È curioso come, nell’ambiente di chi si occupa di lingue e culture minacciate, non esista una definizione universalmente accettata di questo termine fondamentale.
Tutti gli studiosi hanno detto la loro sul significato di “etnia”, ma quasi di sfuggita, un piccolo atto dovuto nelle prime pagine dei loro saggi, subito tralasciato per passare ad argomenti meno evanescenti. Questa non è una critica. Ci sono sotto il cielo alcune cose che tutti consideriamo esistenti, che avvertiamo, addirittura che viviamo con intensità, ma che non siamo in grado di descrivere con un minimo di rigore. Per esempio, nessuno ha ancora dato una definizione netta dell’intelligenza. Nessuno è mai riuscito a spiegare cosa sia l’arte. In un modo o nell’altro, quando c’è di mezzo l’Uomo, non riusciamo ad applicare alcuna metodologia galileiana; la matematica fallisce e la riproducibilità in laboratorio diventa una pia illusione.
Si dirà: la genetica però è una scienza esatta. Vero, ma le sue applicazioni alle stirpi umane lo sono altrettanto? Posso analizzare con precisione le sostanze chimiche che compongono un quadro, ma ugualmente mi sfuggirà l’equazione che fa di quel dipinto un’opera d’arte. Allo stesso modo la genetica mi fornirà una mappa molto ipotetica e sfumata delle “razze” umane; una mappa che non si sovrapporrà esattamente a quella tracciata da un antropologo classico, né a quelle di uno storico o di un archeologo o di un linguista. Eppure che le varietà umane esistano lo vediamo con i nostri occhi, e non è il caso di dar retta a chi le rifiuta soltanto perché finora non si è riusciti a definirle nettamente (le classificazioni antropologiche, da un secolo a questa parte, hanno oscillato tra quattro e una quarantina di gruppi!). Se dovessimo pretendere la perfezione formale della fisica o della chimica nello studio dell’hardware e del software umano, tanto varrebbe seppellire l’antropologia culturale, la psicanalisi e chissà quante altre discipline.
Stessa lingua, stesso popolo?
Dunque, per puro dovere di cronaca diremo che le definizioni di “etnia” sono state finora di tre tipi.
Una, elementare, che fa coincidere una comunità con la lingua parlata al suo interno. E’ una soluzione comoda, l’idioma essendo l’indicatore (un po’) meno nebuloso tra tutti gli aspetti culturali. La lingua c’è, si vede, si può studiare, anche se poi le interpretazioni sono alquanto soggettive (per esempio: “L’asturiano è un dialetto!”, “No, è una lingua!”, e battibecchi del genere). Ma non sempre la comodità paga. Esistono popoli diversissimi che parlano la stessa lingua, come gli ispanofoni e gli anglofoni sparsi nei continenti; ed esistono popoli che hanno smarrito il loro linguaggio, come i cornici della Cornovaglia, o se lo sono visto interdire fino all’estinzione. Siccome è possibile mettere un bavaglio alla bocca ma non al cervello, negare l’etnicità di un popolo solo perché gli hanno distrutto la lingua equivale a ucciderlo una seconda volta.
“La nazione è la volontà di vivere insieme”
Un’altra tendenza appare ancora più semplificata e confortevole. E’ quella del “ma sì, chi se ne infischia delle classificazioni, in fondo uno è quello che si sente di essere”. Già ne parlava Michelet nel 1846: l’etnia “è una comunanza di sentimenti senza l’appartenenza obbligatoria a una razza, senza la necessità di un’unità linguistica”. Non male, se non fosse che così ragionando anche i tifosi del Milan sarebbero una nazione.
Secondo Rupert Emerson, “la più semplice affermazione che si può fare su una nazione è che si tratta di un insieme di persone che sentono di essere una nazione”. E Renan: “La nazione è la volontà di vivere insieme”. Qui la semplificazione è meno banale di quanto appaia a prima vista, e senz’altro meno della tesi di Michelet. Il sentirsi appartenenti a un’etnia presuppone un retroterra di ingredienti che tale sentimento alimentano; anche se poi si possono sorvolare: a contare, qui, è la volontà del soggetto.
L’approccio soggettivo è moralmente appagante, ma disgraziatamente può capitare che un gruppo etnico non si senta tale o non sappia di esserlo. Potremmo citare i provenzali piemontesi, i quali fino a qualche decennio fa ignoravano la loro specificità culturale, e lo stesso discorso vale più o meno per le varie microcomunità sparse nelle Alpi. E’ dunque lecito tralasciare i dati oggettivi perché è assente, magari solo momentaneamente, una coscienza etnica?
Un complesso di elementi
Il terzo gruppo di definizioni, partendo per l’appunto da criteri oggettivi, si lancia in una palude assai più fitta di quella incontrata finora, enumerando le caratteristiche che – secondo i diversi studiosi – concorrerebbero alla definizione di un’etnia. Curiosamente una delle proposte più “etnistiche” ci viene da Stalin: “La nazione è una comunità stabile, storicamente formatasi, di lingua, di territorio, di vita economica e di conformazione psichica che si manifesta nella comune cultura”. Suona piuttosto bene, anche se l’accenno all’economia, inevitabile per un marxista, può essere oggetto di discussioni. Quasi aulico (siamo nel 1851) è Mancini: “La nazionalità è il prodotto di diversi fattori: la geografia che delimita i confini naturali, la razza formata dalla lenta fusione di più razze differenti, la lingua tanto preziosa per la salvezza dell’unità morale. Ma tutto ciò non è sufficiente: tutti questi elementi inerti necessitano di un soffio di vita. E’ la coscienza della nazionalità che la rende capace di costruirsi di dentro e manifestarsi di fuori”. C’è qui una sorta di sincretismo tra il secondo e il terzo gruppo; ci sono soprattutto un paio di battute stonate – i confini naturali, inesistenti per l’etnismo, e la saldezza morale – chiaramente indicanti che l’antenato stava facendo il suo compitino a favore della prossima unità d’Italia.
La vera difficoltà nel determinare con esattezza un concetto generale di etnia non sta negli elementi introducibili. In fondo basterebbe affermare che essa è “un gruppo di individui il cui insieme di hardware e software, osservata a livello statistico, mostra caratteristiche peculiari rispetto ad altri gruppi”. Il problema è che questa, come tante altre definizioni, è applicabile a mo’ di scatole cinesi o, se si preferisce, come una macchia d’olio che si propaghi concentricamente su una carta geografica. Inventatevi una definizione oppure applicatene una di vostro gusto e fate l’esperimento: noterete che suonerà bene anche se riferita a una regione, a una provincia, a un villaggio; o, all’inverso, a un gruppo di nazioni e a un intero continente.
Ma con ciò, le province, i villaggi, le etnie e i continenti continueranno ugualmente a esistere.