Non giudicatelo irriverente – il titolo, intendo – ma mi è venuto spontaneo. Certo, non siamo di fronte alle cifre dell’Olocausto, e nemmeno a quelle delle stragi di massa subite in varie epoche da armeni, palestinesi, zingari o indiani d’America. Ma direi che comunque nelle politiche dei vari governi turchi c’è del metodo. Magari lasciando il lavoro sporco ai fanatici di turno e distribuendo sapientemente nel tempo deportazioni e uccisioni.
Sivas, 1993
Il 2 luglio ricorre il 26° anniversario dell’incendio doloso all’hotel Madimak, nella città turca di Sivas, in cui 37 persone morirono bruciate vive. Tra di loro, 33 intellettuali alawiti.
I fatti. Dopo la preghiera del venerdì, circa 15mila islamisti si erano riuniti intorno all’hotel invocando la morte per gli “infedeli” alawiti (la minoranza alawita rappresenta la seconda grande comunità religiosa della Turchia) che all’interno celebravano una ricorrenza culturale, il Pir Sultan Abdal, in onore di un poeta del XVI secolo.
Tutto avvenne senza che la polizia provasse nemmeno a intervenire per placare la rabbia della folla. Questa riversava il suo odio in particolare sullo scrittore Aziz Nesin, notoriamente di sinistra e anche per questo detestato dagli estremisti islamici. Ma mentre il traduttore dei Versetti Satanici di Salman Rushdie riusciva a mettersi in salvo, ben 37 persone persero la vita nell’incendio appiccato dai più fanatici. Tra le vittime, intellettuali, artisti, musicisti (come Hasret Guktekin, curdo-alawita), due impiegati dell’albergo, alcuni adolescenti, un bambino di 12 anni…
Successivamente vi furono degli arresti e anche dei processi con relative condanne. Il 28 novembre 1997 una trentina di persone accusate di aver partecipato al massacro venivano condannate a morte. Pene poi non eseguite ma trasformate in ergastolo (nel 2002 la Turchia ha sospeso l’applicazione della pena di morte).
Da allora ogni anno migliaia di persone vengono a Sivas – tra imponenti misure di sicurezza – per rendere omaggio alle vittime del 1993.
In questi giorni la FEDA (Federazione democratica degli alawiti in Europa) ha emesso un comunicato in cui scrive che “il massacro di Madimak è una ferita che sanguina ancora”.
Riferendosi poi anche ad altri – e numerosi – eccidi compiuti dalla Turchia aveva aggiunto:
Questi crimini contro l’umanità continueranno a sanguinare nella coscienza degli alawiti. A meno che i responsabili non ne debbano render conto, gli alawiti non dovranno essere e non saranno mai in pace. Perché la popolazione alawita di Sivas e Maras è stata ridotta alla condizione di minoranza numerica.
Afrin, 2019
È invece ormai ordinaria amministrazione quanto sta avvenendo nel nord della Siria invaso dall’esercito turco e dalle milizie islamiste sue alleate. Stando alle ultime notizie, un gran numero di abitazioni nel distretto di Mabeta (Afrin) sono state perquisite sabato scorso. Circa 300 civili, tra cui numerosi bambini e donne, sono stati prelevati dopo aver subìto sia violenze fisiche sia insulti e umiliazioni. Al momento non ci sono aggiornamenti in merito alla località dove li tengono segregati (i loro telefoni cellulari sono stati tutti sequestrati).
Dati i precedenti, si teme che possano venir sottoposti a maltrattamenti, torture, stupri. O addirittura che vengano uccisi. Quasi sicuramente – e nella migliore delle ipotesi – verranno utilizzati per estorcere denaro ai loro familiari per ottenerne la liberazione.