Foto di Valerio Raffaele

Tutto sommato doveva essere un bell’edificio. Ora al posto del tetto c’è una voragine con travi penzolanti nel vuoto, mentre le finestre sono ridotte a grossi rettangoli neri che guardano nel nulla. “Chi è che ha fatto saltare in aria la palazzina all’angolo a un paio di isolati da qui?”. Eugenia, la più simpatica tra le receptionist del Reikartz, non è in grado di rispondermi. “So solo che è successo lo scorso mese di settembre. E qualche giorno fa è stato fatto esplodere il ponte della ferrovia”. Da parte di chi, se dei filorussi o dell’esercito ucraino, non è dato saperlo. Certo è che qualcuno nei dintorni sta dalla parte dei separatisti.
Mariupol’ è il terzo fronte di guerra, il più recente dopo quelli di Luhans’k e Donets’k. Qui il primo marzo 2014 i filorussi presero d’assalto il palazzo del municipio assumendo il controllo della città, poi liberata il 13 giugno dai militari ucraini dopo oltre tre mesi di occupazione. Le mire separatiste su questa sonnacchiosa città portuale non sembrano però essersi placate. Basta dare un’occhiata agli eventi verificatisi negli ultimi mesi per capire che probabilmente qualcosa bolle ancora in pentola: a ottobre 2014, in quattro diverse occasioni, gli attacchi ribelli hanno fatto in totale 10 morti; in novembre è stato preso di mira un check-point ucraino causando 2 vittime; il 19 gennaio 2015, 10 case sono andate distrutte a seguito di un’esplosione; il 24 gennaio il bombardamento di un mercato ha causato l’uccisione di 30 persone e il ferimento di un centinaio: il tributo di sangue più alto pagato fino a oggi da Mariupol’.

Non è un caso quindi che i funzionari dell’OSCE – le cui auto bianche sono parcheggiate fuori dall’hotel – abbiano stabilito qui il loro quartier generale. “Mi dispiace, non ho trovato nessuno che possa fare al caso suo. Di questi tempi non è facile trovare persone disposte a parlare di quello che sta succedendo”. Al mio arrivo in albergo avevo chiesto a Eugenia di trovarmi qualcuno disponibile a farmi da guida. Mi tocca accontentarmi di un’indecifrabile carta stradale presa da google maps e di una pagina in formato A4 dove sono riportate alcune informazioni in inglese che la ragazza ha scaricato da internet.
Camminare lungo le ampie prospettive di Mariupol’ richiede prudenza e una certa dote di equilibrismo. L’encomiabile lavoro delle babushke, impegnate già al mattino presto a cospargere le strade di sabbia e sale grosso, non serve a escludere totalmente i rischi di capitomboli su un asfalto reso insidioso dall’infido velo di ghiaccio che lo ricopre. Al termine di una discesa, lungo una strada non lontana dal centro pattugliata da un branco di pacifici cani randagi intenti a “sorvegliare” i marciapiedi, dalla cima di un cavalcavia arrugginito lo sguardo si apre su un pallido sole che illumina al largo le acque cineree di un mare calmo e silenzioso. Non certo blu e ricco di paradisiaci panorami come il Mediterraneo, ma pur sempre affascinante da vedere. Così piccolo e praticamente sconosciuto, il Mar d’Azov – uno specchio d’acqua poco profondo che i greci, considerandolo poco più che una grande palude, chiamavano Palus maeotis – costituisce una sorta di appendice del Mar Nero. A nord-est, dove si gettano copiose le acque del Don, assume la forma di una lunga e stretta spirale che si insinua in profondità in territorio russo. A sud-ovest è chiuso ai lati tra le forche caudine della penisola di Crimea da una parte e da quella di Taman dall’altra. Lo stretto di Kerch, il Bosforo Cimmerio dei classici, scorre tra pianure costiere sbrindellate da lagune salmastre, lingue di terra e gelide correnti oltre le quali si apre l’ampia distesa del Mar Nero.
Nel vedere quel lenzuolo d’acqua grigiastro, immobile e semighiacciato in superficie, si ha l’impressione di essere di fronte alle placide acque di un tranquillo lago. La spiaggia è ricoperta da uno spesso strato di neve che arriva fino alla battigia dove la sabbia, compatta e di colore marrone scuro, è talmente dura da sembrare il permafrost della tundra siberiana. A ridosso degli scogli una poco invitante schiuma bianca è portata continuamente a galla dalle onde di risacca mosse appena da una leggera brezza mattutina.
Alcuni vecchietti seduti su panchine malconce sono impegnati a bere a piccoli sorsi della birra in bottiglia, godendo nel frattempo dei flebili spiragli di calore che filtrano attraverso i colori stinti del cielo. Qualcuno, approfittando delle poche ore di luce, passeggia avanti e indietro sul lungo molo oltre il quale si scorge in lontananza un’intricata selva di gru i cui bracci meccanici, fermi all’imbocco del porto e protesi verso l’alto in tutte le direzioni, sembrano tanti spilli appuntiti che bucano l’orizzonte. I pochi rumori provenienti dalla strada, che oltre i binari della ferrovia procede parallela alla costa, si disperdono rapidamente in quest’oasi di tranquillità. Sembra impossibile che nel bel mezzo di un’atmosfera così quieta si fronteggino a distanza di una manciata di chilometri due eserciti pronti al primo ordine a mettere a ferro e fuoco una città intera.mar-d-azov
In situazioni normali la costa di Mariupol’ dovrebbe attirare in estate un discreto numero di turisti. La scorsa stagione al contrario è stata un disastro. I pochi bar che si incontrano sul breve litorale sembrano chiusi da secoli. Con l’annessione della Crimea da parte della Russia, le acque dell’Azov, per le quali i diritti di sfruttamento delle riserve di petrolio e di gas sono totale appannaggio del colosso energetico russo Gazprom, giacciono completamente sotto le grinfie di Mosca. L’importante penisola però è separata dalla Federazione da un braccio di mare di sette chilometri. Per colmare questa distanza Vladimir Putin avrebbe intenzione di realizzare un ponte sullo stretto di Kerch. Non un’idea nuova considerando che quell’opera, già ideata ma mai realizzata in epoca zarista, venne portata a termine in passato dai nazisti prima e da Stalin poi. In entrambi i casi però le campate in cemento fecero una brutta fine. Nel ‘43 furono le truppe tedesche stesse a ridurle in macerie a seguito della ritirata successiva alla disfatta di Stalingrado. Un paio d’anni più tardi il fragile ponte ricostruito dai russi si sbriciolò poco tempo dopo il passaggio della delegazione sovietica di ritorno da Yalta; questa volta non sotto i volontari colpi di dinamite da parte dell’Armata Rossa bensì a causa del peso eccessivo che gli esili piloni non furono in grado di sostenere.
La realizzazione di un’infrastruttura così importante – che a causa delle difficili condizioni ambientali dell’area su cui sorgerebbe richiede un investimento attorno ai due miliardi di euro – risulta a oggi alquanto ardua. L’economia russa è in picchiata, stretta nella tenaglia delle sanzioni occidentali, mentre il prezzo del petrolio, ai minimi storici, sta riducendo enormemente le entrate monetarie di un grande Paese esportatore di risorse energetiche come la Russia. È probabile che qualcuno al Cremlino abbia ragionato su tutto ciò preferendo l’apertura forzata, a colpi d’arma da fuoco, di un varco terrestre finanziariamente meno esoso piuttosto che costruire una costosa opera sospesa nell’aria destinata a unire le due sponde. Come leggere altrimenti il blitz di fine agosto 2014 che ha portato all’occupazione della piccola cittadina di Novoazovs’k e che ha avvicinato pericolosamente i ribelli ai sobborghi di Mariupol’? Conquistare l’unica grande città ucraina sul Mar d’Azov spalancherebbe le porte a quel corridoio terrestre di 400 chilometri in grado di unire la Crimea alla Russia passando per il Donbas. Un’operazione che, qualora fosse portata a termine, potrebbe significare il preludio a un’ulteriore espansione verso ovest in direzione di Odessa e dell’enclave moldava filorussa della Transnistria. Un progetto a oggi improbabile, ma che se fosse realizzato porterebbe alla riproposizione di quella Novorossiya di imperiale memoria che dal XVIII secolo, e fino al 1917, rimase sotto il diretto controllo russo.

