è tradizione ritrovarsi fuori di sera e accendere centinaia di falò in adorazione del Sole che tra poche ore si alzerà.
Nel Polesine era diffusa almeno fino agli anni Cinquanta una processione sacrale lungo le rive dell’Adige, svolta in alcuni luoghi l’ultima sera di maggio, ma che si ricollega chiaramente ai fuochi di San Giovanni. Lungo la riva dell’Adige venivano portate cinque grosse torce per accendere poi altrettanti fuochi, camminando fino a giungere al grande fuoco finale, dove la processione girava intorno per tornare poi sui propri passi: era questo il giro solare, e in quanto compiuto nella stagione del raccolto aveva senz’altro un fine propiziatorio.
A Venezia diversi fuochi venivano accesi il giorno di San Giovanni, mentre nelle campagne sembra prevalere il rito della notte precedente la festa: ecco che allora venivano accesi fuochi altissimi, posti sopra dei pali molto alti conficcati nel terreno, e comparivano così vere e proprie lingue di fuoco che illuminavano la notte.
In alcuni paesi della provincia di Belluno, soprattutto nell’ampezzano, i ragazzi lanciavano razzi infuocati in aria: era l’equivalente de lis cidulis nel vicino Friuli.
Il rito delle cidulis prevedeva infatti di prendere dei dischi di legno infuocati, solitamente d’abete, e di levarli in un primo tempo in aria gridando il nome del santo patrono; subito dopo venivano lanciati giù per un precipizio gridando il nome della ragazza amata. Questa particolare tradizione friulana era diffusa non solo la notte di San Giovanni, ma anche in altre occasioni, tra cui la vigilia dell’Epifania, nei Pignarul (falò).
Il lancio de lis cidulis sembra a sua volta importato dalla vicina area tedesca, dove era invece riservato alla sola notte di San Giovanni, in un territorio geografico con al centro la zona del Lago di Costanza, quindi tra le regioni di Tirolo, Baviera, Svizzera tedesca e Baden-Württemberg.
Dotata di particolari significati era poi la rugiada raccolta nella notte di San Giovanni, tanto che si usava rotolarsi nell’erba piena di aguàsso della mattina presto; in questo modo si diceva che venissero allontanate pericolose malattie, come la temibile rogna.
In diverse zone del Veneto venivano raccolte nella notte di San Giovanni, fino a pochi anni fa, le noci dalla nogàra, perché si riteneva fossero anch’esse dotate di poteri particolari:

San Giovani ghe jera ‘naltra tradission, quea de le nose de San Giovani, bisognava tore ste nose la note de San Giovani, che le sarìa stae ténare, ’e te fasea mèjo, insoma, ‘a jera na note magica.

Infatti bisogna raccogliere le noci proprio in questa notte particolare per fare il migliore nocino, il liquore così apprezzato. Inoltre la rugiada magica della notte di San Giovanni veniva usata anche dalle donne per preparare una sorta di tintura con cui detergersi i capelli e tonificare la pelle.
Anche in Istria la festività assume un ruolo particolare e vede l’accensione dei famosi fuochi sacri. Questi grandi falò venivano accesi con le sarmènte, ossia con gli scarti della potatura e non di certo, affermano i testimoni, con le legne buone:

Qua in Istria i foghi se faseva par San Giovani, no par la Befana. Questo però bisogna saver che qua no jerimo richi de boschi de poder far sti falò, se faseva co le sarmente, co le robe che se scartava, no mia con le legne bone, e alora par San Giovani se faseva le fassine, la sera del 23 giugno. Mi me ricordo che co tuti quanti queli par la contrada se faseva un grande mucio co le sarmente e partecipava tuta la contrada, e se saltava el fogo, tuti cantava e se saltava el fogo.

Le testimonianze raccolte concordano nel ricordare che ogni colmello del paese accendeva il proprio fuoco, in una gara a chi lo faceva più alto, mettendoci dentro le foglie di alloro che producevano una grande vampata; mentre la spiegazione popolare dell’accensione dei falò attribuiva il motivo del fuoco all’eliminazione delle zanzare estive:

No jera un sol fogo par tuto el paese, ogni parte del paese gaveva el suo e se faseva le gare chi che lo faseva più grande e quel che ne piaseva metere dentro la fogo xe el làverno, che sarìa l’alloro, parchè butandolo sol el fogo le foje le faseva la vampada, un fogo alto. E mi me ricordo che me nono me diseva che se faseva par via dei mussàti, parchè in giugno cominsia i mussàti, el fogo disinfeta, disemo.

