Con quei pantaloncini corti, il cappello ben calcato in testa, tenuto per mano – quasi amichevolmente – da due guerriglieri, Phillip Mark Mehrtens ha l’aria di un ragazzino intimidito che si sta chiedendo: “Ma cosa ci faccio qui?”. Finito, si presume inconsapevolmente, in una di quelle guerriglie a bassa intensità che travagliano, in genere senza far più notizia, aree del pianeta solitamente fuori dai riflettori.
Per il momento il pilota neozelandese della compagnia aerea Susi Air rimane ostaggio del West Papua National Liberation Army (tpnpb, considerato il braccio armato del movimento indipendentista Free Papua Movement, fpm). Era stato catturato l’8 febbraio con il suo aereo atterrato a Paro, nel distretto di Nduga, per prelevare una quindicina di addetti alla costruzione di un centro sanitario; o almeno ufficialmente, ma per gli indipendentisti si tratterebbe di una “intrusione coloniale sotto copertura umanitaria” per controllare il territorio. Altri componenti dell’equipaggio (o passeggeri, non è chiaro) erano stati immediatamente liberati in quanto “nativi”, mentre il velivolo veniva dato alle fiamme.
Il gruppo di indigeni papuasi responsabili dell’azione sarebbero guidati da un giovane militante, Egianus Kogoya (stando alle dichiarazioni del portavoce del tpnpb Sebby Sambom).
Da parte delle forze dell’ordine di Jayapura, capoluogo della provincia ribelle, in una conferenza stampa è stata espressa la volontà di giungere alla liberazione di Phillip Mark Mehrtens “coinvolgendo nelle trattative i leader comunitari, in particolare i capi tribali e alcuni religiosi”. Senza per questo “escludere altre opzioni” (ossia, si presume, un atto di forza).
Mentre la parte orientale della Nuova Guinea è occupata dalla Papua Nuova Guinea (indipendente), il centro e la parte occidentale (rispettivamente provincia di Papua e della Papua occidentale) appartengono all’Indonesia, grazie a un discusso – sia per legittimità che per correttezza – referendum risalente agli anni sessanta.
Va ricordato che anche le proteste pacifiche dei nativi vengono regolarmente represse da Jakarta. Non per niente, quando nel novembre dell’anno scorso Amnesty International rivolgeva un appello ai capi di Stato del G20 riuniti a Bali per il rispetto dei diritti umani in Indonesia, aveva esplicitamente fatto riferimento alla Papua.
Quasi contemporaneamente, sempre nel novembre 2022, a Jayapura (Papua) venivano arrestati una ventina di manifestanti che chiedevano un intervento del Consiglio dei diritti umani dell’onu. E alcuni studenti solo per aver sventolato la bandiera indipendentista del fpm.
Con le loro proteste gli indigeni intendevano mettere in discussione le rassicuranti dichiarazioni del ministro indonesiano della Giustizia, Yasonna Laoly. Dichiarazioni definite da Amnesty “contrarie alla situazione reale, segnalata anche dalla società civile indonesiana attraverso un rapporto alternativo”. Aggiungendo che “il governo ha riferito solo la situazione dal punto di vista dello sviluppo delle infrastrutture e del welfare, anche se la violenza continua”.
Sempre nel 2022, in marzo, anche l’onu aveva condannato gli abusi commessi dal governo contro la popolazione indigena (comprese esecuzioni extragiudiziali, casi di desaparecidos, anche di ragazzi minorenni).
L’ultima operazione eclatante, da parte sia indipendentista sia governativa, risale al 17 novembre 2017 quando le forze speciali indonesiano liberarono oltre 300 ostaggi in mano agli indipendentisti del Free Papua Movement nel villaggio di Tembagapura. Due le vittime, appartenenti al gruppo guerrigliero.