Mariupol’, la “città di Maria”

Lo striminzito “pizzino” fornitomi dalla pur volenterosa receptionist dell’hotel risulta essere piuttosto avaro di informazioni relative alla città. Ai suoi fondatori è dedicata appena una riga in fondo alla pagina. Leggendo quello straccio di parole, la memoria corre alle prime notizie su Mariupol’ che attinsi a Sviatohirsk dalla voce di una fervente suora laica filorussa con un passato da badante a Venezia: “Nel 1778 i greci di Crimea lasciarono la penisola insediandosi sulla costa nord-orientale del Mar d’Azov dove fondarono Mariupol’. Il cui significato non è ‘città del mare’, bensì “città di Maria”.
Quella dei greci del Mar Nero è un’epopea poco conosciuta la cui nascita si perde nella notte dei tempi. Le prime testimonianze della loro presenza sulle coste al di là del Bosforo risalgono all’VIII secolo a.C. Prima di allora il Mar Nero era per i greci un pontos axeinos, ovvero un mare “cupo”, “scuro”, “inospitale”, a causa delle frequenti burrasche e della presenza sulle sue rive e nell’immediato entroterra di popoli guerrieri e temibili come i Tauri, gli Sciti, i Cimmeri e i Sarmati.link-prima-puntataLa necessità di ampliare i propri commerci li spinse oltre l’Ellesponto (lo Stretto dei Dardanelli) per entrare nella piccola Propontide (il Mar di Marmara) attraversare il Bosforo e raggiungere il Mar Nero che, non più invalicabile e finalmente esplorato, divenne per loro un pontos euxeinos, vale a dire un “mare ospitale”.
Una volta fondate le prime colonie, i greci introdussero sul territorio la coltura della vite e crearono una serie di fiorenti porti mercantili le cui economie ruotavano attorno al commercio di grano, pesce, legname, metalli e risorse minerarie provenienti dall’area caucasica. La prova che tutto questo arco di costa era l’equivalente della Magna Grecia mediterranea la si ha dando un’occhiata a qualsiasi carta geografica dell’area dove, sparsi qua e là, si trovano una serie di toponimi dai suoni rotondi che messi insieme compongono un’armoniosa sinfonia ellenica: Sevastopol’, Simferopol’, Feodosiia nel Chersoneso Taurico, l’attuale Crimea; Melitopol’, Mariupol’ e Dioscuria, l’odierna Sukhumi abkhaza dove i resti dell’antico porto greco giacciono sommersi in acque poco profonde, più a oriente. L’antico legame culturale con Atene e le isole del Mar Egeo, dalle quali si erano mossi i primi navigatori, si sedimentò all’interno della multiforme realtà dell’Impero Bizantino, pur in un contesto di non facili convivenze con altri gruppi etnici, rimanendo saldo nel tempo tra la popolazione. In particolare in Crimea (il cui nome russo Krym, derivante dal turco kirim, significa “mia roccia”) dove, nel XII secolo, si formò nella parte meridionale il piccolo regno di Teodoro. Quest’ultimo mantenne la propria autonomia anche quando la penisola fu conquistata nel 1239 dai Tatari dell’Orda d’oro, permettendo così ai greci di mantenere il controllo delle floride attività economiche che avevano avviato nel tempo sulle città costiere insieme ad armeni, genovesi e veneziani.
Un periodo destinato a concludersi nel 1475 quando la Crimea cadde sotto l’influenza ottomana pur mantenendo una certa autonomia sotto l’egida di un khanato semindipendente. Gli empori commerciali avviati dai popoli che abitavano sulla costa furono spazzati via insieme al regno che aveva portato al loro sviluppo. A differenza di altri, i greci riuscirono tuttavia a mantenere in vita le proprie specificità culturali a dispetto della maggioranza tatara che, abbandonato gradualmente il tradizionale stile di vita nomade, iniziò a dedicarsi all’allevamento e all’agricoltura.
Nella seconda metà del ‘700, le vicende di questa eroica minoranza resistita all’implacabile evolvere degli ingranaggi della storia incrociarono i destini della futura Mariupol’. Quando la Crimea attirò le mire imperiali di Caterina II – che vedeva nei suoi fondali profondi l’ideale testa di ponte per conquistare il Bosforo e da lì l’accesso ai mari del sud Europa – per paura delle persecuzioni da parte dei tatari musulmani, i greci, cristiano ortodossi come i russi e loro fedeli alleati, chiesero per bocca del metropolita Ignatius di Gothia e Kefe di colonizzare le steppe deserte prospicienti il Mar Nero e il Mar d’Azov, che l’ambiziosa Caterina voleva rapidamente popolare e russificare. Ricevuta l’autorizzazione imperiale, nel luglio del 1778 circa 18.000 greci e poco più di 12.000 armeni migrarono verso est sotto la guida di Ignatius e dell’arcivescovo armeno Iosif Argutinskij Dolgorukij. Essi si insediarono sulle terre dislocate attorno alla valle del Kalmius, il fiume di Mariupol’, dove le uniche tracce di insediamenti stabili preesistenti erano le rovine di antiche fortificazioni cosacche. Qui la scaltra zarina – volendo imporre l’ennesimo sigillo del suo impero che certamente era in forte espansione, ma che necessitava nel contempo di puntellare le fluide frontiere orientali soggette alle scorribande delle popolazioni asiatiche – aveva dato ordine al prediletto Grigory Potemkin di fondare la città di Pavlovsk. Con l’arrivo dei coloni greci furono di fatto questi ultimi a costruirla, battezzandola però con l’attuale nome, il medesimo di un quartiere della città crimeana di Bakhchysaray dove essi vivevano prima della partenza. I nuovi arrivati iniziarono a dissodare la terra, coltivandola, allevando pecore e costruendo nella zona piccoli villaggi eretti inizialmente con rudimentali capanne di legno.