Le sagre paesane

La sagra di paese ha esercitato da sempre un fascino particolare per la genuinità, per l’atmosfera che vi si respirava, per essere insomma un momento nel quale la comunità poteva finalmente fare un po’ di festa al di fuori dei lavori dei campi o di altre asperità che rendevano a volte pesante l’esistenza. Così alla sagra tutti si ritrovavano in allegria, compaesani e foresti, ma questi ultimi – provenienti magari dal paese confinante a soli tre chilometri di distanza – venivano spesso guardati in cagnesco poiché si temeva che rubassero le ragazze a quelli del luogo.
La sagra di paese proviene dalla tradizione religiosa (la parola deriva dal latino sacra) e prevede la messa solenne in chiesa, seguita dalla processione con la banda del paese e il concerto delle campane. Dopo le funzioni religiose, ricorda lo scrittore Giacomo Dal Maistro, si materializzava un affresco di giochi, divertimenti e cibi a lungo attesi:

Finìo el vespro, i xe andai tuti do a la sagra dove che ghe gera ‘na confusion che no ve digo: bancheti de tute le sorte, el zogo dele tre balete sconte dove i più pampalughi perdeva un grumo de schei, giostre a caene e a cavai piene de speci e de figure, tiri a segno e odor de folpi, de castagne e de pólvere da sbaro: odor de sagra insoma.

Dopo il rito religioso si passa alla fase più profana, con le giostre in piazza, per molto tempo limitate a el trenìn e ‘a giostra a caenèle, quest’ultima detta comunemente giostra a peàe in cul poiché si spingeva da dietro con i piedi la seggiola che precedeva. Completavano il quadro le osterie con i tavolini all’aperto, gli spettacolini viaggianti di burattini e marionette, le bancarelle ambulanti con i giocattoli e i dolciumi come i tiramòla e i bussolài. Tipici dopo i vespri del pomeriggio erano i giochi popolari come

  • ‘a córsa coi sàchi, nella quale venivano tracciate delle righe con la calce per terra a mo’ di corsie, e lì ogni concorrente partiva correndo dentro un sacco che doveva tenere con le mani; cadute dei concorrenti e risate del pubblico erano sempre assicurate;
  • ‘a gara de la pastassùta, la quale prevedeva che i concorrenti al via del giudice
    dovessero mangiare un piatto di pasta fumante con il solo ausilio della bocca; naturalmente chi finiva per primo vinceva un premio;
  • el palo de la cucàgna, ambita gara a squadre nella quale i più lesti riuscivano a salire sulle spalle del compagno sempre più in alto fino ad arrivare a prendere i salumi, il pollo e gli altri premi appesi attorno a un cerchio di ferro, in cima al palo;
  • el tiro a la fune, dove squadre di uomini e talvolta donne, anche numerosi, si sfidavano a tirare la corda (con gli avversari al capo opposto) nella propria metà campo; il campo era un terreno da coltivazione a tutti gli effetti per cui si finiva sempre, a seconda delle stagioni, impolverati o infangati;
  • ‘a rotùra de le pignàte, che era un gioco molto divertente per chi vi assisteva perché i prescelti dovevano essere bendati, prendere un bastone in mano e battere a caso verso l’alto, dove era stata tirata una corda sulla quale erano appese le pignate; queste ultime erano di solito costituite da vasi di coccio che quindi si rompevano e lasciavano cadere il loro contenuto, più o meno allegro: infatti potevano contenere caramelle e torroni ma anche acqua, farina o cenere, destinati a precipitare in testa al malcapitato che aveva rotto il vaso.

La sagra paesana è stata dunque per secoli un luogo d’incontro per tutti, tanto che prima dell’avvento della discoteca era qui che spesso i giovani se catàva la morósa. Le sagre hanno conosciuto negli ultimi decenni un periodo di decadenza, spiegabile con nuove opportunità di divertimento legate al benessere economico.
Numerosi commentatori di fenomeni sociali avevano già suonato il de profundis per queste feste, ritenute ormai superate dai tempi; sembra invece che negli ultimi anni esse siano ritornate in auge, naturalmente modificate rispetto alla tradizione delle sagre di un tempo, ma comunque vive e vegete.
Per quanto riguarda l’Istria, il paese di Verteneglio si trova vicino a Buie e a Cittanova, ed è uno dei comuni istriani dove tuttora si parla maggiormente il dialetto istroveneto. In questa località esiste anche una nota sagra istriana, quella di San Rocco, che continua ad attirare parecchia gente anche da fuori paese, come avveniva già sotto l’Italia e anche sotto il governo della Iugoslavia:

La prima sagra del paese xe San Zanon che sana de la ciesa el 12 aprile, desso la xe un fià dimessa come sagra parchè gavemo San Rocco, 16 de agosto, che désso xe festa granda. Ancora desso par San Rocco xe pien de bancarele, le xe sai conossuda in Istria la fiera de San Rocco de Verteneglio, se baia, se salta, co xe rivada la Jugoslavia me ricordo che se rostiva el manzo in piaza, po co la malatia de le le bestie se ga ferma,, desso vien tanta gente, se chiudi el paese, e se fa tre giorni de festa, e po’ la finissi co i foghi… La preghiera tradissional de San Rocco xe: San roco benedeto, Idio mandi piova [o mandi sol, a seconda delle necessità].

I testimoni in loco ci hanno riferito anche dell’usanza del giorno successivo alla sagra di San Rocco, quando gli uomini brilli per il vino non lavoravano, e allora si proseguiva la festa in un modo particolare, cioè andando con i carri e gli animali nella sottostante spiaggia di Carigador, mentre le donne preparavano gli gnocchi, e una volta arrivati al molo venivano anche liberati in acqua gli animali per lavarli.

