Un vero capolavoro di cinico realismo gli accordi con cui Russia e Turchia si sono spartiti il Nagorno-Karabakh, garantendosi il controllo della vasta rete di oleodotti che attraversano (o attraverseranno) il territorio storicamente conteso tra Armenia e Azerbajian. Paese, quest’ultimo che fornisce alla Turchia un quinto delle sue importazioni di gas naturale (oltre a ingenti quantità di barili di petrolio dal Mar Caspio) direttamente all’hub di Ceyhan. E qualche briciola non di poco conto andrà anche al nostro Paese, se abbiamo interpretato correttamente le dichiarazioni di Di Maio.
Ricapitoliamo. Il 10 novembre Armenia (lo sconfitto) e Azerbajian (il vincitore) firmavano un “accordo di pace” sotto la tutela ufficiale di Mosca e ufficiosa di Ankara.
Mentre le colonne dei profughi (si calcola almeno i due terzi della popolazione del Nagorno-Karabakh) si allungavano per abbandonare il Paese invaso dagli “alleati” di Ankara – cioè l’esercito azero e le milizie mercenarie jihadiste qui inviate dai territori già invasi della Siria – iniziava il dispiegamento lungo la linea di contatto dei duemila – per ora – soldati russi, presumibilmente integrati con truppe turche, sul modello delle “pattuglie-miste” nel Nord della Siria. Durata prevista della loro presenza, cinque anni rinnovabili.
Un risultato niente male per Erdogan che vede ratificata la sua alleanza strategica con Baku. Così come vengono confermate le conquiste azere: almeno trecento insediamenti tra cui Susi, strategicamente rilevante in quanto domina e controlla dall’alto Stepanek. Non meno rilevante, l’acquisizione da parte dell’Azerbaijan di un collegamento diretto con Nachichevan, la sua exclave, e quindi con la Turchia.
Ovviamente gli armeni non l’hanno presa bene. A farne le spese il primo ministro Nikol Pashinyan (un leader “di plastica” secondo alcuni commentatori, messo su dall’Occidente un paio di anni fa per allontanare l’Armenia dal suo alleato tradizionale russo) di cui la piazza ha richiesto le immediate dimissioni. Gli altri fatti sono noti: il palazzo del governo letteralmente preso d’assalto, il parlamento occupato e il presidente Ararat Mirzanyan che quasi rischiava di essere linciato dalla folla inferocita. I manifestanti erano anche andati a cercare direttamente a casa sua il primo ministro, presumibilmente non per una pacata conversazione, ma senza trovarlo (buon per lui, naturalmente).
Si diceva delle vaghe (o svagate?) dichiarazioni di Di Maio (“Monitoreremo con attenzione gli sviluppi nelle aree dove si registra un particolare attivismo turco, vigilando affinché siano tutelati il rispetto del diritto internazionale, gli interessi italiani anche economici e con l’obiettivo di scongiurare qualsiasi escalation”). E chi vuol intendere, intenda. Del resto, con buona pace della piccola Armenia, la cooperazione con l’Azerbajian è da tempo consolidata. L’Italia, oltre che il maggior destinatario delle esportazioni petrolifere, risulta essere uno dei principali partner commerciali di Baku con un interscambio annuale – si calcola – di sei miliardi di euro. Sarebbero almeno tremila le imprese italiane che hanno investito nella repubblica caucasica. Risaltano in particolare Eni e Unicredit con interessi stimati in seicento milioni di dollari.
Cooperazione quindi ben consolidata, si diceva. Ma non solo in campo energetico. Forse, magari indirettamente, anche militare. Risale, per dirne una, al 2012 la vendita di una decina di elicotteri Augusta Westland (società controllata da Leonardo-Finmeccanica), ufficialmente per uso civile (ma vengono in mente gli elicotteri venduti alla Turchia negli anni novanta, su cui poi venivano applicate le mitragliere vendute separatamente). Nel 2017 l’amministratore delegato di Leonardo firmava a Baku, sotto lo sguardo del ministro Calenda, un accordo con la SOCAR, la società statale petrolifera azera, per incrementare la sicurezza e l’efficienza delle infrastrutture energetiche grazie appunto alle tecnologie italiche.
Con un diretto riferimento al gasdotto di 4mila chilometri che la SOCAR stava realizzando per far giungere in Puglia e quindi in Europa (vedi la questione del TAP), dopo aver attraversato la Georgia, la Turchia, la Grecia e l’Albania, i previsti 20 miliardi di metri cubi annui di gas di provenienza dall’Azerbajian. Particolarmente rilevante e significativo il ruolo assunto da alcune aziende italiane (Snam SpA di Dan Donato Milanese, Saipem, ENI, Maire Tecnimont…). Appare evidente come in tale contesto l’Armenia sia ormai fuori gioco, estromessa, marginalizzata (eccettuato, a titolo di parziale consolazione, qualche ipocrita piagnisteo sul genocidio subìto da parte della Turchia).
Tornando alla breve ma comunque devastante guerra intercorsa tra Erevan e Baku, andrebbe poi approfondito il ruolo assuntovi da Israele. Se la Turchia sembra aver fornito a Baku – oltre ai mercenari jihadisti – aerei e droni, cosa avrà fornito Israele? In qualche modo deve aver comunque contribuito visto che durante i festeggiamenti per la schiacciante vittoria, i manifestanti azeri inalberavano e sventolavano, oltre al vessillo nazionale e alle bandiere turche, numerosi drappi con la Stella di David.
Un bel casino geopolitico comunque.