Cento gruppi etnici

Alla fine del XVIII secolo i tempi erano già maturi per l’arrivo di immigrati provenienti da altre parti d’Europa. Un gruppo di genovesi, che controllava il commercio via mare del grano, si insediò in quella zona della città che venne poi soprannominata via Italianskaja. Durante i primi decenni dell’800, quando molti greci fecero ritorno in una Crimea ormai sotto il pieno controllo russo, toccò ai tedeschi popolare ulteriormente queste lande periferiche con un altro grande esodo, avvenuto su un’area di insediamento che per le popolazioni provenienti dalla Prussia fu seconda solo a quella dei ben più noti tedeschi del Volga. Si trattava di luterani e cattolici emigrati dai dintorni di Danzica, sulla foce della Vistola nell’attuale Polonia, che fondarono una serie di nuove colonie nell’entroterra di Mariupol’ e il cui massiccio arrivo fu favorito dallo zar Alessandro I in persona. Più tardi giunsero anche agricoltori mennoniti – cristiani anabattisti che rifiutavano l’uso delle armi e che già sotto Caterina II si erano insediati in piccole comunità lungo la valle del Dnipro – i quali, in seguito all’introduzione nel 1871 del servizio militare obbligatorio, lasciarono pressoché totalmente i villaggi da essi fondati per emigrare negli Stati Uniti. Così la loro sorte fu così migliore rispetto a quella delle altre minoranze tedesche del Mar Nero e del Volga che Stalin deportò in Kazakistan – insieme ai greci stessi, ai tatari e alla piccola comunità italiana che in Crimea si era insediata nei dintorni di Kerch – temendo la formazione al loro interno di una quinta colonna del Reich nazista.
Intanto Mariupol’ si era trasformata già da qualche decennio in un importante centro metallurgico, noto per la produzione di condutture per gli oleodotti e di binari ferroviari. A queste produzioni si affiancarono presto quelle di acciaio e di macchinari agricoli. Con l’avvento dei piani quinquennali che puntavano a una rapida industrializzazione del Paese e dopo la ricostruzione seguita alle distruzioni della seconda guerra mondiale, la città – che dal 1948 al 1989 venne ribattezzata Zhdanov in memoria di un bolscevico locale – divenne sede di due importanti kombinat metallurgici ai quali si affiancò la costruzione del porto industriale. Nel 1953 si diede avvio all’industria cantieristica navale e la città acquisì sempre più importanza come centro portuale principale di tutto il bacino carbonifero del Donbas. L’agglomerato urbano subì una rapida espansione per accogliere la popolazione in forte crescita. Vennero costruiti quartieri residenziali per gli operai, scuole, ospedali e vie di comunicazione secondo i canoni classici di un’urbanistica sovietica rimasta indelebile nella città odierna.
Oggi Mariupol’ conta poco più di 460.000 abitanti suddivisi in circa cento gruppi etnici; un’eredità lasciata in buona parte dalla babele di popoli transitati da queste parti in poco più di due secoli di storia. Il cinema Savona, chiamato così in ricordo del gemellaggio risalente al 1980 tra l’allora Zhdanov e la città ligure, è una delle poche testimonianze che rimangono in memoria dell’antico legame con l’Italia. Ben diversa è la situazione della minoranza greca, concentrata principalmente a Mariupol’ e nei villaggi limitrofi, che con circa 90.000 persone rappresenta il terzo gruppo etnico più numeroso della regione di Donets’k.
La Lenina, un ampio viale trafficato a quattro corsie che taglia in due la città da ovest a est, è la strada principale di Mariupol’. Alla sua estremità orientale si trova una piazza di forma circolare, chiusa in cima dall’edificio del teatro, attorno alla quale, tra ristoranti, locali pubblici e negozi alla moda, ruota il traffico cittadino. Un paio di camionette dell’esercito sono posteggiate di fronte al piazzale con i militari posizionati lì vicino a sorvegliare le auto di passaggio. Davanti agli ingressi delle banche ci sono lunghe file di persone in attesa di entrare. Anche qui, come in Russia, è scattata la corsa per cercare di cambiare i propri risparmi in euro o in dollari. Nel sadico gioco degli effetti collaterali della guerra, il rublo si sta trascinando dietro la hryvnia, il cui valore è crollato, con il rischio per gli ucraini di ritrovarsi con le tasche piene di carta straccia.
Appena fuori dalla zona centrale, il panorama si trasforma presto in una lunga sequenza di palazzine dalle monolitiche facciate tutte uguali dietro alle quali i condomini, divisi in squallidi lotti di cemento grigio, sono separati da una serie di larghi spazi verdi trasandati. Scendendo una delle strade che li fiancheggiano si scova la parte più popolare di Mariupol’: un mercato dell’usato sviluppato lungo una strada sghemba e piena di buche attraversata dai binari del filobus dove, tra le traballanti bancarelle, si può pescare dal chiodo arrugginito allo sgangherato pentolone senza coperchio. Proseguendo lungo il boulevard principale ci si imbatte nelle vetrine impolverate di un McDonald’s, sbarrato con un catenaccio da chissà quanto tempo, al cui interno si nascondono nell’oscurità dei tavoli ammassati alla rinfusa insieme alle sedie abbandonate disordinatamente per terra. Poco oltre, sul lato opposto della strada, spunta seminascosta dagli alberi la malandata sagoma del palazzo del municipio, vuoto e con le porte spalancate. Le autorità cittadine, nel tentativo malriuscito di nascondere un poco lo scempio, hanno rivestito la parte laterale dell’edificio con luci colorate che una volta accese formano un gigantesco albero di Natale. In cima all’ingresso sventola l’ennesima bandiera ucraina sull’ennesimo palazzo pubblico ridotto a un colabrodo.
Più lo vedo, più mi sembra che quel drappo scosso dal vento simboleggi per l’Ucraina il fuoco fatuo della vittoria di Pirro. Per la popolazione in fuga dal sud-est del Paese è invece l’emblema della guerra, l’amaro calice da ingoiare nella solitudine di una drammatica esistenza. Per gli altri – le superpotenze, le potenze regionali e i Paesi emergenti non direttamente coinvolti in questo conflitto dalle conseguenze geopolitiche globali – il beffardo vessillo dai colori orizzontali è la perfetta cartina di tornasole attraverso cui stilare un bilancio provvisorio dei vinti e dei vincitori. Sorridono al momento gli Stati Uniti – arroganti nel battere sul ferro caldo delle endemiche divisioni europee e decisi nell’impedire a tutti i costi la formazione della cosiddetta “Gerussia”, il solido asse economico tra la potenza produttiva di Berlino e l’inesauribile gas di Mosca – che vedono l’Ucraina come uno strategico hub energetico e futura frontiera orientale di quella NATO vista come il fumo negli occhi dallo Stato erede dell’URSS. Gli stessi Stati Uniti che, per bocca di Bush padre, promisero a Gorbaciov alla fine della guerra fredda che il Patto Atlantico non avrebbe mai inglobato gli ex Paesi satelliti sovietici. Una promessa che non venne poi mantenuta qualche anno dopo, sotto l’amministrazione Clinton, e che agli occhi dei russi costituì il tradimento di quel patto tacito stabilito con gli americani; un accordo mai messo nero su bianco ma che aveva portato in qualche modo a una fine “negoziata” dell’Unione Sovietica.

