Almeno venti operai di alcune aziende tessili (settore del pret-à-porter, comprese le T-shirts) sono rimasti feriti il 13 gennaio negli scontri con la polizia – armata di cannoni ad acqua, proiettili di caucciù e gas lacrimogeni – nella regione di Narsinghapur in Bangladesh.
Iniziate il 6 gennaio, le proteste (a Savar, Ashulia, Gazipur, Mirpur, e nei giorni precedenti anche a Uttara, Dhaka, Hemayatpur, Kathgora, Tongi, Dakkhinkhan, Abdullahpur) duravano ormai da una settimana. Tra manifestazioni e scontri avevano coinvolto diverse migliaia di lavoratori che richiedevano miglioramenti salariali. Molto consistente, circa 50mila, la partecipazione delle donne lavoratrici.
L’8 gennaio 2019 era rimasto ucciso dagli spari della polizia l’operaio Sumon Miah di 22 anni, dipendente della Anlima Yarn Dying Ldt, azienda dell’area industriale di Savar.
Savar, sobborgo industriale della capitale, era già tristemente noto per il catastrofico crollo del Rana Plaza dell’aprile 2013 (oltre mille le vittime, almeno doppio il numero dei feriti estratti dalle macerie). L’edificio di otto piani – di cui quattro costruiti abusivamente – conteneva alcune fabbriche che impiegavano circa 5mila persone. Qui si producevano capi di abbigliamento per Adler Modemarke, Auchan, Ascena Retail, Walmart, Benetton, Bonmarché, Camaieu, C&A, Cato Fashions, Inditex, Joe Fresh, Kik, Cropp, El Corte Inglés, Grabalok, Gueldenpfenning, Matalan, NKD, Premier Clothing, Primark, Sons and Daughters (Kids for Fashion) Loblaws, Mango, Manifattura Corona, Mascot, eccetera.
Ai piani inferiori del Rana Plaza, una banca, appartamenti e negozi. Quando apparvero le prime crepe i piani inferiori vennero chiusi ed evacuati mentre ai lavoratori venne ordinato di tornare anche il giorno dopo. In mattinata l’edificio crollò seppellendoli sotto le macerie.
Nel settembre dell’anno scorso c’era stata la decisione di aumentare il salario minimo (congelato dal 2013) passando da 53 a 80 euro mensili a partire da gennaio. Venivano aumentati, ma in maniera lieve, anche gli altri sei livelli salariali. Non abbastanza – secondo i sindacati – rispetto all’aumento del costo della vita.
Dopo i duri scontri del 13 gennaio è dovuto intervenire direttamente il governo per concedere un ulteriore aumento salariale (variante da 20 centesimi a 8 euro mensili) per gli altri livelli. Ma, almeno per ora, senza ottenere la sospensione delle mobilitazioni.
Nonostante l’esportazione di capi d’abbigliamento rappresenti l’80% delle esportazioni totali del Bangladesh, i lavoratori del settore (quattro milioni in oltre 4500 aziende) sono tra i peggio pagati del mondo. Sfruttati per i profitti degli insaziabili grandi nomi occidentali come Zara, Carrefour, H&M, Aldi, Walmart… Stando a un rapporto del CGWR dell’anno scorso, la situazione appare in continuo peggioramento a causa delle insostenibili pressioni su costi e tempi di produzione e di consegna. Le aziende che non stanno al passo vengono scavalcate dalla concorrenza di Birmania e Vietnam e rischiano il fallimento con le immaginabili conseguenze per i lavoratori.
In questi giorni il vicepresidente della BGMEA (l’associazione dei fabbricanti ed esportatori di capi d’abbigliamento del Bangladesh) ha denunciato che almeno 35 fabbriche non sono più in condizione di produrre a causa del protrarsi dello sciopero. In alcuni casi magazzini e depositi sarebbero stati dati alle fiamme.
In aggiunta, il rappresentante della potente corporazione ha minacciato la serrata delle fabbriche se le contestazioni dovessero proseguire. Ma a quanto pare i lavoratori non si sono fatti intimidire e le dure proteste proseguono anche in questi giorni.