El giorno dopo san Rocco no se lavorava parchè tanto i omeni jera mesi brili, i beveva, alora se tacava el careto co i manzi e le bestie e tuti zo al mar a Carigador, el se ciama cussi perché xe un molo, e la se caricava la roba par ndar a Trieste, mio nono ga vendudo tuto lì… alora quel giorno metevimo su el caro che el gaveva le bandine, e là sola tavolaza del caro se faseva i gnochi, me mama la sbateva el pan co l’ojo e la faseva un piato dolce. Se rivava a sto Carigador che jera due case, e jera dei grandi roveri, e alora se molava le bestie, i le lavava e poi le portava soto i roveri, po se vegneva suso e poi se magnava, se beveva, se ndava cior dei spizi, e noi fioi dopo el bagno se racolieva le pantanele, le xe dele capete picole tacade so el sasso del mar, le xe picie cozze tacade, e racolievimo tuto questo e se magnava.

Il filò autunnale in stalla

Il filò, scrive un vero cantore del mondo contadino come Dino Coltro, è vecchio come il mondo, da quando l’uomo preistorico si raccoglieva attorno a un fuoco con i compagni e sentiva il bisogno di narrarsi e di interpretare le forze buone o cattive della natura attraverso il mito. Ecco allora che all’inizio di novembre, con la fine dei lavori agricoli e l’arrivo dei primi freddi, le famiglie contadine venete iniziavano a ritrovarsi nelle stalle per fare il filò, la veglia, attività che proseguiva fino a primavera quando veniva sospeso per la ripresa dei lavori nei campi.
Da alcune testimonianze sembra quasi di rivivere le lunghe e fredde serate invernali, che in questo caso si riferiscono agli anni venti e trenta del Novecento:

Se magnava senpre al fredo e po’ se ‘ndava so la stala, a la porta se alsava el ciavistel e se verseva tuto, e mi e me cugine jerimo a dormir fora dea casa, dal sotoportego i me gaveva parecià un scalin par ‘ndar su so sta camara, dove che se dormiva, gnanca na botilia de l’aqua, un fredo… coverte poche, se stava ben in stala, vissin a le bestie e al bo, se pusava i piè so la bestia par scaldàrseli, e basta.

L’inizio canonico del filò sarebbe il giorno 11, ricorrenza di San Martino, che era il termine da contratto dell’anno agrario; diverse testimonianze ci confermano però che in realtà si iniziava a fare filò già dai giorni dei santi e dei morti, vale a dire dai primi di novembre.
La parola filò oppure fila (entrambe le varianti vengono adoperate a seconda delle zone) deriva secondo alcuni studiosi dal verbo filare, l’occupazione tipica delle donne in questa occasione. Secondo altri avrebbe un significato ancora più pregnante, derivando dalla parola greca fìlè che indica lo stare insieme, il gruppo, venendo così a sottolineare la grande importanza sociale e culturale di questo rito per la società rurale.
Il filò era spesso l’unico posto riscaldato dove più persone potevano ritrovarsi insieme e scambiarsi la propria cultura; una cultura essenzialmente orale e popolare differente da quella scritta e ufficiale delle classi benestanti. Nella stalla i bambini si sedevano vicino agli altri loro coetanei e imparavano dai nonni e dai genitori a raccontare una storia e a fare qualche lavoretto. Le donne filavano e c’erano tra di loro le ragazze da maritare che stavano sempre con l’orecchio teso alla porta della stalla per controllare se arrivava qualcuno dei loro pretendenti. Gli uomini infine facevano piccoli lavori per aggiustare gli attrezzi oppure giocavano a carte.

Attrezzi contadini veneti.

Tutti in ogni caso parlavano, raccontavano e si raccontavano, e tutti alla fine del filò o quando era ora recitavano le preghiere di rito, simbolo della profonda fede che univa giovani e vecchi al di là delle sventure che la vita dura dei campi spesso presentava.
Valore essenziale avevano le canzoni in compagnia e soprattutto le storie, o fòle, che a filò si raccontavano, fossero esse conte di personaggi fantastici come le strìghe o il massariòl, o leggende tipiche che i nonni tramandavano ai più piccoli, come el Mago dai oci rossi, il Nòno cocòn, Pieréto e la vècia che magnea i tosatei e tante altre. Anche dopo molti anni dalla fine del filò, i suoi protagonisti – allora bambini – ricordano alcune fòle che avevano ascoltato nella stalla:

La canson che me ricordo xe: la bela giardiniera tradita ne l’amor, la gira la ringhiera par cercar el traditor… e dopo el traditor la ga tradìa… e dopo nove mesi è nato un bel bambino, bianco e nero e tuto riciolino… Na volta ogni sera nel periodo invernae se fasea el filò, me ricordo de le storie che i contava, come La bella di Parigi, Giovanin sensa paura, e po’ le storie del Massariolo, dele fate… ma le storie no ‘e durava ‘na sera, ‘e ‘ndava senpre vanti.