Dove la Russia si gioca il suo futuro

Trattata come la grande sconfitta dell’epoca bipolare, oggi più che mai lontana da quell’Europa al cui modello guardava con fiducia negli anni ’90, la Russia è stata costretta a gettarsi di malavoglia tra le entusiastiche braccia spalancate della Cina; ovvero colei che – rimasta seduta sugli spalti a seguire l’evolversi degli eventi da buona spettatrice interessata – è la vera vincitrice di tutta la faccenda dall’alto della supervantaggiosa commessa energetica da 38 miliardi di metri cubi di gas all’anno, portata a casa grazie alle sanzioni occidentali anti-Putin, che la rifornirà dei ricchissimi giacimenti del sottosuolo siberiano per i prossimi decenni. Una Cina per la quale l’ex Paese degli zar può costituire l’arma attraverso cui spodestare un giorno gli Stati Uniti dal trono di prima potenza mondiale. Isolata, accerchiata e con le ambizioni neoimperialiste rimandate a data da destinarsi, piange a dirotto la Russia che vede zoppicare fin dai suoi primi passi la propria creatura; quell’Unione Doganale Euroasiatica – della quale fanno parte anche Bielorussia e Kazakistan con l’Armenia e il Kirghizistan pronti a entrare – privata definitivamente di un’Ucraina che doveva costituire sul versante europeo l’architrave imprescindibile del suo ardimentoso progetto. Il tutto nonostante l’annessione della strategica Crimea, oggi come ieri perno fondamentale per garantire alla Russia una qualsiasi influenza politica, militare ed economica sui mari euroasiatici meridionali.
Grondano di sangue gli occhi smarriti dell’Ucraina che, suo malgrado, si ritrova oggi a vagare come un vagabondo senza meta, la giacchetta ridotta in brandelli tirata da una parte e dall’altra senza che nessuno abbia un’idea precisa sulla direzione da fargli prendere.
Sono invece lacrime di coccodrillo quelle versate dall’Unione Europea. Dopo che i suoi membri hanno dato conferma dell’atavica e disarmante incapacità di arrivare a una visione comune, essa si dimostra ancora una volta appiattita sugli obiettivi americani di politica estera rimanendo cieca nel non vedere come questi, spesso e volentieri, non coincidano con i propri interessi. Un’Europa che non riesce a svestirsi dei panni di un’adolescente immatura traumaticamente divisa tra vecchi e nuovi falchi – il Regno Unito e gli Stati scandinavi, la Polonia e i Paesi baltici – che godono per la vendetta consumata nei confronti dell’odiato nemico russo; e le colombe di vecchia data – Germania, Italia, Francia – che provano a gettare acqua sul fuoco cercando di non dare troppo nell’occhio mentre si leccano le ferite consumate sul campo delle sanzioni.
Sapere quale piega prenderanno gli eventi è imprevedibile almeno quanto le reciproche minacce dei contendenti coinvolti nella disputa. Se per quell’insalatiera etnica poco amalgamata qual è la Russia – nei confronti della quale qualcuno a Washington ha recentemente previsto un rapido risveglio di fermenti etno-nazionalisti in grado di metterne a repentaglio l’integrità territoriale – sembra essere in gioco la sicurezza nazionale, con la spada di Damocle di una perdurante crisi economica che pende sopra la sua testa, il rischio per l’insorgere di possibili focolai interni è un pericolo più che mai reale anche per la stessa Unione Europea. In Lettonia la stabilità politica del Paese può essere minata alla base dai quasi 700.000 russi, circa il 30% della popolazione totale, che da tempo si sentono discriminati e che costituiscono un vero e proprio grimaldello nelle mani di Mosca; in Grecia, alleato di vecchia data della Russia con la quale ha in comune alfabeto e religione, le casse del Cremlino potranno costituire in futuro un utile diversivo per smarcarsi dall’austerity europea; in Francia il Front National di Marine Le Pen, il partito simbolo dell’antieuropeismo, ha ricevuto un lauto finanziamento di 9 milioni di euro dalle banche russe.
Mentre sui cieli d’Ucraina si tessono le schermaglie geopolitiche che ridisegneranno i giochi di forza di vecchie e nuove potenze, per il sud-est del Paese sembrano aprirsi le porte dell’ennesimo conflitto congelato presente nel mondo ex sovietico dopo l’Abkhazia, l’Ossezia del Sud, il Nagorno Karaback. A oggi è più probabile che il Donbas segua il destino toccato alla Transnistria (la striscia di terra lunga e stretta situata tra l’Ucraina e il fiume Dnestr che dal 1991 si è staccata di fatto dalla Moldavia per dar vita a uno Stato ombra filorusso), trasformandosi in una scheggia impazzita dal futuro incerto, ricettacolo di criminali e facile preda di loschi traffici, arpionata con le cattive dalle unghie ferite di un orso russo in cerca di rivincite.

