Un epitaffio, e alcune foglie
(poemetto abbozzato per un luogo indefinito)
Ricordo una montagna così remota: verde, scura,
e la sua forma estetica vagamente sterminata:
un’eterna strada piena di polvere,
una medaglia a terra che di gloria rutilava
e una strofa di poesia trionfale che nel vuoto
si origliava, ma osservandosi
e lì a due passi un muretto di cemento
con le sue prigioni strette e scalcinate.
Una canzone suonava l’inno della tovaglia:
l’aria di terrestrità, le donne incinte e
ettari di campagna…, e quei ricordi della sera
seminudi, come liquidi pensieri e semiaperti
sulle strade marroni coi telegrammi
pieni d’immagini e di orizzonti
e vicende selvagge di alcune vite
picaresche nei sobborghi irreali e tetri
dove vivono uomini nudi, spogliati dentro,
uccisi e sfioriti, o vite falciate
dal degrado, come polvere di una segatura
che trasmigra.
Quando cammini e ascolti intorno il silenzio
pesante della solitudine, gli alberi
che tra la nebbia odono i celeri pensieri
della rondine e del piccione: le melodie
svelte, scaltre delle anime flessuose,
le orme brune nelle pozze offese dalla pioggia
e dagli arcani dei nomadi che nei loro occhi
chinati a terra tralasciano i sedimenti
dei lori sogni a chiazze in un terreno rotolante!
Una canzone che suonava un’antichissima nota
d’argento e un’antica chitarra
adagiata in una tenda senza riflettori
e un orecchio attento ad ascoltar le note
languide e mediterranee, partorite
da un mendicante esperto del respiro,
e un barcaiolo di una lenta piroga
come dentro a una finestra di mare
o manto secolare che di un’affamata Luna si colora,
coi raggi posati sul pescatore inghirlandato
che ha vagato dietro ed oltre le colline
e conosciuto fiumi gonfi di acquazzoni
e rami strappati, trasportati
da un’antica armonia invisibile
in una contemplazione taciturna.
Poi,
la diaspora di alcuni uomini nati
in quei luoghi dove il crepuscolo
indossa la bautta della discriminazione,
e una freccia acuminata che si scaglia
con forza in un abbandonato Dedalo,
lande desolate in orbita
nell’ammucchiamento esteso in un volto
di “uomini” e “mariti”,
scalzati da una eco in collera
e da una lunga onda in ribollimento
tra le selve austere, e i boschi fitti
dove l’ignoto ha costruito
il suo limpido alveare di sfacelo.
Quando tiri avanti verso un infinito finito,
con il liuto tantrico
e il cordofono vibrante.
Quando vedi gli occhi della gente
dietro alle inferriate che fissano
il vuoto dove un peregrinare
si muove in sintonia con la carovana di van Gogh.
Poi,
lassù, c’è un altolocato cielo
che sfugge al suo stesso fluire in onde,
e quando il giorno lentamente muore,
sul muricciolo si smorzano
i silenzi e le angosce di un vissuto
sorto troppo presto, e troppo presto
sorpassato da soffi di ricordi
consumati in un antro
intrecciato con le ubbie.
Lontano si vedono molti riverberi in fila:
in marcia, vi sono le speranze piallate e levigate
in un faticoso esistere denso e crepuscolare,
e spontanee idee contraffatte
per sgomento e per odio, che fuggono
sotto un cielo di nubi e di dolori perduranti.
Il vento che incalza forte la sua ira
lungo una scia di quiete cantilene,
e un “pastore protestante ungherese”
intreccia maliardi suoni come fossero
gomitoli di storia e di paesaggi lunari.
Poi,
il vento ch’è avido
coi suoi figli privi di vestiti fascianti
e ciondoli vergini al collo
come sull’inesauribile piovigginano storie
di uomini adulti figli di cisterne profonde
e di infauste partenze.
Ricordo un uomo figlio delle Antille:
il suo pianto al nascere dell’alba,
la sua morte prematura
durante il vocalizzo di un coro di leggenda
come spartito disperato e celato
da musiche spente e sconfinate, per via
di naufraghi e viaggiatori leggendari
celebrati da Ferdowsi,
coi loro semi di grano nello stomaco
a girovagar policromatica vita
con le uniformi sgominate
e di un’epoca sconfitta.
Sulle ginocchia, i tanti patimenti, putredini
di reumatismi tragediografi,
per un pugno
di fumo e agli occhi la stanchezza sfibrante
nata nei Balcani, soffiata in coro
dallo Schiavo Grecale
che nella sua discesa,
falcia anime come capi di bestiame.
Poi,
la diaspora di alcune etnie affogate e corrose
nel loro destino segnato
con lo spago dell’inquisizione.
Uomini che redigono suppliche
lungo una mulattiera che li condurrà
dalla Persia all’Armenia
attraversando frontiere impervie
o ringhiere arrugginite a causa
di un sole infausto e cocente.
Uomini veri,
che mescolati alla penuria del mondo
e dentro una vita scemata per violenza,
tra il soffio e il sospiro di ansimanti
praterie, fattorie, luoghi operosi
dove gli animali hanno intorno
il bollore di una cheta gradazione,
masticano nostalgie infrenabili
che dentro alle decrepite baracche
scuotono ardimenti
le giovani anime dei musicisti bronzei.
Lontano: lontano ho udito un treno di ferro
che nel sonno ha eretto il suo viaggio
verso un caliginoso anfratto
in una notte infernale sommersa
dalle sue stesse merci, le sue sottane…
libri dotti e sacerdotali,
e i pennacchi di fumo che come alti caseggiati
fluidi e liquidi imburrati,
danzano tuttora in un cerchio di gesso
descrivendo col viso della morte,
lo Zigeunerlager dove scorazzano topi unti
sopra i corpi dei neonati.
Ora,
tutte le vie piangono funereo un silenzio
e i gridi avvolti
nelle sciarpe intrise in un torbido pantano,
il vento che spazza le scialbe foglie
disperdendole come fa una scopa matrona
nei cortili dove l’ombra è semioscura
e a terra, giace un lenzuolo avvolto
con sminuzzi inumati di vetri e pochi stracci
imbacuccati per il freddo,
giace pure una pietra plumbea,
con scritto: “Addio Mauthausen”.
Una canzone al sapor delle giogaie,
un ritornello universale, una scorciatoia
che ha imparato la sua strofa
dentro un solco di memoria.
Le sue note macchiate e tinte di sequele
come lamenti mugghiano
le tante sofferte miserie
dove il tamburello di Heruka
scandisce ciclico il tempo di divinità irate,
e mestizie che piangono lagrime sui campi
seminati per il granoturco,
che come temporali improvvisi si abbattono
sulle nuche coperte dai fazzoletti bianchi
colmi di pensieri neri come nervi
segreti di una notte abusata,
prima che scomparisse in una sordida valle,
l’eco di un singhiozzo,
tra il soffio e il sospiro!