In alcuni casi, tra i vari personaggi presenti al filò, la figura del narratore di storie, il contafòle, era a volte tanto presente da restare scolpita nella mente dei presenti anche a distanza di molti anni. Questo fatto ci viene confermato da una testimonianza che ci descrive un certo Angelo, un contafòle della zona di Portogruaro che usava anche degli effetti speciali per catturare l’attenzione dei bambini, come vecchi coperchi di pentole per simulare l’operato del muleta, l’arrotino:

Se diseva la fila, senpre de inverno se faseva la fila, se jera scomodi, ma par star in conpagnia, la sera… vegneva qualchedun, come un omo che vegniva che el jera bravo a contar barzelete, el se ciamava Angelo, el sarà morto da chissà quanti ani… el jera tanto bravo a contar barzelete, el ciamava i fìoi, ghe jera anca i me cugini, el ghe diseva ‘ndè a cior coverci e un po’ de aqua, no ghe jera mia ‘a luce, e alora i ghe dava i coverci e lu el scominsiava a far cussi [fa segno con le mani di battere i coperchi tra loro] co i coverci e i fìoli i ghe butava zo l’acqua, e lu el cantava: me pare fasea el muleta, mi fasso el muletier, erèdito el mestier, erèdito el mestier…

Non solo: a filò chi sapeva farlo leggeva per tutti anche i giornali dell’epoca (sarebbe stato impensabile per un contadino o un bracciante leggerli a tavola o al lavoro come si fa adesso). Si ascoltavano i racconti delle persone di passaggio che venivano anche da molto lontano e si commentava quello che succedeva nel mondo, perché le notizie spesso viaggiavano molto velocemente anche una volta, più di quanto pensiamo noi oggi, malgrado non esistesse internet… Il filò era insomma un vero e proprio momento formativo e informativo per la società contadina ed è rimasto insostituibile fino agli anni cinquanta del Novecento, quando in poco tempo la televisione – con la cucina economica a riscaldare la casa – ha preso il suo posto come strumento di educazione delle masse.
Ma tornando a come si svolgeva un filò, abbiamo detto che le donne filavano e gli uomini riparavano gli attrezzi o giocavano a carte. Succedeva a volte che anche le donne, di nascosto dagli uomini, si mettessero a giocare alle carte o alla tria (quest’ultima era incisa su  uno sgabello di legno e venivano usati i fagioli come segnapunti); in tal modo le donne dimostravano di volere anch’esse divertirsi, come per conquistare un ruolo di parità di diritti, concetti ancora sconosciuti nella società contadina di inizio Novecento:

Al filò in stala, là onde che son nata mi, se avea la vaca, ma no l’è che se ‘ndea so tute le stale, se ‘ndea so quele pi grande, alora noi tosate le ne à insegnà a far i calzet, i òmeni i fea i màneghi dei rostèi, de le sape… i òmeni i ‘ndea a dormir so le nove e mèda, alora me zia la disea “via, via tosate, metì via i calzet”, e la tirea fora le carte, e se dughea a brìscola, a tressète, la gavea na passion par le carte… e sino se dughea la trida [tria], ghe n’era an scagn de legn in stala, e so qualche scagn ghe n’era disegnà la trida, e là se metea i fasoi par segnar la trida.

In questo contesto comparivano alcuni personaggi particolari come i sonadòri (musicisti ambulanti, la cui figura più nota era il Torototèlà), i forèsti (gente di passaggio che chiedeva di poter dormire per una notte nella stalla), gli artigiani che facevano lavori di impagliatura di sedie, ferratura dei cavalli o altro. Una tipologia particolare di frequentatori del filò erano i “rappresentanti” dell’epoca, come i venditori di fave, di castagne, oppure le donne che scendevano dalle montagne, soprattutto del Friuli, per vendere el ciassut, cioè gli oggetti di legno da loro stesse realizzati:

In stala nostra no vegnea zente da fora a contar le storie, ma so le stale pi grande sì, come quea dei Badàri, e ora ghe jera de la zente fìssa, el seler che ferava i cavai, quei che vegnea inpajar ‘e careghe, quei che vendèa ‘e castagne e alora vegneva anca quei che vendeva ‘e fave e i tosi ghe pagava a le tose ‘e fave… diese schèi costava ‘a fava… e po’ vegnea zo le fémene da la montagna, da l’Alpago e da altre zone a véndar robe de legno, le vegnea a piè, co la gerla in spala.

Il Torototèla era una figura caratteristica di musicista ambulante che girava di paese in paese chiedendo un’offerta in cambio della sua esibizione. Diceva di arrivare da Vicenza ed era rappresentato nelle stampe dell’epoca con un vecchio violino e vestiti sgualciti. Ecco il testo della canzone tipica che lo accompagnava, secondo la versione del Canzoniere Popolare Vicentino:

Xe rivà el torototèla, xe riva el torototà, co le scarpe tute rote, col gilè tuto sbregà.
Xe do giorni che camino par rivare fin a qua, so’ partìo da Vicensa son vegnudo fin a qua par augurare bona fortuna. E dal viagio che mi go fato le scarpe nove go sbregà. E se palpo in te la scarsèla no xe concesso de sparagnà e la varda nel cassetin che ghe sarà el me contentìn e la varda tra chei travi che ghe sarà un bel salamin.

