Qualcosa del genere l’aveva già detto la Mussolini parlando della Libia. Magari potevamo aspettarcelo da Berlato o dalla Donazzan. Ma Zaia?!? Quello simpatico, piacione, garbato, dialogante? Ebbene sì!
Delle due l’una. O di storia non ci capisce una beata mazza, oppure “annusa” il vento che tira. Orrenda gaffe o lapsus rivelatore? Revisionismo in salsa veneta, questa ci mancava.
Anche se poi hanno cercato di cancellarlo, il post – opportunamente salvato – rimane a futura memoria. Secondo il governatore leghista, il contingente militare inviato da Mussolini a combattere insieme ai nazisti contro l’Unione Sovietica vide “sacrificare vite per ideali di libertà e democrazia”.
Credo proprio che i miei tre zii – coscritti, non certo volontari – che vennero spediti sul fronte orientale, oltretutto malamente equipaggiati, ne avrebbero fatto volentieri a meno. Uno soltanto si salvò, ma rimase gravemente segnato dalla disastrosa ritirata. Due non tornarono più. Uno di loro, Danilo Sartori, ancora nel 1940 era stato arruolato e spedito (obtorto collo, beninteso) all’attacco della Francia, già messa in ginocchio dai nazisti. Da lì scriveva a mia nonna (conservo le lettere) raccontando del freddo, dei congelamenti (calzature e abiti inadeguati alle alte quote delle Alpi occidentali) e anche dei “fischi delle marmotte” che lui non aveva mai sentito prima. Poi di colpo, dopo una pausa di silenzio, altre lettere ricominciarono ad arrivare, ma dalla Grecia, la nuova “avventura” del Duce. Dopo la guerra mia nonna seppe che i treni erano passati anche per Vicenza (da Torino diretti verso Trieste) e per tutta la vita raccontava con rimpianto che “se lo avessi saputo sarei corsa in stazione per rivederlo almeno un’altra volta”. In realtà… ma a mia nonna questo non l’avevo mai detto… pare che i vagoni venissero chiusi ermeticamente con grossi lucchetti per impedire fughe e diserzioni.
Compresa l’antifona, mio padre, fratello minore di Danilo, prima si rese irreperibile, poi andò a integrarsi nella brigata partigiana Silva.
Si calcola che dei duecentomila inviati in Russia dal regime fascista (prima con il Csir, poi con l’Armir) ne siano tornati poco più di diecimila. Circa centomila quelli caduti in battaglia, morti congelati o comunque dispersi, in gran parte durante la disastrosa ritirata. Non si conosce invece il destino di altri settantacinquemila, né esistono cifre precise di quanti siano stati catturati e fatti prigionieri. Particolare non secondario, furono soprattutto i giovani veneti, tradizionalmente arruolati negli alpini, quelli maggiormente decimati dalle velleità imperialistiche del Duce.
Numerosi sopravvissuti alla Russia entreranno poi nella Resistenza e solo alcuni sciagurati aderirono alla Repubblica di Salò. Come Giulio Bedeschi, autore di Centomila gavette di ghiaccio, Nikolajewka: c’ero anch’io, eccetera, già federale di Forlì e poi comandante della XXV Brigata Nera “Arturo Capanni” responsabile di rastrellamenti, torture ed esecuzioni sommarie nell’Alto Vicentino.
Ora Zaia ci viene a insegnare che gli alpini in Russia sarebbero morti per la democrazia e la libertà.
E lo fa citando non il Bedeschi – a lui sicuramente più congeniale – ma addirittura il “nostro” Mario Rigoni Stern che dalla Russia ritornò disgustato, divenne antifascista (a lungo prigioniero per essersi rifiutato di aderire a Salò) e pacifista fino alla fine dei suoi giorni (vedi qui un’intervista che ebbi l’onore di realizzare). Tra l’altro Mario solidarizzò pubblicamente con le lotte del presidio “No Dal Molin” contro l’ennesima base statunitense a Vicenza. Quella base alla cui inaugurazione, forse unico tra i politici veneti di qualche spessore, Zaia partecipò entusiasticamente. Per la serie paroni a casa nostra, ma soltanto se gli USA ce lo consentono.