Al termine di un anno particolarmente gravato dagli attacchi (una guerra di usura, per quanto eufemisticamente definita low intensity warfare, comunque di “lunga durata” e di cui non si intravede la conclusione) contro le aree autonome nel nord e nell’est della Siria, l’esercito turco, sempre in buona compagnia dei suoi ascari jihadisti, aveva nuovamente bombardato insediamenti, abitazioni e infrastrutture di Aïn Issa. In modo particolare il 25 dicembre nei pressi della strada M4, una via di transito essenziale per la regione. Colpiti in maniera pesante i villaggi di Xalidiyê, Hoşan e Mestûra, a ovest di Aïn Issa.
Altrove, verso est, sono stati danneggiati alcuni ponti e silos per il grano.
Obiettivo degli attacchi anche altri villaggi (Xerbet Şealê, Şewarxa…) nel distretto di Shera (Afrin). Come sempre un buon numero delle vittime risultano essere civili.
In quanto “punto strategico” per le regioni autonome dell’Eufrate e di Cizîr, dal 2019 Aïn Issa ha assunto suo malgrado il ruolo di obiettivo privilegiato delle operazioni militari di Ankara in Siria.
Finora nei suoi ricorrenti attacchi contro il Rojava, la Turchia ha adottato una strategia di sistematici bombardamenti, per colpire preferibilmente i luoghi preposti all’amministrazione, alla difesa, all’economia e alle cure sanitarie delle regioni autonome.
Nel 2023 in totale gli attacchi registrati sono stati 798, di cui 578 con armi pesanti (soprattutto colpi di artiglieria) e 103 con l’aviazione (sia caccia-bombardieri sia droni). Altri 25 con armi leggere (vedi in particolare i franchi tiratori, volgarmente “cecchini”) e almeno due con utilizzo di mine. I morti confermati sono stati 173 (una quindicina i feriti) tra le forze di difesa del Rojava e 39 (almeno un’ottantina i feriti) tra i civili.
Come già segnalato, a essere maggiormente colpite sono state tutte quelle infrastrutture che risultano indispensabili per la sopravvivenza stessa della popolazione. Si tratta di installazioni petrolifere (colpite nel 2023 una mezza dozzina), centrali elettriche (sette), stazioni di purificazione e distribuzione dell’acqua (cinque). Oltre a scuole, ospedali (compreso il centro medico per la dialisi di Qamishlo), sedi di uffici amministrativi…
È ormai evidente che – dopo l’entusiasmo (fittizio? strumentale?) per la liberazione di Kobanê dall’isis e quello più modesto, di generica indignazione, per l’attacco contro Afrin nel 2018 – sul Rojava e la lotta per l’autodeterminazione e l’autogoverno dei curdi è sceso un velo poco pietoso di sostanziale indifferenza (diciamo di “sospensione”).
Appare invece scontato che, per quanto a “bassa intensità”, tali operazioni militari rendano incerto il futuro, la sopravvivenza del confederalismo democratico nel Rojava.
Con il cessate-il-fuoco decretato (almeno formalmente) il 17 ottobre 2019 venivano sospesi gli attacchi in grande stile della Turchia contro il Rojava. Ma in realtà l’aggressione non era mai rientrata. Non solo in Rojava, ma anche in Iraq.
Secondo alcuni analisti, alla “guerra a bassa intensità” ora verrebbero associate anche la “guerra ibrida” (hybrid warfare) e la “guerra combinata” (compound warfare). In soldoni, una strategia che accanto alle operazioni militari tradizionali (in parte ridotte) ne pianifica altre (da un certo punto di vista di marca terroristica) come omicidi mirati, omicidi settari, esecuzione extragiudiziali, rapimenti e sequestri di persona, incendi dei raccolti, attentati commissionati a squadre prezzolate, provocazioni di vario genere e spostamenti forzati della popolazione. Oltre naturalmente all’uso sovrabbondante dei droni.
Per esempio, già nelle prime sei settimane successive al cessate-il-fuoco (ottobre 2019) si contavano una miriade di azioni ostili di vario genere. Ben 143 incursioni armate, 42 bombardamenti con i droni e 147 bombardamenti con artiglieria. Col risultato – sempre nelle prime sei settimane di presunta “tregua” – dell’avvenuta occupazione di una novantina di località, l’uccisione di almeno un centinaio di persone e oltre sessantamila sfollati.
E meno male che era stato decretato il cessate-il-fuoco, vien da dire!
Questa la strategia di Ankara, che comunque non esita a rilanciare offensive in grande stile (come nel 2022) quando lo ritiene opportuno.
Qualcosa del genere (se non di peggio, vedi l’uso di armi chimiche) avviene anche in alcune aree curde dell’Iraq, in particolare nella zona dei Monti Qandil. Dove ugualmente, grazie alla presenza della guerriglia curda, si sono realizzate forme di autogestione popolare (come nel campo per rifugiati di Makhmour e nella regione abitata dagli yazidi di Shengal).
Sei anni di aggressioni turche
Un breve ripasso. Risalgono al 20 gennaio 2018 i primi attacchi indiscriminati degli aerei turchi contro un centinaio di obiettivi di Afrin. Segnale di avvio della brutale invasione cinicamente denominata “Ramoscello d’Ulivo”.
Il 15 marzo le milizie al servizio di Ankara circondavano la città sottoponendola a bombardamenti di artiglieria e gli aerei colpivano l’unico ospedale funzionante, uccidendo per l’occasione una quindicina di civili. Mentre la maggior parte dei civili abbandonavano la città, lasciando sul terreno oltre 500 vittime dei bombardamenti, anche le sdf (forze democratiche siriane) si vedevano costrette a ritirarsi. Da allora vi imperversa la boria prepotente degli occupanti invasori.
E con il 2024 le cose non sembrano dover cambiare se non in peggio. Già il 1° gennaio si registrava il sequestro di un’intera famiglia (Delîl Hebeş, la moglie Ferîde Îbrahîm e i loro due figli) da parte dei mercenari di Ankara. Per la cronaca, stando ai dati forniti dal centro di documentazione dei crimini, solo nel cantone di Afrin nel 2023 le forze di occupazione avrebbero rapito almeno 435 persone.
Prima dell’invasione turca Afrin era una delle zone più sicure della Siria abitata da oltre 300mila persone (tra cui molti sfollati fuggiti da altre zone del Paese). Attualmente, qui, circa 200mila curdi convivono con altre comunità assai variegate dal punto di vista religioso: yazidi, alaviti, cristiani, sunniti…