Da notare come praticamente tutte le fonti mi abbiano confermato la presenza al filò di queste donne, le venditrici ambulanti che passavano mesi lontano da casa girando a piedi per chilometri e chilometri, portandosi dietro con un carretto la loro mercanzia da vendere:

Le vegneva zo le fémene dal Friul co un caretin, un birocin, e le vegneva a véndar el ciassut, che saria i méstoli de legno, altre robe de legno, ma le faseva tanta fadiga a véndar parché schei no ghe ne jera… Na volta ghe jera tanti poareti che girava par le case, e alora co la sèssola i ghe dava un pugno de farina o un toco de polenta.

Nel bellunese questo fenomeno è continuato anche dopo la guerra, quando le venditrici ambulanti avevano iniziato a vendere oltre agli oggetti in legno anche altra merce, per esempio gli asciugamani:

Quele che le vendea roba de legn, le vegnea da Erto, quele le vegnea a véndar el cazzot, quele robe de legn, una l’avea cominciò a véndar anca i sugaman, anca dopo la guera, po ’noi’è pi vegnesta, l’avea problemi co al so om.

Nel vicentino le donne che andavano nelle stalle a vendere gli oggetti in legno da loro stesse prodotti si chiamavano canolàre: spesso si trattava di ragazze giovani che pur di ricevere ospitalità nella stalla per la notte non esitavano a fingersi sposate, mettendosi una fittizia vera di nozze al dito; in questo modo potevano riposare un po’ prima di riprendere il giorno dopo a fare ancora molti chilometri a piedi.

Vegnea a véndare roba le canolàre, le vegnea, a véndare robe de legno, le jera zóvani, tosate, che magari se metìa la vera al déo par far crédare che le fusse sposa, par dormire qua… noaltri jerimo na fameja bastansa bona ghe dàimo da dormire a tuti quanti… ste canolàre le vendea tute roba de legno, co la so carioleta, el so caretin, le vegnea da Belun, sù par de là, e po’ le ‘ndea véndare al marcà a Arzignan, a Castelgomberto, a piè le vegnea… le vegnea senpre qua a dormire, da noaltri… no che no ghe faseimo da pagare, pi de cavare la paja dal pajaro, che le dormìa in stala, e là le dormìa.

Nell’Istria non risultano veri e propri filò tenuti nelle stalle per tutto l’inverno, anche perché le stalle erano poche e di dimensioni ridotte, in quanto si allevavano per lo più ovini, come la famosa capra istriana, e non bovini. È presente d’altra parte un rituale di lavoro e di socialità simile al filò che si svolgeva in autunno, quando veniva tagliato il mais e se sfojava, cioè si toglievano le foglie più leggere della pianta di granoturco per metterle in un sacco e fare el pajòrt, ossia il materasso dei contadini, come ci è stato descritto:

Mi me ricordo che se se trovava nele cantine e se sfojava, in autuno e sa cossa che fasevimo? Dividevimo le foije pi grosse del granoturco, ma quele più legere le salvavimo par far el pajon, in casa de me nono senpre se ga vissudo co le pajon.
Se diseva far le pane de formenton e se faseva senpre de sera, noialtre done se portava la famose infrandito, che se ciama le opanke, e senpre se ofriva quelo che se gavea ai ospiti, o se faseva i calamari friti, o la mortadela, par queli che vegniva, me ricordo che se ciacolava e se contava tante storie.

La festa di San Nicolò

Prima di Natale cade la festa di San Nicolò, il 6 dicembre. Questa ricorrenza è tuttora molto amata dai bambini in alcune zone del Veneto perché coincide con l’arrivo dei regali natalizi: ricordiamo che fino a metà ’900 Babbo Natale era praticamente inesistente in queste zone. Nel Veneto orientale, al di là del Piave, è San Nicolò (il Santa Klaus dei paesi nordici) a portare i doni a tutti i bambini. La tradizione prevedeva che i più grandicelli, che avevano già capito che dietro la figura di San Nicolò c’erano mamma e papà a confezionare i doni, passassero per le strade battendo su campanacci e grossi bussolotti per annunciare ai più piccoli l’imminente arrivo del santo, cantando la canzoncina: “San Nicolò de Bari, la festa dei scolari, e quei che no fa festa ghe tajaren la testa. La testa sul tajer, un odo par banda, le budele su na stanga e viva San Nicolò”.
I bambini che desiderano il regalo devono però essere già a letto, altrimenti resteranno senza: per questo i piccini si coricavano presto, sognando il tintinnio di campanelli che annunciava l’arrivo di San Nicolò e la cesta piena di regali. Si trattava naturalmente di doni che oggi definiremmo poveri, come mele, uva passita, bambole di panno (le cosidette pùe), carrettini di legno o statuette di terracotta. Per i bambini la notte dell’arrivo di San Nicolò era una notte speciale, dai preparativi della sera prima fino alla sorpresa dei regali la mattina presto.
Una storica e grande festa è quella di San Nicolò a Trieste. Qui dai tempi della vecchia città asburgica si svolgeva (e si svolge, pur con notevoli cambiamenti da allora) la festa di questo santo. Allora i bambini si recavano nei giorni precedenti davanti a una statua, creduta erroneamente di San Nicolò, per manifestare i propri modesti desideri, come: “San Nicolò, a mi portime un cavalin”, “A mi portime una trombeta”, “A mi portime una pupa”.
La fiera iniziava alcuni giorni prima del 6 dicembre e si teneva nella Via nova, lungo la quale si trovavano file e file di bancarelle piene delle più svariate mercanzie, dalle bamboline da 2 centesimi (pupe) ai fischietti (subiòti), ai diavoli e agli spazzacamini. A questi semplici ma apprezzati giocattoli si aggiungevano cassette di legno piene di dolciumi e frutta secca, soprattutto susini e fighi suti. A richiamare l’attenzione dei passanti, in questa vera e autentica festa popolare, erano i venditori stessi che gridavano continuamente: “Sanicolòo, Sanicolòo”.
Dopo l’unione di Trieste all’Italia ci fu chi voleva abolire questa festa, ritenuta tipica del mondo tedesco, a favore della più italica Befana, ma fortunatamente essa è sopravvissuta a caratterizzare così l’identità triestina.

