È incredibile quanto le classi dirigenti dei Paesi occidentali siano incapaci di imparare dalle esperienze altrui. Cianciano senza sosta di importare modelli vincenti e “best practices” dagli altri Paesi, ma al primo vero test – l’epidemia di coronavirus – si mostrano quasi del tutto incapaci di sfruttare le conoscenze altrui. Vale per l’Italia, che per oltre un mese si è ben guardata dal fare tesoro di quel che potevano insegnare Paesi come la Cina e la Corea del Sud, che avevano avuto l’emergenza della Sars nel 2003 e quindi sono stati capaci di prendere sul serio il Covid-19, con il risultato di rallentare molto rapidamente l’epidemia. Ma vale anche per i Paesi europei, che avevano a due passi il dramma dell’Italia, e solo ora – dopo averci guardato con sufficienza – si apprestano, molto lentamente e goffamente, a varare misure simili alle nostre. Né meglio paiono comportarsi gli Stati Uniti, dove il problema è ancor oggi largamente sottovalutato.
Alle volte mi chiedo se i capi di governo e il ceto politico dei maggiori Paesi occidentali si rendano conto del senso di quello che dicono. Nelle ultime settimane mi è capitato di sentire dichiarazioni che prospettavano una diffusione dell’epidemia da coronavirus fino al 20% della popolazione (Regno Unito), al 50% della popolazione (Stati Uniti), al 70% della popolazione (Germania), e dimenticavano di aggiungere che cosa questo avrebbe potuto significare nei rispettivi Paesi: circa 400 mila morti nel Regno Unito, 5 milioni di morti negli Stati Uniti, 1 milione e 700 mila morti in Germania. Eppure dovrebbero sapere che l’ordine di grandezza della catastrofe, il fatto cioè che alla fine i morti siano decine di migliaia, o centinaia di migliaia, o addirittura milioni, dipende in modo cruciale da quanto tempestivamente e radicalmente si agisce.
Ma torniamo all’Italia. Il governo ha sicuramente sottovalutato il problema, lo ha affrontato tardi e disordinatamente, ma alla fine ha preso atto che doveva varare misure drastiche. Ora la domanda è: sono sufficienti? A mio parere no, e per una ragione fondamentale. Il numero di soggetti che è potenzialmente in grado di contagiarne altri è sconosciuto, ma il suo ordine di grandezza si può valutare. Lo abbiamo fatto come Fondazione David Hume, usando procedimenti statistici e modelli di simulazione, e il risultato è che, oggi 14 marzo 2020, le persone non diagnosticate come positive ma in grado di trasmettere il contagio sono almeno 100 mila, circa 7 volte i 15.000 soggetti positivi delle cifre ufficiali. È il caso di notare che questa stima è estremamente prudente: c’è anche chi, come la virologa Ilaria Capua (università della Florida) non esclude che i casi effettivi possano essere 10 volte quelli accertati (se non di più). Il fatto che le persone con licenza di infettare siano almeno 100 mila, e inevitabilmente siano in costante aumento (fra 15 giorni potrebbero essere comprese fra 500 mila e 1 milione) induce a considerare tre limiti delle misure attuali.
Limite 1. Forse il fermo delle attività produttive non è abbastanza esteso, certamente le misure a protezione di chi ancora lavora vanno rafforzate. Se le persone che continuano a lavorare in modalità tradizionale sono, poniamo, anche solo 15 milioni (su un totale di 23), si può stimare che fra esse vi siano almeno 25 mila soggetti contagiosi che non sanno di esserlo. Limite 2. È stato un gravissimo errore scoraggiare l’uso delle mascherine in quanto inutili a proteggere sé stessi: più numerosi sono i soggetti asintomatici ma contagiosi, più diventa essenziale l’obbligo di portare la mascherina. Meglio sarebbe stato cercare di dotare l’intera popolazione di questo dispositivo, incoraggiandone l’uso altruistico. È ora di correre ai ripari subito, incentivando i produttori a produrne ed esortando i cittadini a usarle. Questa linea di condotta è stata una delle chiavi di volta del successo della Corea del Sud nella lotta contro il coronavirus.
Limite 3. Ma l’errore più grave, che ancora oggi testardamente le nostre autorità si ostinano a perpetuare, è quello di non aver avviato una campagna di massa di tamponi, un errore aggravato dalla doppia scelta di restringere ulteriormente il ricorso ai tamponi (26 febbraio) e di conferire alle strutture pubbliche un vero e proprio monopolio. Oggi, in Italia, per ottenere un tampone bisogna avere sintomi gravi e forti indizi di essere stati contagiati. Una situazione che getta nell’angoscia e nella disperazione migliaia di persone sintomatiche ma ignorate dal Servizio Sanitario Nazionale perché non ancora abbastanza gravi, o non in grado di provare contatti con persone risultate positive.
Questa, a mio parere, è stata e rimane la scelta più grave. Di nuovo non siamo stati capaci di copiare le pratiche migliori. La Corea del Sud ha fatto oltre 200 mila tamponi, nel Regno Unito si possono fare tamponi addirittura dal finestrino dell’auto, come in un comune drive-in (si chiama: drive through facility), in molti Paesi il tampone si può fare privatamente. Si potrebbe fare anche in Italia, se i numerosi kit già disponibili (compresi i kit domestici) ricevessero il via libera delle autorità sanitarie, anziché essere ostacolati politicamente o amministrativamente. E sarebbe un grande sollievo per tutti, specie se – oltre alla liberalizzazione dei tamponi, che servono a capire se si è positivi ora – venissero incentivati gli esami del sangue, che potrebbero rivelare se si è stati positivi in passato, senza sviluppare i sintomi. E dire che a favore dei tamponi di massa (almeno nelle zone con un focolaio) si sono ripetutamente espressi numerosi esperti e istituzioni mediche, sia nella fase in cui la loro efficacia sarebbe stata massima, sia nella drammatica fase attuale. Agli accorati inviti degli studiosi indipendenti, i funzionari cui il governo ha affidato la gestione dell’epidemia hanno perlopiù opposto argomenti vuoti: “fare i tamponi solo alle persone con sintomi è una strategia fatta per massimizzare i vantaggi”; le “evidenze scientifiche” indicano l’utilità di riservare i tamponi “a soggetti sintomatici che hanno avuto contatti a rischio o che provengono da aree a rischio”.
E quale sarebbe la base logica di questa fortissima limitazione dei tamponi, incredibilmente incorporata nelle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità? Eccola qua: dalle indicazioni dell’Oms non si deve derogare “altrimenti si possono determinare effetti collaterali; per esempio, il fatto di aver all’inizio effettuato troppi tamponi ha generato una focalizzazione dell’attenzione mondiale sull’Italia, che ha finito per essere indicata come Paese di ‘untori’”. Sì, avete capito bene. Il turismo. Se a un certo punto (26 febbraio) è stato deciso di limitare ulteriormente i tamponi (che peraltro non erano affatto tanti: meno di 10 mila dall’inizio dell’epidemia, il regno Unito intende farne 10 mila al giorno) è perché nella “cabina di regia” di questa crisi si è ritenuto che scoprire più casi avrebbe sì aiutato a curali o isolarli, ma avrebbe anche danneggiato l’immagine dell’Italia all’estero. Non ho parole.
Luca Ricolfi, “Il Messaggero”.