Un approfondito studio pubblicato sul “Bollettino della Associazione Mineraria Subalpina”, l’autorevole geologo Teresio Micheletti definì a tutto tondo la zona della Bessa e di Vittimula luogo di stanziamento d’una “superba civiltà mineraria piemontese” sostenendo che l’estrazione dell’oro non poteva essere stata realizzata solo in epoca romana.
La dimensione dei residui di materiale lavato nella ricerca e i ritrovamenti d’attrezzi e oggetti dimostravano che i lavori erano in corso già dal primo millennio avanti Cristo. Micheletti non escludeva la possibilità che gli originari abitanti della zona “anche prima di saper far reagire l’ossido ed il solfuro di rame per ottenere il metallo, avessero saputo lavorare sia pure a colpi di pietra qualche pepita d’oro”.
Come ben rilevò a fine Ottocento il sacerdote e studioso Luigi Bruzza prendendo come riferimento le cronache di Strabone, le contese fra gli autoctoni paleo-biellesi e gli appaltatori di aurofodine, avidi sfruttatori, avrebbero indotto a intervenire militarmente i romani “i quali temevano che nuovi barbari potessero discendere dalle Alpi in aiuto degli uni o degli altri, e che da una gara di vicinanza nascesse una nuova guerra alla repubblica. Perciò da prima si interposero quali mediatori fra i due popoli, ma non tardò molto che, o fosse per l’avidità fiscale dell’oro, o per non voler turbata la pubblica pace, intervennero armati, e sottomessi che furono i salassi da Appio Claudio nel 611, confiscarono a pro dell’erario le loro miniere. Allora, quantunque i libici [leggi: vittimuli] non avessero dato motivo alla guerra, e fossero loro amici, ed anzi avessero dato aiuto ai romani, ebbero anch’essi, come i salassi, confiscate le miniere, giacchè principale scopo dei romani era d’impedire che i barbari che erano di là delle Alpi non avessero allettamento o pretesto per venire in Italia [sic], e sui confini di essa non fosse troppo grande numero di schiavi, che, essendo della medesima razza, facilmente potessero essere chiamati alle armi. Quindi fu che per questo motivo quando i Censori romani le davano in appalto ai pubblicani, vi apponevano la condizione, indicata da Plinio, che non vi potessero tenere occupati più di 5000 lavoratori”, in realtà schiavi costretti al mestiere coatto più duro.
Era l’applicazione ante litteram della dottrina imperialista americana della guerra preventiva e “protettiva” contro un ipotetico nemico incombente, utilizzata come pretesto per l’occupazione militare e la spoliazione colonialista di ogni bene delle genti sottomesse; ma era anche l’anticipazione dell’Arbeit macht frei di Auschwitz o dei gulag di Stalin.
Un racconto analogo a quello del Bruzza lo fecero nell’Ottocento i sensibilissimi Pertusi e Ratti, giungendo con fantasia a briglia sciolta a immaginare l’antica realtà di un campo di lavatura delle sabbie aurifere dove “migliaia di schiavi, strappati alle vicine selve, nudi, sudici, abbronzati, sudano sotto la sferza del sole a smuovere profondamente quelle aduste glebe e liberarle dai numerosi ciottoli, a lavarne le sabbie, per sceverare tratto tratto con gran cura qualche pagliuzza o un pizzico di granelli d’oro. I più robusti, o i meno abili in tale operazione, caricano informi carriuole dei ciottoli manomessi e su le trascinano ai cumuli per riversarle con fracasso. Come mandrie di bruti, quei miseri, divisi a squadre, faticano e tremano sotto l’occhio vigile e il bastone di pochi sorveglianti, che crudeli e avidi appaltatori addestrarono a trottare il loro simile con perfida barbarie. L’oro raccolto da mille mani viene con diligenza radunato ed andrà a favorire il lusso e la corruzione degli oziosi patrizi romani, mentre il povero schiavo della Bessa si ciberà scarsamente di grossolani cibi e si riparerà in una immonda tana”.
Altrettanto poeticamente, mio nonno materno in un breve saggio apparso sull’“Illustrazione Biellese” del 1937 volle ricordare che “i romani, quando nel primo secolo dell’èra cristiana occuparono stabilmente il Biellese mantenendovi guarnigioni e sfruttarono le cave aurofodine della Bessa, diedero origine coi loro accampamenti a tutti quei comuni che portano nel nome eguale desinenza in ano. Così Magnano, Sandigliano, Ponderano, Vigliano, Muzzano ecc. e che col tempo presero il sopravvento ed assorbirono gli agglomerati preesistenti formati dalla popolazione primitiva e aventi la desinenza celtibera in asco come Vergnasco, Anzasco, Bornasco, Bondasco (Netro) ecc.”.
Secondo l’ingegner Micheletti, “la sublime arte mineraria degli antichi abitanti del Piemonte andò per secoli affinandosi e perfezionandosi, raggiungendo già nella prima metà del primo millennio a.C. quello sviluppo sia qualitativo che quantitativo la cui fama fu capace di raggiungere le lontane contrade della Grecia e dell’Asia Minore”, suscitando le brame dei conquistatori.