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A Sartana, la città dei greci

“A Iskra Palace”. “Dove sei diretto?”. “A Sartana”. “Per 100 hryvni ti ci porto io. Solo 5 dollari”. Il tassista che ho fatto chiamare dall’hotel si chiama Valery. Il suo taxi all’apparenza sembra a posto, ma mentre siamo incolonnati lungo la Lenina dietro le altre auto, una nuvola di fumo si alza improvvisamente dal vano motore. “Problema con l’acqua. Un minuto”. Con fare serafico l’uomo scende dall’auto, apre il cofano anteriore, si toglie i grossi occhiali appannati dalla ventata di vapore fuoriuscita dal mezzo, e strabuzzando gli occhi svita il tappo del radiatore. Una quarto d’ora dopo, giusto il tempo di lasciare raffreddare appena il motore, Valery ripristina l’acqua mancante con quella contenuta in una grossa boccetta di plastica custodita per qualsiasi evenienza sul sedile posteriore dell’auto.
Ripartiamo sotto l’atmosfera ovattata di una Mariupol’ ricoperta dal soffice manto di neve caduto nella notte. Dopo aver lasciato alla nostra destra un grosso kombinat fumante, ci ritroviamo in breve tempo fuori città tra campi solcati da una sequenza ininterrotta di tralicci dell’alta tensione. L’aria è tagliata obliquamente dai raggi del sole che rendono ancor più luminescente il candido bianco delle campagne, sopra le quali splende un scintillante cielo pitturato d’azzurro. Lo scenario, se non fosse per le domande pressanti del mio conducente, meriterebbe un’idilliaca e silenziosa contemplazione.
Sartana si trova a una manciata di chilometri a nord-est di Mariupol’. Qui, il 14 ottobre 2014, un missile scagliato dai separatisti si è abbattuto su una processione funebre facendo 7 vittime e ferendo 17 persone. La prova che stiamo attraversando una zona altamente sensibile l’abbiamo quando una poderosa barricata sorvegliata da militari ucraini sbarra la strada all’ingresso del piccolo villaggio. Superati i controlli raggiungiamo velocemente il centro, un semplice incrocio tra due strade ai lati delle quali si trova un piccolo mercato formato da una serie di modeste bancarelle allineate sui marciapiedi. Nelle vicinanze, oltre gli alberi spogli di un parco, si intravedono le cupole dorate di una bella chiesa e il piccolo zoo della cittadina circondato da alte reti di recinzione.
“Se decidi di andarci puoi prenderla qui la marshrutka. Io non proseguo oltre perché laggiù si spara”. Prima di farmi scaricare alla fermata degli autobus, avevo chiesto lumi a Valery circa la possibilità di proseguire verso est, oltre il fondovalle, fino al minuscolo insediamento di Talakivka, distante un paio di chilometri. La risposta eloquente dell’uomo è indicativa della reale situazione sul campo. La linea del cessate il fuoco è vicinissima. Sartana è l’ultimo avamposto ucraino, l’estremo baluardo difensivo prima delle trincee.
Nel villaggio, ospitato in una normale casa a due piani e riconoscibile solo grazie a una piccola targa affissa al cancello, ha sede il grazioso museo storico dedicato ai greci del Mar d’Azov. Sarebbe giorno di chiusura, ma le due signore che mi si presentano davanti all’ingresso sono ben contente di aprire le porte a un visitatore che viene da così lontano. La raccolta museale, inserita in un contesto nel quale sono stati riprodotti gli ambienti di vita quotidiana di un tempo attraverso i reperti originali radunati dalle famiglie della zona, è situata in una saletta al secondo piano. Sotto, al pianoterra, si trova la sezione d’epoca sovietica piena zeppa di vecchi manifesti di propaganda del regime e busti di Lenin. Nulla di che, mi fanno capire le due donne entrambe di origine greca, riferendosi a quest’ultima parte.
“Conoscete qualcuno in grado di parlarmi in inglese?”. Terminata la visita e di fronte a una tazza di tè caldo, devo ricorrere all’ausilio del dizionario di russo per farmi intendere. Una volta recepito il messaggio Tatiana Bogaditsa, la spigliata e intraprendente guida del museo, mi fa capire di seguirla. In pochi minuti raggiungiamo a piedi un grosso edificio rettangolare con le mura esterne verniciate di rosa e gli infissi bianchi alle finestre.
A prima vista la scuola numero 8 di Sartana è un piccolo gioiellino. “È stata costruita quindici anni fa grazie ai finanziamenti di due grosse aziende metallurgiche della zona, la Azovstal e la Ilich Metal Plants. Entrambe sono di proprietà di Rinat Akhmetov”. Ekaterina Chavka è la trentunenne insegnante di inglese della scuola. A parlare del re del Donbas le si dipinge sul bel viso rotondo un ampio sorriso accompagnato da due occhi marroni che, sotto la corta chioma rossa dei capelli, brillano di gratitudine. Visto da qui Akhmetov non è più un sospetto oligarca bensì un magnate, un gentiluomo filantropo e benefattore cui tutti devono essere grati per il bene che porta alla comunità di 300.000 persone alle quali dà di che sfamarsi. “È normale che sia così. Nei dintorni di Mariupol’ tutti hanno un familiare che lavora nelle sue industrie. Io per esempio ho mio marito”.
Il lungo atrio al piano terra è addobbato per il Natale. Sull’inferriata della porta d’ingresso sono stati gonfiati dei palloncini gialli con la scritta nera “pace per il Donbas”. Di fronte è stato allestito un semplice presepe con la capanna, il bue, la mangiatoia e la sola Maria ad accudire il bambino, come nella migliore tradizione del cristianesimo ortodosso. Alle pareti sono appiccicati un po’ ovunque i disegni e i lavoretti preparati dai bambini in occasione delle festività.