Il Natale

Natale è solitamente la festa più importante dell’anno. Una volta non esistevano regali costosi, settimane bianche o viaggi ai tropici, sicché il Natale anche nella regione veneta era assai più povero di oggi, ma era caratterizzato da una spontaneità e una gioia maggiori rispetto ai giorni nostri.
Un tempo le donne, mentre preparavano il pranzo di Natale, mettevano el nadalìn, un grosso ceppo, nel camino: posto la sera della vigilia, doveva bruciare tutta la notte. L’inchiesta sulle tradizioni popolari venete del 1811 ne ricorda così lo scopo propiziatorio e curativo:

Nella vigilia di Natale alcune femminette usano porre al fuoco un grosso legno, e lo lasciano consumare poco a poco perché duri fino all’Epifania, e credono quelle ceneri essere rimedio sicuro per le postème e per mali che soffrono le bestie bovine. Così si accendono fuochi per la campagna la sera precedente e susseguente la Epifania.

Quando si parla del Natale di una volta non bisogna dimenticare che si trattava di una festa povera: per i nostri nonni era già un lusso poter mangiare mostarda, mandorlato, bìgoi in salsa e magari cantare in allegria tornando in mezzo alla neve dalla Novena di Natale, vale a dire la funzione religiosa che si svolge nei nove giorni precedenti la festa:

A Nadàe no ghe jera regai, solo a la Befana rivava ‘a calsa, co dentro bagigi, stracanasse, qualche naransa, nosèe, carbon, bòtoi, quei del sinquantin che jera pi curti, no i grandi del sonturco; ghe jera ‘e carobe, desso no te ‘e cati gnanca pi, carbon, ma carbon proprio, no mia queo de sùcaro… Nel tenpo de Nadàe ‘ndaimo a la novena e tornàimo indrìo cantando, in mèso a la neve, parché na volta ghe jera ‘a neve! ‘A novena ‘a fenìa so le quatro e mésa, co jera ‘ncora ciaréto.

I canti della stella

Nel periodo natalizio i bambini delle campagne venete si divertivano – e in alcuni casi si divertono tuttora – a girare per le case cantando la Stéla o Ciarastéla. Con questo canto, accompagnato talvolta da suonatori di bòghe o fisarmoniche, si vuole rappresentare l’annuncio della nascita di Gesù che i pastori portarono di casa in casa. I bambini utilizzano il rito come canto di questua per richiedere, alla fine della loro esibizione, dei dolcetti da mangiare la sera del Panevìn. Spesso accompagnati da una grande stella portata sulla cima di un bastone (da cui il nome stéla), cantano così: “Semo qua dai tre Lorienti che ghèmo visto la gran stéla”, oppure “Dolce felice notte, che più scura sei del giorno per veder la luce attorno la Ciarastéla”.
Nella valle dell’Agno, nel vicentino, erano molto diffuse le compagnie di ragazzi che portavano la stéla sopra un grande bastone e giravano per le contrade del paese intonando canzoni natalizie, come ci conferma Momi per il paese di Trissino:

A Nadàe, vegneva un pochi de zóvani a cantar la stéla par le contrà… mi no ricordo cossa che i cantava… ninte, i passava par la strada e i cantava, qua in via Pranovi na volta solo i vegnea, no i sonava, i cantava solo, i portava la stéla so un baston, che la girea torno co l’aria… se ghe dava na oferta a sti qua che vegnea cantare, no tanto, parché qua in via Pranovi jerimo pochi, oto fameje in tuto.