La dominazione romana fu devastante per i soggiogati vittimuli, che persero la libertà ma conservarono per quanto possibile la propria identità. Come ricorda il sacerdote Rolfo, sulla sommità del monte Orsetto, la collinetta retrostante Roppolo e Viverone e vicino a Zimone, “troneggia un grosso masso dedicato a qualche divinità” ed il luogo non doveva essere stato scelto a caso ma almeno per la sua posizione apicale, perché proprio da quest’altura è possibile controllare tutta la Serra. La spiegazione più semplice del toponimo, fatta propria da Rolfo, ricondurrebbe alla presenza in zona del grande animale assunto anche a blasone della città di Biella; ma, a parer mio, Orsetto potrebbe essere una defomazione di or sota, l’oro è sepolto sotto.
Già nel 1940 l’appassionata antropologa Virginia Majoli-Faccio ricordò in un suo prezioso libro sulle tradizioni popolari biellesi la leggenda della statua d’oro riproducente un cavallo che i vinti Vittimuli avrebbero fabbricato per impedire ai colonizzatori romani di rapinare anche quella ricchezza nascondendola poi in un luogo segreto. Se questa tradizione ha un qualche fondamento reale, l’avrebbero fatto non per d’occultare dei valori materiali ma per sottrarre allo spregio degl’invasori un idolo, un simulacro d’una loro divinità. È un fatto che la collina Orsetto sovrasta le località in “-ilion”, 1) ma è a poca distanza dall’appartata frazione San Secondo di Salussola che avrebbe questo nome per onorare un martire cristiano che vi sarebbe stato crudelmente assassinato da feroci pagani.
Secondo la tradizione più accreditata, un uomo chiamato Secondo avrebbe fatto parte, ai primordi dell’evangelizzazione del Piemonte, della sempre più improbabile ma fantasmagorica “Legione Tebea”, e sarebbe stato decapitato non prima del 286 e non dopo il 306 dai feroci pagani che vivevano nei pressi del “Castrum Cesarianum” costruito dagli invasori romani nel colle del castello accanto a Salussola.
Poiché nelle chiese di tutto il Piemonte dove è oggetto di speciale devozione il santo tebeo viene rappresentato nelle vesti di soldato romano, con elmo, “brache” militari e spada, non è certo che se davvero lo uccisero, gli schiavizzati vittimuli lo fecero perché era cristiano e non perché apparteneva alle truppe straniere, quelle che occupavano militarmente la Serra per proteggere la rapina aurifera degli speculatori all’insegna del motto fanfarone e prevaricatore di “Roma doma”.
Di questo santo chiamato Secondo viene di tanto in tanto esibita qualche reliquia, ma sull’autenticità non v’è da giurarci. La cautela è davvero d’obbligo, tanto più che nel 1961 apparve sulla rivista “Cuneo Provincia Granda” un saggio di padre Giuseppe da Bra, il quale su Secondo denunciava “le contraddizioni in cui sono caduti i suoi agiografi”, invitando a “essere assai cauti nel valutare le numerose leggende, createsi attorno a questo Santo Martire, per non sconfinare troppo nella fantasia e compromettere la dignità della Chiesa e la nobiltà della storia”.
Anche le vicissitudini del corpo senza vita del martire destano non poco stupore poiché, stando alla versione più nota, sarebbe stato nascosto dai monaci della Novalesa, spostato nel 906 a Torino per impedire ai saraceni di profanarlo, per poi finire nella cattedrale di Ventimiglia dov’è considerato patrono della città.
Il nome della borgata di Salussola dove sarebbe stato martirizzato e che avrebbe preso nome di San Secondo, suscita qualche interrogativo sul suo reale rapporto con i racconti edificanti della Passio Acaunensium Martyrum, prima cronaca della strage degli evangelizzatori “tebani” scritta da Sant’Eucherio di Lione pochi anni dopo la tragedia di quei generosi predicatori fra i pagani. In lingua piemontese, il nome S-cond con cui si ricorda il santo é decisamente simile a scond-ù che significa nascosto.
È dunque possibile che il mito del martire si sia sovrapposto a quello con cui si indicava una borgata particolarmente isolata nelle selve e dove sarebbe stato s-condù qualcosa di particolare o di grande valore.
Nel 1953 nel corso di scavi archeologici effettuati a San Secondo di Salussola furono scoperti numerosi reperti d’epoca romana, ma soprattutto venne alla luce un misterioso cunicolo sotterraneo, ben occultato, che venne creduto un po’ frettolosamente un acquedotto, mentre potrebbe essere quel che resta di qualche passaggio segreto dei soggiogati ma non piegati vittimuli. Qualcosa a scond, nasconde, la pieve romanica di San Secondo a Magnano, luogo di culto di pairolé e magnin, abili calderai e ramai che avevano costruito attorno alla chiesa il primo nucleo del loro paese prima d’essere obbligati a trasferirsi più in alto nel 1204, nel ricetto costruito dalla Repubblica di Vercelli per difendere i propri confini.
Il primo documento storico che fa menzione della chiesa di San Secondo di Magnano è il testamento di uno dei feudatari magnanesi, certo Avogadro, il quale nel 1197 annoverava fra le sue proprietà anche un vigneto vicino a “sancto secundo qui iacet in sax”, San Secondo che si trova al di sotto d’un sasso. Proprio il masso, non la chiesa, “s-cond” un segreto perché quella pietra enorme sulla collina che sovrasta San Secondo è un ròch a forma di teschio.
N O T E
1) Si tratta di V-ilion e P-ilion, oggi Viverone/Vivron e Piverone/Pivron (NdR).