In pochi minuti, sparsa la voce dell’arrivo di uno straniero, si presentano la preside, una composta signorona bionda di stampo sovietico di nome Ludmila Korona, e Stepan Makhsma, il sindaco di Sartana dal pacifico volto bonario, decisamente più sciolto e sorridente. Il motivo di una così calda accoglienza è presto spiegato: “Nessun giornalista straniero è mai venuto a parlare con noi. Neanche in occasione della strage dello scorso autunno”, commenta amara la docente di inglese. Ekaterina mi conduce a visitare l’istituto nel quale lavora. La spaziosa palestra, dove alcune classi stanno svolgendo l’ora di educazione fisica, è composta da due luminosi campi da gioco affiancati. In una lunga sala in parquet con le pareti a specchi, nella quale si trovano alcune bambine agghindate in camicetta bianca e gonna rossa, sono in corso le prove del corpo di ballo della scuola. In un’altra aula due insegnanti stanno correggendo i compiti. Sulla parete in fondo dietro alla cattedra spunta in alto il ritratto del baffuto Taras Shevchenko, il poeta nazionale ucraino. Attaccato al muro laterale si trova un piccolo albero di Natale in cartone con alcune finestrelle rotonde ritagliate sopra. “È opera dei nostri bambini. Hanno scritto i regali segreti che vorrebbero ricevere. Noi però sappiamo che il loro desiderio più grande è quello di tornare a vivere in pace”.
Da una finestra del corridoio al secondo piano si vedono un grande campo di calcio e gli attrezzi di atletica per la ginnastica. Nell’atrio quadrato nei pressi, dove lunghe ghirlande colorate pendono dal soffitto, una maestra dal fare materno sta insegnando a scrivere a tre bambini che le siedono attorno e che sembrano avere occhi solo per lei. Sullo sfondo campeggia un grande murales colorato ispirato alla storia e ai miti dell’antica Grecia. A ben vedere solo l’aula di informatica è carente di attrezzature moderne. Per il resto la qualità delle strutture e la vivacità degli spazi farebbero invidia a qualsiasi istituto scolastico italiano.
“La mia scuola e quella di Staryi Krym sono le uniche due nella zona di Mariupol’ dove i giovani possono imparare la lingua dei nostri avi e venire a contatto con l’antica cultura greca”, spiega Ekaterina una volta seduti l’uno di fronte all’altra nell’aula professori. “La nostra comunità è un vero microcosmo multiculturale. Ci vivono attorno alle 11.000 persone, e coloro che hanno origine greca sono pressappoco il 70%. Il secondo gruppo più numeroso è quello dei russi, seguito dall’ucraino. Polacchi, ebrei, rom e tedeschi sono le altre principali minoranze. Abbiamo anche cinesi e coreani che ormai vivono qui da tempo”.
Il russo è la lingua veicolare maggiormente usata. Tuttavia i diversi idiomi parlati da questo popolo, le cui origini sono ancora oggi dibattute tra gli studiosi, sono uno di quei tesori immateriali da patrimonio dell’umanità. L’espressione “greci di Mariupol’” include due entità linguistiche ben distinte: la lingua rumeìka da una parte e quella urum dall’altra. greci-di-azovLa prima, la più diffusa tra le due, si divide a sua volta in cinque dialetti e proviene dalla famiglia indoeuropea; la seconda, ancor più rara e con quattro diversi dialetti, essendo apparentata al gruppo turco rientra nella famiglia delle lingue altaiche. Il fatto curioso è che a questa differenziazione linguistica ha fatto seguito in passato anche una netta divisione tra i due gruppi. Essi vivevano in villaggi separati e, fino agli inizi del ‘900, non ebbero rapporti diretti nonostante il tataro fosse la lingua che avevano in comune. Era la religione il collante che li avvicinava. L’appartenenza al credo ortodosso, nonostante non esistessero “matrimoni misti”, bastava per farli sentire tutti parte integrante della domus greca. “Oggi a scuola viene insegnato il greco moderno. Solo qualche anziano è in grado ancora di esprimersi nei vecchi dialetti”. La speranza è che qualche antropologo abbia studiato e catalogato questi antichi e nobili suoni prima che scompaiano definitivamente nella melassa della globalizzazione.
Anche i nomi dati ai villaggi rimandano alle amate origini. La donna racconta come secondo la leggenda Sartana sia stata chiamata così in nome di Sarpedonte il quale, stando alla mitologia greca, era figlio di Zeus e di Europa. Un’altra leggenda mista a realtà narra invece che i primi coloni greci giunti tra i campi immacolati della Crimea furono ammaliati dalla vista di un bellissimo puledro rosso – forse un esemplare di tarpan, un cavallo selvatico oggi estinto – e per questo decisero di battezzare il proprio villaggio Sartana, il cui significato sarebbe appunto “cavallo rosso”.
Quel che è certo è che i greci arrivati oltre duecento anni fa sulle coste del Mar d’Azov diedero ai nuovi insediamenti i medesimi nomi dei villaggi nei quali vivevano in Crimea. Nonostante il loro numero sia diminuito rispetto agli anni ‘80 del secolo scorso, a causa dei flussi migratori diretti verso il Paese del Monte Olimpo, è per certi versi unico e sorprendente il legame ancora vivo di questa gente con culture e tradizioni tramandate sapientemente di generazione in generazione. Buona parte delle usanze ucraine odierne, come quelle legate al complesso rituale matrimoniale, sono di derivazione greca. “A Mariupol’ abbiamo un’importante università, e prima che la Grecia entrasse in crisi organizzavamo ogni anno scambi culturali con Atene e Salonicco. Ora purtroppo si è messa di mezzo la guerra a dividerci”. L’insegnante ci tiene a ricordare come in occasione della strage dello scorso ottobre le autorità elleniche abbiano immediatamente espresso cordoglio e vicinanza ai lontani “cugini” d’oltremare scomparsi.

