Sempre più difficile esprimere opinioni – non parliamo neanche di emettere giudizi – sul “Grande Groviglio” mediorientale e in particolare su quanto avviene nel nord e nell’est della Siria e dintorni. Qualsiasi affermazione rischia di venir ghigliottinata sul campo dalla logica imperante della geopolitica.
Ti pronunci a favore del confederalismo democratico? Allora sei un servo di Washington.
Nutri qualche perplessità sul ruolo di Mosca? Idem come sopra.
Cercherò di farmene una ragione.
I problemi ci sono, evidenti, ci mancherebbe. Senza però oscurare il sostanziale appoggio dell’Occidente alla Turchia nella sua guerra contro i curdi (vedi la mancanza di critiche nei confronti di Ankara per i recenti attacchi dell’esercito e dell’aviazione turca nel Kurdistan “iracheno”; vedi la vendita di armamenti; vedi la repressione, estradizioni comprese, dei militanti curdi in Europa).
Resta il fatto che l’esperienza di autonomia – direi di autodeterminazione, a mio avviso – condotta dal popolo curdo e dalle altre popolazioni presenti nell’area (arabi, armeni, ceceni, yazidi, eccetera) costituisce ancora un esempio concreto di “liberazione possibile”. E che la sua eventuale dipartita (non la sconfitta: moralmente, come la Commune del 1871, ha già vinto) rappresenterebbe una perdita incommensurabile. Non solo per i curdi.
Il ruolo di Putin si diceva. È ormai evidente che la Russia non si limita a sostenere il regime di Assad, ma non si fa scrupoli di collaborare con Ankara in chiave anti curda. Abbandonando all’occupazione turca i territori siriani. Consentendo, di fatto, una autentica politica di annessione e di turchizzazione della regione (come avviene a Ras al-Ain, Afrin, e tal Abyad).
Una conferma nelle ultime settimane, quando Damasco ha imposto la chiusura anche del passaggio di Al-Tabqa, una via di comunicazione tra i territori sotto controllo governativo e quelli dell’amministrazione autonoma; mentre quasi contemporaneamente, in febbraio, Ankara aveva bloccato il corso dell’Eufrate, riducendo il flusso idrico a poco più di un rigagnolo, allo scopo evidente di assetare la popolazione (si parla di centinaia di migliaia di famiglie). Con il benestare e la collaborazione di chi avrebbe dovuto garantire una soluzione politica, la Russia.
In questi giorni la politica di Mosca nel nord della Siria è stata criticata da Daham al-Shibi. Nell’intervista a cura dell’agenzia ANHA, l’esponente del clan al-Haws di Raqqa ha denunciato sia la decisione turca di bloccare il flusso delle acque dell’Eufrate, sia la chiusura dei punti di transito ancora aperti tra le aree sotto il controllo di Damasco e quelle dell’amministrazione autonoma.
Entrambe le discutibili iniziative si sono svolte – come dicevo – sotto la supervisione russa, e Daham al-Shibi ha parlato esplicitamente di una “manovra turco-russa per affamare i popoli della regione”, definendo l’operato di Turchia e Russia “azioni criminali contro il popolo siriano con cui seminare discordia tra l’amministrazione autonoma e la popolazione”.
Sottolineando tuttavia che nonostante le attuali difficoltà, “le tribù della regione sono consapevoli di quanto sta avvenendo e delle vere intenzioni”. Non disposte – se ne deduce – a farsi ingannare dalla propaganda anti-curda.
Daham al-Shibi ha anche dichiarato: “Noi, a nord e all’est, vogliamo una Siria unita con tutte le sue componenti mentre i progetti della Russia e della Turchia mirano all’occupazione e alla divisione della Siria”.
Per concludere che “le tribù del nord e dell’est mantengono il loro sostegno alle Forze democratiche Siriane su tutti i fronti”.