Mentre l’esercito pakistano opera arresti di massa, sequestri e sparizioni forzate, a danno soprattutto dei beluci, la Turchia sarebbe in procinto di inviare mercenari jihadisti in Pakistan.
Il Pakistan: sebbene non se ne parli molto, un Paese governato da un regime sanguinario dove non è proprio il caso di andarsene in vacanza per settimane bianche d’alta quota e roba del genere (anche se i permessi pare costino meno che in Nepal). Un Paese dove dissidenti politici e minoranze etniche o religiose, anche quelle forzatamente minorizzate dai confini statali che le separano, subiscono quotidiane, arbitrarie violenze e persecuzioni. Dove per le donne e i minori (ricordate Iqbal Masih?) la vita è tutto fuorché gioiosa e ridente.
Il 60% dei beluci vive in Pakistan (nell’Iran il 25%, ma altre loro comunità le troviamo in Afghanistan e Turkmenistan) il quale si qualifica come il maggior persecutore di questo popolo costituito da circa quindici milioni di persone, in maggioranza sunniti con una significativa componente sciita. Una situazione che ricorda fatalmente quella dei loro cugini curdi.
Un dramma aggiuntivo che colpisce la comunità dei beluci in Pakistan, oltre alle ricorrenti esecuzioni extragiudiziali, è quello delle sparizioni forzate, delle persone sequestrate e poi – letteralmente – fatte scomparire senza spiegazioni. Nell’accorato appello di un familiare troviamo tutto questo senso di angoscia, di incertezza per la sorte dei suoi cari:
Noi siamo cittadini innocenti di questo Paese. Io credo che una persona è veramente perduta quando è innocente. Perché non ci sono prove contro tale persona. Non possono fornire prove in tribunale. Il Pakistan è uno Stato e ha una costituzione. Se una persona ha commesso un crimine, deve essere giudicata da un tribunale. I membri della famiglia sequestrati, rapiti sono innocenti e quindi non possono venir giudicati da un tribunale. La polizia non ammette nemmeno di averli arrestati.
Nella testimonianza raccolta dal giornalista curdo Baris Balsecer, una donna, Haseeba Qambrani di professione infermiera, ha raccontato il dramma vissuto dalla sua famiglia. Sia lo zio Salman Qambrani sia il cugino Gzein Qambrani erano stati rapiti nel 2015 dalle forze di sicurezza del Pakistan, e i loro corpi crivellati di colpi e con segni di tortura venivano ritrovati cadaveri in mezzo alla strada un anno dopo.
Successivamente, nel 2020, la stessa sorte era toccata al fratello Hassan Qambrani e a un altro cugino, Hizbullah Qambrani, senza che ancora oggi si sappia nulla della loro sorte. Nonostante la famiglia si sia rivolta a tutte le istituzioni statali possibili e in particolare ai rappresentanti politici.
Poco credibili – secondo la donna intervistata – le promesse di una prossima liberazione avute dal ministro degli Interni del Belucistan. Assicurazioni in merito a un loro interessamento sono venute anche dal leader dell’opposizione Maryam Nawaz Sharif e da altri dirigenti del Movimento Democratico Pachistano, ma senza conseguenze.
Haseeba ha quindi scritto lettere sia a Bilawal Bhutto, presidente del Comitato dei diritti dell’uomo dell’Assemblea Nazionale, sia a Mustafa Nawaz Khokhar, presidente del Comitato senatoriale dei diritti dell’uomo. Finora invano, in aperta violazione del diritto internazionale e dei diritti sanciti dalla costituzione pakistana.
Per questo, per avere finalmente delle risposte, ormai da mesi la donna con altri familiari organizza a Qetta dei sit-in di protesta esponendo le immagini sia dei suoi parenti sequestrati sia di altri desaparecidos.
Va ricordato che il fenomeno delle sparizioni forzate (regolarmente ignorato dai media pakistani, evidentemente sotto rigido controllo statale) si mantiene costante almeno dal 2000, mentre le rivendicazioni democratiche e i diritti dei beluci vengono sistematicamente ignorati. Si parla di migliaia di persone letteralmente scomparse (circa 20mila, per mano della polizia o dell’esercito), a cui vanno ad aggiungersi quelle arrestate o costrette ad andarsene. E sarebbero almeno tre o quattro, mediamente, i beluci (la maggior parte studenti dissidenti) che scompaiono quotidianamente.
E non solo nelle grandi città. Soprattutto negli ultimi dieci anni le sparizioni forzate si sono moltiplicate anche nei villaggi, come a Kili Qambrani (non lontano da Quetta, capitale del Belucistan). Oltre ai parenti di Haseeba Qambrani, già ricordati, altre dieci persone sono state prelevate dai militari, e di queste soltanto tre sono state poi rimesse in libertà.
Se per certi aspetti è umanamente – ma solo umanamente – comprensibile la “miopia” dei media pakistani che “non vedono e non sentono” quando si tratta di sparizioni forzate (si parla di minacce, intimidazioni nei confronti dei giornalisti e dei lavoratori della stampa), ben più grave è la posizione assunta dalla società civile pakistana che sulla tragedia vissuta dai beluci rimane sostanzialmente in silenzio, passiva.
Così come va condannata la sostanziale indifferenza della stampa internazionale, ugualmente cieca e muta (con qualche rara e nobile eccezione naturalmente) in merito al dramma vissuto da migliaia di persone per la sorte sconosciuta dei loro cari. E lo stesso si può dire delle istituzioni internazionali, ONU compresa. In realtà nel 2011 (meglio tardi che mai) le Nazioni Unite avevano inviato in Pakistan una commissione per preparare un rapporto sulle sparizioni. Ma gli inviati si sarebbero recati solamente a Islamabad e a Qetta (dove hanno interrogato alcuni familiari dei desaparecidos che manifestavano) senza raccogliere informazioni in altre zone del Belucistan, dove la repressione ha ugualmente colpito – e duramente – la popolazione.