Da che parte stare per sopravvivere?

Quando il discorso cade sulla guerra in corso, l’insegnante manifesta tutta la sua preoccupazione per i due figli di 8 e 3 anni. “I combattimenti li respiriamo nell’aria. Siamo circondati in continuazione dal sibilare degli spari e degli ordigni. Si sentono ovunque, camminando in strada o stando seduti sui divani delle proprie case”, dice la donna con un’apparente tranquillità d’animo e con un sorriso tirato che le spunta tra le labbra chiuse dalla rassegnazione. “Ormai siamo abituati a conviverci. L’ultima volta, pochi giorni fa, una violenta esplosione ha fatto tremare tutti i vetri della mia abitazione”. Ekaterina sa bene da che parte stare. “All’inizio della guerra avevamo tutti paura perché di punto in bianco Sartana è stata invasa da uomini armati, blindati e camionette militari. La gente aveva paura dei soldati ucraini. Poi molti hanno capito che non c’era nulla da temere e che quelli uomini erano qui per proteggerci. E hanno iniziato a portar loro cibo e vestiti. A quel punto però molti erano già fuggiti”. Fuggiti dalla guerra? “No, sono scappati dall’esercito ucraino ancora prima che iniziassero gli scontri. Attraverso la televisione la propaganda russa ha cercato di farci credere che presto le nostre case sarebbero state invase dai fascisti di Kyiv. Molti ci sono cascati e hanno chiuso anzitempo le proprie abitazioni rifugiandosi a Taganrog e a Rostov sul Don, appena al di là del confine. E dove oggi fanno fatica a tirare avanti perché la Russia non sta dando loro alcun contributo economico”.
Il trattamento riservato dal governo ucraino ai profughi sarebbe, invece, ben diverso. “800 hryvni al mese per ogni bambino rifugiato, 400 per gli adulti”, commenta orgogliosa la donna. “Non è molto, ma almeno il nostro governo dà qualcosa ai rifugiati di Donets’k e Luhans’k”. Rispettivamente attorno ai 40 e ai 20 euro, certamente non abbastanza per sopravvivere. La minoranza greca sta pagando un caro tributo al conflitto in corso. Secondo la Federazione delle Associazioni Greche d’Ucraina, sarebbero migliaia i greci che nei dintorni di Mariupol’ hanno perso le proprie case e che da mesi non ricevono le pensioni. A Sartana sono una ventina le persone rifugiate dietro le linee ucraine. Gente scappata dai villaggi vicini situati a ridosso del fronte e ospitata nelle case vuote di chi è emigrato all’estero.
Ma Sartana è filoucraina o filorussa? Abbandonare il guado delle ambigue sfumature per salpare verso un fiume di omogenee certezze si rivela ancora una volta una pia illusione. “È impossibile dare una risposta certa. Prendi il mio caso: io sono dalla parte dell’Ucraina mentre mio marito e i miei genitori sono filorussi. I miei suoceri invece, forse perché hanno vissuto in Russia, sono filoucraini come me. E in tutte le famiglie la situazione è identica”.
Un quadro davvero inestricabile dove a finire invischiati nelle sabbie mobili della guerra sono soprattutto gli incolpevoli bambini. Ai traumi conseguenti al continuo frastuono delle bombe si aggiungono i tanti casi di famiglie miste russo-ucraine i cui genitori si sono separati. “Non è il nostro caso”, conclude Ekaterina manifestando finalmente un minimo di sollievo. “In famiglia capita di discutere della questione, talvolta anche in maniera animata. Ma il mio matrimonio non è certamente in discussione”.
È l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze. Vengo invitato ad assistere allo spettacolo natalizio del primo pomeriggio in cui si esibisce una compagnia di artisti dilettanti di Mariupol’. Il grande teatro a gradinata annesso allo stabile è un’altra perla regalata da Rinat Akhmetov al “suo” popolo. Le poltrone si riempiono via via di insegnanti, nonni e genitori accorsi alla festa insieme ai propri figli e nipoti. La preside, in piedi a metà della pedana d’ingresso, invita con fare autorevole gli studenti a prendere velocemente posto controllando che tutto vada nel modo giusto. Ci sediamo nella penultima fila in fondo. L’ultima a riempirsi è la prima, riservata a una decina di militari ucraini in divisa che alla spicciolata si siedono ai loro posti. La sala è presto gremita e molti sono costretti a rimanere in piedi lungo il corridoio. La troupe di una televisione locale è pronta per le riprese. A un tratto la musica si spegne, le luci si affievoliscono e dietro il sipario compare la presentatrice dell’evento che, nel prendere la parola, invita sul palco il sindaco di Sartana e una signora mora vestita di scuro. “Si tratta di una volontaria di Mariupol’ che sostiene la causa ucraina”, sussurra Ekaterina seduta alla mia sinistra. La donna al microfono chiede ai presenti in sala di accogliere con un applauso i soldati i quali, al levarsi dei primi battimani, si alzano in piedi e voltandosi verso il pubblico accennano un inchino. Tocca poi al sindaco pronunciare il suo discorso d’apertura: “Cari militari che ci proteggete, grazie per tutto ciò che fate per noi. Vi voglio ringraziare per l’anno passato e per quello appena iniziato. Avete lasciato a casa le vostre famiglie per stare con noi e con il nostro Paese. Vi auguro di tornare il più presto possibile dai vostri cari, dai vostri figli e che non ci siano mai bombardamenti sulle nostre e sulle vostre case”. Dalla platea scrosciano di nuovo gli applausi.
Al termine dello spettacolo – un mix di musiche tradizionali e moderne alternate a sketch comici – è un grande scambiarsi di calorosi auguri e di flash fotografici rivolti ai bambini raggruppati vicino all’uscita. A vederli tutti insieme in posa davanti al presepe, sembrano la coraggiosa prima linea di un esercito senza voce e con la sola forza del sorriso, sfoderato nella gioia di un giorno diverso dagli altri, come unica arma per sperare in un futuro sereno.

