Sono da sei mesi nella regione indiana del Rajasthan, per una ricerca etnografica sulla danza dei kalbelia. Si tratta di una jati – letteralmente una sottocasta – che solo recentemente ha avuto una discreta fama internazionale grazie alle sue danzatrici e ai suoi musicisti. 1)
Oggi è un giorno importante: intervisterò la mia maestra di danza kalbelia, Shanti “Anita” Sapera, una donna di spessore straordinario. Il suo nome, Shanti, significa “pace”, anche se la sua personalità è appassionata e carismatica. È una tra le artiste più apprezzate e ricercate. È molto bella, una qualità che per lei è fonte sia di gioia sia di dolore in quanto essere una donna molto ambita può causare spesso dei problemi.
Da qualche anno è sposata con Norath, un ragazzo kalbelia, con un’unione sancita dai loro rispettivi genitori, secondo la consuetudine dei matrimoni combinati. E Shanti confessa: “Se avessi potuto scegliere io sarebbe stato diverso, molto diverso. Io non credo che mio marito mi ami. Lui ama il cibo che gli procuro, ama la mia casa dove può scaldarsi, ama il mio corpo. Ma non ama me!”
Abbiamo deciso di filmare l’intervista. Perciò chiedo una stanza silenziosa al proprietario della guest house dove potremo stare comode in un letto matrimoniale circondate da grossi cuscini, noi due sole come dee per un giorno. Beviamo un chai, un tè al latte aromatizzato, e il profumo si diffonde in tutta la sala, mentre il gusto inebriante e forte mi culla dolcemente aiutandomi nella concentrazione.
Shanti è entusiasta di parlare davanti ad una telecamera, di essere diventata anche “attrice”. È stata recentemente “scoperta” da due registi italiani che la renderanno protagonista di un film-documentario sulla sua vita, includendo anche questa nostra intervista.
Parliamo agevolmente in inglese, una fortuna per entrambe. I contatti con gli amici stranieri incuriositi dalla danza e dalla cultura kalbelia hanno permesso a Shanti e ad altre danzatrici di imparare discretamente l’inglese.
Eccola dunque arrivare, splendida, alla guest house dove alloggio a Pushkar, vestita con un abito lungo a fiori. È sempre accompagnata dal marito o qualche parente; che si possa spostare da sola non è visto di buon occhio in famiglia. Il viso dai lineamenti fini è adornato da un velo nero, del quale ama liberarsi appena l’etichetta glielo consente:
“A me piacciono molto i costumi occidentali. Tant’è che appena sono fuori dalla vista della mia famiglia e della mia gente mi tolgo il velo, sciolgo i capelli e indosso un paio di jeans. Soprattutto quando sono stata in Europa ho potuto cambiare completamente stile e mi sono molto divertita a indossare gli abiti occidentali”.
Shanti ha un carattere risoluto e forte e si è risollevata mille volte, rinascendo dalle ceneri dei fuochi distruttivi derivati degli eventi della sua vita. Una donna indiana e per di più danzatrice deve essere come una fiamma sempre accesa. Appartenere alla jati dei kalbelia ha anche i suoi lati negativi: essi vengono considerati marginali nella società indiana, e ogni giorno, come milioni di altri esseri umani, si arrabattano come possono per vivere.
Shanti è pronta a tutto. Si dedica anima e corpo alla sua arte, come una via quotidiana di redenzione. Grazie alla danza e ai proventi che ne derivano, può sfamare tutta la sua numerosa famiglia e vivere più o meno dignitosamente. E lo fa molto bene.
La lotta per la libertà personale è un tema molto caro e sofferto sia per me in prima persona sia per Shanti. Forse è questo che ci unisce in modo speciale. Lei si confida così:
“Per la donna e in particolare per la donna indiana la vita è molto difficile. Ma non per me. Io posso muovermi e grazie alla danza ho questa libertà. L’ho conquistata con fatica e ho sfidato le mie leggi. La danza ha cambiato il mio mondo, è il mio sogno più grande e non potrò mai dimenticarla”.
