Non è semplice seguire il quasi quotidiano stillicidio di attacchi turchi contro i curdi in zone densamente popolate del Rojava (nonostante gli accordi del 2019 per un cessate-il-fuoco, sottoscritti da USA e Russia come garanti). Tra i feriti che soccombono nei giorni successivi in qualche ospedale, e i comunicati delle FDS che rivelano i nomi delle vittime identificate, si rischia semplicemente di perdere il conto.
Nell’ultimo massacro operato dall’esercito di Ankara il 10 agosto nel villaggio di Mulla Sibat, nei pressi di Qamishlo, hanno perso la vita due combattenti delle Forze Democratiche Siriane (Djwar Kobani e Jia Qamishlo) e un civile (Adeeb Youssef) che si prodigava per soccorrerli.
Contemporaneamente l’esercito turco bombardava ripetutamente una quarantina di villaggi nella regione di Jazira e uccideva almeno una dozzina di persone in quella di Ayn Issa. Molti di più i feriti, tra cui donne e bambini.
Il 9 agosto erano state uccise quattro persone e molte altre ferite per un attacco con i droni sulla strada di Hîzam, sempre nel Rojava. In precedenza altre quattro, in circostanze analoghe, nel quartiere di Sîna a Qamishlo.
Tra i feriti l’esponente del PJAK (Partiya Jiyana Azad a Kurdistanê, partito per una vita libera in Kurdistan) Yusif Mehmud Rebanî (Rêzan Cawîd), poi deceduto. Si trovava nel Rojava per conoscere di persona le realizzazioni del confederalismo democratico e dell’autonomia. Fondato nel Kurdistan “iraniano” (Rojhelat) nel 2004, il PJAK dal 2007 fa parte del Koma Civakên Kurdistan (Unione delle Comunità del Kurdistan), così come il PKK, il PYD, il Partito per una soluzione democratica del Kurdistan “iracheno” (Bashur) e altre organizzazioni della società civile.
L’8 agosto i droni avevano colpito nei pressi del villaggio di Cirnikê a Qamishlo. In un comunicato le Forze Democratiche Siriane (FDS) dichiaravano che 4 membri delle forze di autodifesa erano stati uccisi e 3 feriti. E continuava sostenendo che “l’esercito invasore turco ha recentemente cercato di creare paura e caos nel nostro popolo con attacchi pesanti e disumani. Come forze democratiche siriane ribadiamo ancora una volta che proteggeremo il nostro popolo e le sue conquiste in ogni circostanza, non importa quale sia il costo, e vendicheremo i nostri martiri”.
Una dichiarazione in curdo e in arabo del Consiglio per gli affari interni della regione di Cifre era stata letta dai co-presidenti Kenan Berekat e Hemrîn Elî: un appello alla comunità internazionale e in particolare al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per condannare “questi atti immorali contro l’umanità” e per una interdizione ai droni e agli aerei turchi nello spazio aereo del Rojava. Allo scopo di impedire “il massacro quotidiano di civili e combattenti”.
Rivolgendosi al proprio popolo, i due co-presidenti avevano chiesto di “affiancarsi all’amministrazione autonoma e ai combattenti nello spirito della Resistenza e della guerra
popolare rivoluzionaria”.
Il 6 agosto veniva colpito dai droni un veicolo civile nel quartiere di Al-Sina a Qamishlo (quattro morti, di cui due bambini e due feriti gravi).
Il giorno prima, sempre per gli attacchi dei droni, avevano perso la vita quattro combattenti delle FDS: Hevin Osman (nome di battaglia Dilsuz Terbaspi), Ali al-Muslat, Maher al-Ozbah e Mohiuddin Ibrahim.
Invece, il 4 agosto, a essere bombardata era stata la città di Tall Rifat nel cantone di Shehba, nord della Siria. Risultato, una decina di feriti gravi tra cui diversi bambini: Dîna Osman (6 anni), Mehmedû Xerîb Mamo (6 anni), Hisên Cemal Qasim (7 anni), Avrîn Ebdurehman Heyder (13 anni), Arîvan Mihemed Ebdo (15 anni), Ronahî Silo (27 anni) e Hisên Beyrem Eglo (43 anni).
Per quanto isolata rispetto al resto della regione autonoma, Tall Rifat è ancora amministrata dall’AANES. Ma purtroppo questa città, insieme a Mambij, sembra già nel mirino di Erdogan come prossima tappa dell’invasione turca. Nel cantone di Shehba hanno trovato rifugio gran parte degli sfollati (rifugiati interni) provenienti da Afrin, invasa nel 2018.
A Tall Rifat il 19 luglio 2022 un drone turco aveva ucciso anche due soldati dell’esercito di Damasco.
Sempre nell’area di Shehba, il 26 luglio, era stata gravemente ferita mentre lavorava nei campi una ragazza di diciassette anni, Fehime Fewzi Reşo. Immediatamente trasportata in un ospedale di Aleppo, era deceduta il 1° agosto. Lo stesso giorno nel cantone di Shehba venivano colpite e ferite altre sei donne (quelle accertate) che si trovavano al lavoro nelle campagne.
E, procedendo a ritroso, si potrebbe continuare a lungo. Negli ultimi mesi, forse in vista di un’ulteriore invasione, la Turchia ha intensificato gli attacchi contro il Nord e l’Est della Siria.
Nel frattempo vanno aumentando anche le violazioni dei diritti umani nelle aree già sotto occupazione turco-jihadista.
Tutto questo, ça va sans dire, nell’indifferenza della comunità internazionale e senza che le due grandi potenze qui presenti (non certo disinteressatamente) intervengano imponendo una no-fly zone per fermare la mano, o meglio i droni, di Erdogan.
Come da manuale prosegue l’espulsione forzata della popolazione curda che Ankara intende sostituire con coloni sunniti (siriani, ma anche palestinesi) attualmente in Turchia.