La scelta di Ekaterina

“In che direzione è il cimitero? So che nelle vicinanze è caduto un missile tre mesi fa…”. Il giovane senegalese in piedi sotto la pensilina della fermata dell’autobus mi risponde in francese. “Sempre dritto, te lo trovi sulla destra. L’esplosione è avvenuta poco prima”. L’ultimo sole sta facendo calare il gelo sulla cittadina assediata. Cammino per venti minuti nella direzione indicata dal ragazzo senza vedere nulla. Lungo la strada è un continuo andirivieni di mezzi corazzati. Tra gli altri vedo passare anche quello dei militari presenti al teatro. Un’ambulanza dell’esercito sfila via spedita e a sirene spente verso il centro.
Una signora impellicciata e con un vistoso colbacco scuro portato sulla testa mi precede a qualche metro di distanza. La raggiungo e le chiedo ulteriori indicazioni. Tatiana, questo il suo nome, si offre di accompagnarmi. “Non è rimasto alcun segno, l’asfalto è stato coperto”, mi dice con il respiro reso affannoso dal freddo mentre stiamo camminando. Poi, puntando il dito oltre un’inferriata verniciata di verde, la donna racconta che in quella bella casa a tetti spioventi abitava una delle vittime. “Si chiamava Maria. Il corteo funebre era finito e la gente stava tornando nelle proprie case”. Le tapparelle sono alzate e dalle finestre non si vede alcuna luce accesa; all’interno non sembra esserci nessuno. Poco oltre uno pneumatico è adagiato in mezzo alla neve a lato della strada. È ciò che resta di quella coincidenza fatale. Maria era a una ventina di metri da casa, a uno sputo dalla sua salvezza. Prima di andarsene Tatiana si raccomanda più volte di non andare in fondo alla strada oltre al cimitero perché la zona è pattugliata dai militari ucraini. Sembra preoccupata, forse fa parte di quelle persone che temono quei soldati. Ritorno sui miei passi. Un uomo è appoggiato con le braccia sul cancello d’ingresso della casa di Maria. Ha lo sguardo stranito e perso nel nulla. Vado oltre. Percorsi pochi metri sento in lontananza due botti secchi simili allo scoppio di petardi. Una signora sta tornando a casa. Gira a sinistra lungo una via di case identiche a quella di Maria tirandosi dietro una slitta su cui è seduto un bambino. Sembra non aver fatto troppo caso a quei rumori sinistri. Pochi minuti e capita di nuovo. Non un suono sordo questa volta, ma un crepitio acuto che irrompe in un tramonto di fuoco colorato di rosso. Raffiche di mitragliatrici. Taglienti come una lama nel burro. Mi immagino la scia spezzare le nuvole sfilacciate del cielo ma non la provenienza. Ancor meno la direzione. Forse durante il cosiddetto cessate il fuoco è comunemente accettato che i due eserciti contrapposti giochino sulle rispettive emozioni per tastare la resistenza psicologica del nemico. Passato qualche minuto non si ode nessuna replica. Tutto tace. Un silenzio surreale è caduto di colpo sulla via deserta che porta al fronte.

17 marzo 2015, ore 12.56: dalla mia casella di posta elettronica.

Ciao Valerio! Scusa per il mio lungo silenzio ma la mia vita ha subito molti cambiamenti. Un mese fa abbiamo lasciato l’Ucraina a causa della guerra ed ora ci troviamo in Russia. È stato davvero difficile abbandonare la nostra terra natia e i nostri parenti, ma io e i miei bambini eravamo stanchi e spaventati di vivere sotto le bombe. Mio marito ha parenti a Zheleznogorsk e ora siamo qui. Ho trovato lavoro come insegnante di inglese, mia figlia frequenta già una nuova scuola mentre mio marito è a casa con il figlio più piccolo. Al momento abbiamo grosse difficoltà con l’asilo. Non sono in grado di dire se sono felice di vivere in Russia. L’importante però è che il mio bambino riesca a dormire tranquillamente la notte. E questo è il motivo principale per cui ho lasciato l’Ucraina.

Kate

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