Shanti ha imparato a danzare sin da piccolissima, di nuovo non per scelta: considerata una “risorsa”, i genitori l’avevano mandata a vivere dalle parenti danzatrici, a Jaisalmer. Questo tipo di danza tra i kalbelia si apprende solo per imitazione:
“Nessuno ti spiega nulla, nessuno ti vuole insegnare. Ero lì, in mezzo a queste donne, e guardavo i loro passi. All’inizio non ne capivo nulla, passavo le mie giornate a piangere e danzare… e le mie parenti danzavano anche molto male! Dovevo imparare da me. Stavo ricercando me stessa. All’inizio non volevo danzare, pensavo che sarebbe stato meglio se fossi restata a vivere con la nonna, badando alle capre, giocando e bevendo il loro latte. Ma oggi dico che quel sacrificio mi ha salvato la vita”.
Il suo “esserci nel mondo” è comunque sempre messo in discussione. Come attraverso la sua danza cosmica Shiva allo stesso tempo crea, conserva e distrugge, Shanti straborda di energia e la immette nel suo mondo per modificarne la storia, rivelando la personale ciclica battaglia per affermare la sua presenza e mantenerla costantemente a testa alta.
Il corpo della danzatrice può essere visto sia come risorsa sia come una “provocazione”. Deve essere disciplinato, controllato. In particolare riferimento al contesto indiano, la figura della danzatrice è stata ed è considerata ancora oggi di basso valore morale. Sfidando le convenzioni sociali, porgiamo il nostro corpo di danzatrici alla mercé del mondo, mentre sguardi indagatori e inquisitori si insinuano tra un passo e l’altro. I movimenti fluidi e ritmici di Shanti incalzano sulle melodie ipnotiche dello strumento a fiato kalbelia per eccellenza, il poonghi, e sul ritmo battente del tamburo, il doolak.
Il simbolismo del serpente è lampante nella danza. Tradizionalmente molti kalbelia sono stati incantatori di serpenti, ma oggigiorno la loro professione è caduta in disuso e bandita dalla legge che li ha condannati, spesso ingiustamente, per maltrattamenti verso questi animali.
La sua danza, legata alle movenze del serpente, considerato dall’alterità feroce e impuro, diventa al tempo stesso fonte di gioia e dolore, come la concezione che Shanti ha dell’animale che sembra a volte voler calpestare, danzando per scacciare le difficoltà dell’esistenza, oppure amare, impersonandolo.
Tanta fatica per emanciparsi e costruire da zero un’immagine di sé che quotidianamente va ricostruita ed è sempre messa in discussione. Lei danza con vigore, affermando la sua presenza con ogni battito dei piedi a terra e infuria lanciando le braccia che segnano lo spazio in giri vorticosi senza mai cadere, poiché come dice: “Quando danzo entra qualcosa dentro di me, come una presenza, un’energia forte che mi sorregge sempre”.
Danzare è anche dimenticarsi di sé, dissociarsi da abiti prestabiliti, stretti e scomodi che vengono strappati come avviene nella metamorfosi dal bruco alla farfalla. Negli occhi del serpente che fissano gli occhi di chi stanno per attaccare ritrovo il coraggio dello sguardo di Shanti. La forza e la determinazione di compiere perfettamente quello che fa sono stampate nel suo sguardo limpido e nella terra smossa dai suoi piedi scuri, che hanno lasciato il segno di una presenza che, nel danzare, ristabilisce l’ordine sul caos del mondo.
N O T E
1) I kalbelia sono conosciuti per essere stati tradizionalmente incantatori di serpenti e per una certa fama di parentela con gli zingari. Addirittura, secondo la cosiddetta indian connection basata su teorie linguistiche di fine ’800, si è stabilito che dai kalbelia e affini abbiano avuto origine le genti gitane nostrane.