Alcuni studiosi hanno ricostruito, sulla scia degli studi più recenti in area tedesca, la genesi e la grande diffusione dei canti della stéla e più in generale dei canti di questua. È possibile constatare, documenti alla mano, come le questue del periodo natalizio fossero presenti già a metà del Cinquecento e come siano molto probabilmente da inserire nelle grandi azioni a livello popolare stabilite dalla Controriforma. Infatti nell’area alpina e nelle regioni circostanti – quindi anche nelle Venezie – la Chiesa cattolica temeva un’ulteriore espansione della Riforma protestante, e pertanto incoraggiò la diffusione di questo nuovo fenomeno musicale che prevede la produzione di laudi a travestimento spirituale che vanno edite e diffuse con ogni mezzo.
È così possibile spiegare l’enorme diffusione di canti e riti di questua nel periodo natalizio, usanze che nei secoli si sono tramandate sino ai giorni nostri. A dire il vero anche i suddetti riti hanno rischiato di scomparire del tutto negli ultimi anni sotto l’onda travolgente della modernizzazione. Per fortuna, anche se ormai ignote al grande pubblico, queste tradizioni oggi sopravvivono o vengono fatte rivivere in diversi paesi del Veneto e dell’area alpina in generale.

Tradizioni natalizie in Istria: San Nicolò

Anche in Istria San Nicolò è la festa in cui arrivano da tradizione dei semplici regali per i bambini, come un pezzettino di carbone, qualche caramella, e anche cibi con la sansa, ossia lo scarto della lavorazione delle olive:

Par San Nicolò trovaimo el piato e par la Befana la calza, co dentro un toco de carbon e o anca el ‘palpame’, che sarìa la sansa, el scarto che i fa l’oio de oliva de seconda classe, e un bonboncin, qualcossa, questo jera par san Nicolò, se mete el piato so la finestra, e anca desso se fa, parchè mio nipote désso el se ga incorto che san Nicolò la xe na bugia el ga dito a so marna: te disi senpre che no se dise buzie!

Natale istriano

Anche per la vigilia di Natale, così come nel Veneto, in Istria si mangiava di magro, cioè si mangiava poco e senza assolutamente carne, così da tornare a casa dalla messa natalizia di mezzanotte pieni di fame:

Alora na volta vegnevino casa da messa de mezanote afamai come i lupi che se fazeva la messa a mezanote, no ale dieci, se saziavino de fritola e me papa el tajava un toco de luganega e se saziavimo co la luganega.

Un fatto ricorrente tra le testimonianze raccolte in Istria è quello relativo agli esuli, i quali dopo i tragici fatti del periodo tra il 1943 e il 1954 hanno dovuto lasciare la loro terra per rifugiarsi altrove, portando però con sé tutte le tradizioni istriane, compresa quella di mangiare polenta e baccalà la vigilia di Natale:

Una zia de me papà la jera de Stridone, i xe ndai soto el Fassismo a vivere a Maribor in Slovenja, la no jera el bacalà, ma alora la se faseva mandar el bacalà de Trieste, eia fin a 97 ani che la xe vissuda no la ga mai fato una vigilia de Nadal sensa bacalà! Eia la ga vivesto co le tradizioni istriane senza canbiarnla virgola, i gnochi, le strazade che sarìa le tagliatelle, i fusarioli che sarìa i fuzi adesso in croato.

Cibi tipici del Natale

Come è stato possibile riscontrare, persistono nell’Istria di oggi le pietanze tipiche natalizie, come le fritole bolide che si preparano in casa mettendo un po’ tutto quello che si ha a disposizione per formare frittelle che, appunto, vengono prima lessate e poi fritte nell’olio.

Adesso se fa le fritole moderne par Carneval, ma mi fasevo senpre par Nadal le fritole boide, le se fa co na pentola, un po’ de aqua, se butava quel che se gaveva in casa, le scorse, le nosele, quel che se gavea in casa, tuto a pezetini, se faseva la marmelata in casa, me mala la butava marmelada, e po se la gaveva cacao, tute dele robe bone, e quando che sta roba bojia, me nona la meteva anche fighi sechi, e dopo che sta roba ga boio un pocheto, alora se inpastava co la farina bianca e alora se faseva un bel pastòn, e la meteva sora el tavolo, e la condiva co l’oio parchè sta roba la jera tacadiza, e la meteva zucaro parchè sta roba doveva essare dolce, e la svodava sto paston parchè el jera caldo, se faseva le balete e se butava ne l’oio caldo, e po se toleva fora e se butava el zucaro par sora, queste jera le fritole del Nadal, e le se faseva el giorno de la vigilia.

Nella tradizione istriana non mancano mai sulla tavola della vigilia anche baccalà e verze, oltre ai sardòni solài che venivano sciolti in pentola e poi usati per condire i bìgoli, in modo pressoché similare ai famosi bìgoli in salsa alla veneziana, a eccezione delle cipolle che non venivano messe in quanto da soffrigere a parte, mentre così il sugo era già pronto.