Qualche ipotesi sulla (ri)nascita del Belochian Liberation Army
Com’era prevedibile, oltre alla maggioranza che protesta pacificamente rivendicando i diritti democratici e il rispetto dei diritti umani, tra i beluci è sorto anche qualche movimento di resistenza che agisce nella prospettiva dell’indipendentismo, anche armato. È il caso del Belochian Liberation Army (BLA), un movimento sostanzialmente laico, niente a che vedere con l’integralismo islamico, (ri)nato nel 2000 e che negli ultimi tempi sembrava indirizzato a colpire soprattutto obiettivi cinesi (ambasciate, impianti minerari, anche persone fisiche come nel caso di alcuni ingegneri).
Ma perché proprio i cinesi e perché ora?
Per capirci qualcosa bisogna risalire agli ottimi rapporti che intercorrono tra il Pakistan e la Cina, e soprattutto al CPEC (China-Pakistan Economic Corridor) dell’aprile 2015, un accordo bilaterale costituito da 51 memorandum d’intesa, un’emanazione del più ampio BRI (Belt&Road Iniziative, più noto come “Nuova Via della Seta”) che dovrebbe collegare commercialmente – in maniera strutturale, organica e profonda – la Cina con Europa, Asia e Africa.
Tra gli aspetti da considerare, i cospicui investimenti cinesi (50 miliardi di dollari) in Pakistan per realizzarvi le infrastrutture (ferrovie, autostrade, oleodotti) di un “corridoio economico geo-strategico” in grado di connettere rapidamente lo Xinjiang ( e pazienza per gli uighur…) con Gwadar, il porto del Belucistan (la regione meno popolata e più povera, per quanto ricca di risorse, del Pakistan) che si apre sul mar Arabico. Offrendo, particolare non irrilevante, una valida alternativa allo stretto di Malacca per cui transita l’85% del greggio importato da Pechino.
Non solo. La Cina vorrebbe anche costruire ex novo un’intera città (del resto rientra nelle sue specialità) dove portare mezzo milione di cinesi, ma con divieto d’accesso ai nativi. Un progetto che va di pari passo con quello del governo pakistano di inviare nel Belucistan qualcosa come sei milioni di pakistani provenienti da altre regioni. Se al momento i beluci costituiscono solo il 56% della popolazione del Belucistan (e il 6% della popolazione totale del Pakistan), possiamo facilmente immaginare queli saranno le conseguenze di questa “diluizione forzata” che li renderebbe stranieri in casa propria.
Operazione complessa, di ampio respiro quella condotta “in batteria” dai governi di Pechino e Islamabad. E che si traduce di fatto in colonizzazione, devastazione e saccheggio del Belucistan e delle sue risorse, quelle minerarie in particolare.
È ufficialmente riconosciuto, per esempio, che si stanno già estraendo minerali per migliaia di miliardi di dollari e fuori da ogni controllo pakistano dai giacimenti – soprattutto oro e rame – di Reko Diq e di Saindak. Inoltre, come quasi di regola quando la Cina opera in trasferta, la mano d’opera è costituita da lavoratori cinesi, non da indigeni, e quindi la popolazione locale non ne trae alcun beneficio. In una regione, non dimentichiamo, che soffre una di cronica carenza di scuole e ospedali, dove mancano impianti per l’acqua potabile, costringendo le persone a percorrere chilometri e chilometri per potersi approvvigionare.
Se in passato i geologi avevano calcolato di poterne estrarre quantitativi rilevanti per almeno altri trenta anni, ora si parla al massimo di un decennio, dopodiché i giacimenti risulteranno esauriti.
Inoltre anche ingenti quantitativi di gas naturale vengono estratti quotidianamente e trasportati oltre confine.
Un malcostume neocoloniale che magari non giustifica, ma in parte spiega sia l’aperta ostilità degli indipendentisti nei confronti della Cina, sia le derive militariste del BLA.
Mercenari della Turchia in Pakistan?
“Arruòlati con la Turchia, girerai il mondo”, potrebbe essere lo slogan. Dopo gli interventi nelle regioni curde della Siria, in Libia e Nagorno-Karabakh (ma anche in Kurdistan del sud e Yemen), la Turchia potrebbe ora inviare mercenari (membri del fantomatico Esercito Nazionale Siriano) nel Kashmir, a fianco del Pakistan e contro l’India. Se nell’intervento in Nagorno-Karabakh si intravedeva la messa in pratica dell’ideologia turanica (turanesimo o panturchismo), in Kashmir il presidente turco Erdogan potrebbe giocare la carta pan-islamica. Anche a costo di innescare una guerra vera e propria con l’India.
Stando alle informazioni raccolte dall’agenzia ANF, alcuni giorni fa i comandanti della brigata Sulayman Shah, attualmente insediata nella città curda di Afrin, avrebbero preannunciato ai propri accoliti che questa sarebbe l’intenzione di Ankara. Gli ufficiali turchi avrebbero già chiesto anche ad altri comandanti delle bande ai loro ordini di stilare l’elenco dei volontari. Alla partenza, ogni volontario riceverebbe 2000 dollari in premio, oltre al normale stipendio. Contemporaneamente in alcune città siriane sotto occupazione turca (Azaz, Jarablus, al-Bab, Idlib…), sempre in vista delle operazioni in Kashmir, si starebbero svolgendo operazioni di reclutamento. Del resto è da tempo che le aspirazioni del Pakistan in Kashmir godono del sostegno di Ankara.