Tra i molteplici conflitti che hanno in qualche maniera coinvolto le organizzazioni curde in quest’ultimo decennio, quello del 2015 nell’Anatolia orientale (Bakur, il Kurdistan sottoposto all’occupazione turca) tra esercito turco e PKK è stato probabilmente il più privo di copertura mediatica (se si escludono i siti curdi militanti). Il conflitto tra Ankara e il movimento di liberazione curdo è notoriamente di vecchia data, rinnovato e inasprito periodicamente, se pur interrotto da qualche tentativo di “soluzione politica” (l’ultimo risalente al 2014).
Il conflitto del 2015, si diceva, resta oscurato soprattutto in confronto a quello passato alla storia come la “battaglia di Kobane” (settembre 2014 – gennaio 2015) che vide fronteggiarsi in armi lo Stato Islamico e le milizie YPG (Unità di difesa del popolo), braccio armato del PYD (Partito di unione democratica) ritenuto un’emanazione del PKK.
E oscurato anche rispetto alla battaglia di Mosul (ottobre 2016 – luglio 2017) tra il solito Stato Islamico da un lato, e l’esercito e le milizie irachene dall’altro.
Invece quanto avvenne in Bakur tra il luglio 2015 e la primavera del 2016 (e che a conti fatti rappresentò, se non una completa disfatta, perlomeno una sconfitta per il PKK), non solo all’epoca venne trascurato, ma rimane ancora sostanzialmente nel dimenticatoio. Un “buco nero” della memoria storica.
Una delle ragioni potrebbe essere il mancato coinvolgimento di forze straniere (presenti invece nei due conflitti sopraccitati, si trattasse di USA, Russia, Iran, monarchie del Golfo o altri) per cui venne declassato a mera “questione interna”.
Agli inizi del 2015 il processo di pace avviato nel 2012 appariva sostanzialmente bloccato e la tregua, dichiarata nel 2013, reggeva a stento. A far precipitare la situazione arrivò la decisione della Turchia di inasprire la detenzione di Ocalan (con cui fino al giorno prima il governo turco stava trattando di persona). Una decisione inaspettata, dovuta forse ai timori di Ankara per l’ulteriore radicamento di PYD e YPG nel Rojava. O – sempre forse – un modo per rinforzare l’alleanza politico-elettorale tra il partito di Erdogan e le forze nazionaliste turche, ostili a ogni sorta di patteggiamento con i curdi in generale e con il PKK in particolare. Nell’aspro scambio reciproco di accuse, Erdogan rilanciò la definizione di “organizzazione terroristica” contro il PKK, mentre il Partito dei lavoratori curdi evocava una plausibile “strategia della tensione” messa in campo da Ankara.
Almeno due eventi funzionarono da innesco irreversibile.
L’attentato rivendicato dallo Stato Islamico del 20 luglio 2015 a Suruç (32 vittime tra i militanti della Federazione delle associazioni dei giovani socialisti, che erano giunti nella città alla frontiera con la Siria per contribuire alla ricostruzione di Kobane) venne interpretato dal PKK come una prova della collusione tra Turchia e integralisti islamici.
E poi la rappresaglia del 22 luglio 2015, quando vennero uccisi due poliziotti turchi.
Si arriva così alla sospensione del cessate-il-fuoco tra esercito turco (che comunque non aveva mai smesso di bombardare gli insediamenti del PKK nel nord dell’Iraq) e la guerriglia curda.
A questo punto la situazione precipita: forse per una scelta precisa del PKK che si illudeva di costringere così la Turchia a ritornare al tavolo dei negoziati, nel Kurdistan “turco” (Bakur) scoppia l’insurrezione. Gli scontri provocano la distruzione di interi quartieri a Cizre, Idil, Diyarbakir, Silopi, e la morte di decine di civili coinvolti, loro malgrado, nel conflitto. Con il solito corollario di arresti di massa, esecuzioni extragiudiziali, torture…
Forse il PKK aveva sopravvalutato il credito, innegabile, conquistato dai curdi (e dalle YPG in particolare) a livello internazionale con la battaglia di Kobane e l’intervento a difesa della minoranza yazidi (abbandonata in mano ai tagliagole dell’ISIS dai peshmerga del PDK).
In realtà le nazioni occidentali si guardarono bene anche soltanto dal rimproverare Ankara per il devastante intervento. Quanto alla stremata popolazione curda del Bakur, non si lasciò coinvolgere più di tanto (se non in quanto vittima) nel conflitto rimasto appannaggio dei combattenti del PKK e del TAK (Falchi per la libertà del Kurdistan). Questi ultimi non esitarono a compiere attentati contro caserme e anche all’aeroporto di Istanbul (azioni talvolta condannate almeno ufficialmente dal PKK in quanto colpivano pure i civili).
L’insurrezione nelle città del Bakur si concluse nel 2016 quando i guerriglieri si rifugiarono tra i monti Qandil (Nord dell’Iraq, in Bashur, il Kurdistan entro i confini iracheni).
Si mantennero invece fino ai nostri giorni – consolidandosi ed esasperandosi ulteriormente – la presenza militare e la repressione turche. A farne le spese, oltre alla popolazione civile, il Partito democratico dei popoli (HDP).
Il passo successivo di Ankara (per completare l’opera, se non di sradicamento totale, perlomeno di contenimento dell’influenza del PKK) è stato quello di intervenire militarmente nel Nord-Est della Siria.
Da dove non sembra intenzionata a sloggiare, almeno per ora.