Un libro di Anna Vera Sullam Calimani, I nomi dello sterminio, pubblicato nel 2019, affrontava la questione della definizione corretta per quello che, più o meno indifferentemente, viene chiamato ora genocidio, ora olocausto o shoah. L’indicibile, ignobile, efferato sterminio degli ebrei (insieme a quello in contemporanea degli zingari) costituisce per certi aspetti un unicum, sia rispetto ad altri massacri di massa (armeni, indiani d’America, popolazioni della Namibia, aborigeni australiani, curdi, eccetera), sia per le modalità di pianificazione e organizzazione (un apparato burocratico al servizio di un meccanismo industriale ben funzionante, una perfetta catena di montaggio).
Se il termine “genocidio” venne, come sembra, coniato dal giurista polacco Raphael Lemkin in epoca relativamente recente (1944), “olocausto” veniva riportato dall’Oxford Dictionary ancora nel 1942. Per entrambi il riferimento alla distruzione del popolo ebraico era scontata. Tuttavia i due termini mantenevano una seppur minima ambiguità. “Genocidio” appare talvolta troppo generico, mentre in “olocausto” permane una connotazione di tipo sacrificale (scontato che qui non avevamo a che fare con martiri e sacerdoti, ma piuttosto con l’esplicita intenzione di distruggere un’intera popolazione in quanto tale).
Il termine “shoah” invece, includendo anche il concetto di “desolazione assoluta”, sembra poter esprimere maggiormente l’unicità, la “singolarità storica” di tale crimine. Senza per questo, ovviamente, pretendere di stabilire gerarchie o graduatorie assolute. E soprattutto senza voler minimizzare tante altre immense tragedie subite dai popoli del mondo. In particolare quelli il cui genocidio non viene ancora riconosciuto. Se per gli armeni negli ultimi anni qualcosa sembra essere cambiato con un parziale riconoscimento da parte dell’opinione pubblica (ma non certo delle istituzioni turche), per altri esiste soltanto il perenne dimenticatoio.
Restando in Turchia, è questo il caso di oltre mezzo milioni di caldei, siriaci, assiri e aramaici che tra il 1914 e il 1915 vennero massacrati dagli ottomani. Cosi come avvenne per i greci del Ponto e gli armeni.
Conosciuto come sayfo o seyfo (“spada” in aramaico) questo genocidio spesso ignorato, in quanto subìto da minoranze, si svolse con particolare intensità nelle regioni di Tur, Abdin, Hakkari, Van, Adiyaman e Ourmia.
Per loro sfortuna tali popolazioni – una presenza autoctona millenaria – vivevano entro i confini dell’impero ottomano. Qui subirono massacri (uccisi in gran numero donne e bambini, ma anche molti capi comunitari e intellettuali), deportazioni e una durissima islamizzazione; mentre centinaia di chiese e monasteri vennero prima saccheggiati e poi dati alle fiamme o rasi al suolo.
Anche recentemente, a oltre un secolo di distanza, i discendenti di questi popoli hanno chiesto alla comunità internazionale di riconoscere il sayfo.