L’alberello

Nella tradizione istriana è presente, ben prima che si diffondesse anche in quella veneta, l’allestimento e la decorazione dell’albero di Natale. Le testimonianze raccolte concordano però sul fatto che l’albero scelto e gli addobbi erano tutti prodotti casalinghi o comunque del luogo, a differenza dei classici alberelli a cui siamo abituati oggi con l’abete rosso e le palline colorate.
La pianta scelta come albero di Natale era il ginepro, ben presente nel territorio istriano, che veniva tagliato, portato a casa e fatto stare in piedi in qualche modo, mentre sopra le sue fronde venivano poste carte riciclate di caramelle per inserirvi noci, noccioline, qualche cioccolatino e altro che si poteva recuperare:

Par far l’albero de Nadal, jera tuta na procedura, ma no se saveva ben cossa metarghe, alora se tolea el supìn, se dise, che sarìa el ginepro, quel pino mediteraneo che el ga le robe grosse, ma el jera grosso, e non el stava in nessun logo, no se saveva dove metarlo, no jera gnaca un trepìe, in un vecio secio lo metevimo co le piere, un architeto ghe volea par farlo star in pi! Mio papà el ndava cior una volta uno per noi, dopo uno par mie zie de Buje, dopo par i parenti de Pola, el se toleva el seghin e lo tajava, e una volta no el ghe ne podeva pi, el ga dito vago ber un bicer, el se nda bevar un bicer e i ghe lo ga portà via, noialtri se gavemo messo pianzer… E se qualchedun de Trieste me portava i carameli o un ciocolatin, salvavimo le carte e dopo par Nadal metevimo una nose o na nosela, ma anca una piereta, e dopo se meteva un spagheto e dopo se piacava so l’albero, e anca un bel pomo, un naranzo e altre robe.

A livello religioso è importante notare che in Istria durante l’Avvento era diffusa la celebrazione della messa rorata, detta messa zornica in croato, che si svolgeva ogni giorno, esclusa la domenica, alle 6 di mattina, dove operai e agricoltori si recavano prima di andare al lavoro, e simboleggiava il passaggio dal buio alla luce portata dal Natale. Nella regione veneta tale celebrazione coincide più o meno con la Novena natalizia, la celebrazione tenuta in chiesa tuttora prima di recarsi a scuola o al lavoro, e il cui nome deriva dal fatto che si svolge tradizionalmente nei nove giorni che precedono il Natale.

Giochi e filastrocche istriane per bambini

Molto particolare è la descrizione di una serie di giochi e filastrocche per bambini della tradizione istriana, pervenuti praticamente fino ai nostri giorni e raccolti con cura da David Di Paoli Paulovich nel suo studio documentato su Verteneglio. Ecco alcuni esempi.

Filastrocche a sfondo religioso
Padre nostro grande / la vera penitenza / moro felice / deme la ciave / che vado in paradiso / cosa far lì dentro / cior una colomba bianca / el fogo benedeto / o che bela orazioni. Oppure, tenendo il bambino in braccio e cullandolo avanti e indietro con le mani, si cantava: Cindole baciandole ga fato un bel putin / lo ga menò a Venezia vestì de buratin / scarpe in ponta, camisa zonta, cuco de paia / birbante canaia!
Una variante della stessa era: Zo zo cavalo / la marna vien dal baio / la portarà i susini /par darghe ai fanciulini / i fanciulini cria / la marna scanpa via / la trova el caligher / che tapezava la carozeta.
Giochi maschili
Magnatèra: si tracciava una riga per terra e si lanciava una brìtola che doveva infilarsi giusto lungo la linea tracciata, altrimenti il malcapitato la doveva mettere a posto con la bocca, senza mani.
Kitikot: è il famoso gioco del nascondino, con lunghe ricerche dei ragazzi nascosti per tutto il paese. Il vocabolo è croato e significa anche “solletico”.
Zogo dei ovi de Pasqua: si prendevano delle uova e si mettevano in piedi lungo un muro e a distanza di 5-6 metri dai ragazzi i quali con una moneta da 50 cercavano di colpire l’uovo facendo entrare la moneta; chi ci riusciva guadagnava tutte le uova.
Zogo dei pèrsighi: si giocava in estate con gli ossi delle nocipesche oppure in autunno con gli ossi delle mandorle. Da distante si lanciava un osso verso il mucchietto, e se si colpivano venivano vinti tutti, in caso contrario si perdeva l’osso lanciato.
Zogo con leplòcke: si dovevano tirare dei sassi, usando per lo più quelli piatti e un po’ schiacciati, per accostarli sempre di più; da questo deriva anche il modo di dire Teplozko unpapìn, cioè “ti do uno schiaffetto”. Il vocabolo deriva dal croato plòcke, ossia piastrelle.
Giochi femminili
Far la conta, per esempio: ai bài tu mi stai / ti e mie companie / San miraco tico taco / ai bai eie buf (e si tocca la persona che viene prescelta oppure eliminata). Oppure: Pan pan d’oro la rirerancia / questo gioco si fa in Francia / ero ero ti ero era mi / pom pom d’oro sta soto tì.
Il gioco dela batischiena: un gruppo di bambine si mette in cerchio e comincia a girare intorno; una di loro sta all’esterno del cerchio e correndo a un certo punto tocca un’altra bambina, che prende il suo posto fuori mentre la prima rientra nel cerchio, e così via.

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