Nonostante la proposta di una soluzione politica al contenzioso tra curdi e Damasco, Assad si mostra molto più conciliante con Ankara che con l’aanes, l’amministrazione autonoma del Rojava. Forse in vista di un attacco congiunto al Rojava?
Il 25 agosto Bachar al-Assad, presidente della Siria, intervistato dall’Agenzia France-Presse ha confermato quanto si sospettava, ossia che il ritiro preventivo dell’esercito turco (e delle milizie mercenarie, si presume) dai territori occupati della Siria non costituisce un elemento vincolante per il riavvicinamento tra Damasco e Ankara.
Sconfessando così le recenti dichiarazioni di alcune esponenti politici turchi che lo escludevano e confermando indirettamente che colloqui tra i due regimi sono in atto da tempo. Almeno da qualche settimana, secondo l’intelligence curda, convinta che si stia discutendo di un possibile attacco congiunto alle regioni sotto il controllo dell’amministrazione autonoma per eliminare militarmente le fds (forze democratiche siriane a direzione curda). “Perdonando” quindi l’operato di Erdogan che inizialmente aveva sostenuto e armato i gruppi ribelli anti Assad sorti con la guerra civile del 2011.
Attualmente Ankara e i suoi ascari controllano ampi di lembi di territorio siriano, conquistati con una serie di offensive transfrontaliere. Ma evidentemente Assad non lo considera così importante. Meglio preoccuparsi dei curdi, la cui proposta politica – il “confederalismo democratico” – potrebbe mettere in discussione il regime autoritario di Damasco.
Eppure soltanto qualche giorno prima, durante un incontro organizzato dal pyd (partito dell’unione democratica) a Qamişlo, Ilham Ehmed, co-presidente del dipartimento degli Affari esteri del Nord e dell’Est della Siria, aveva ribadito l’urgenza del riconoscimento da parte di Damasco dell’amministrazione autonoma.
Nel suo intervento Definire l’identità curda e il popolo siriano nel quadro della nazione democratica, sosteneva un concetto ben preciso: “Il popolo deve proteggere le proprie forze”. Un fatto incontestabile che il regime di Damasco avrebbe “dovuto accettare per non doversi confrontare con una nuova resistenza”.
Ella ha ricordato quante e quali profonde trasformazioni (e a prezzo di quali sacrifici) siano avvenute dalla rivoluzione del 19 luglio, una data fondamentale per i curdi e la lotta per i loro diritti in Siria. In particolare, il riconoscimento dell’identità curda e l’insegnamento della lingua. Per cui “è semplicemente impossibile ritornare alla situazione precedente al 2011” (come invece sembrerebbero auspicare Assad & C).
Senza dimenticare l’importanza delle forze militari curde che hanno conquistato sul campo (vedi la guerra all’isis costata la vita a migliaia di combattenti curdi) “un ruolo chiave, una legittimità e un riconoscimento a livello internazionale per la causa curda”. Auspicando infine, forse con eccesso di ottimismo, che il regime di Damasco possa “evolvere verso un sistema di governo decentralizzato che riconosca i diritti fondamentali dei curdi, compresi l’insegnamento della lingua curda e l’autonomia”.
Ma se “negras tormentas agitan los aires” in Rojava e dintorni, anche in Bashur (Kurdistan del Sud, in territorio iracheno) “nubes oscuras” si vanno addensando. Singolare coincidenza, mentre si registravano le concilianti (con Ankara ovviamente ) dichiarazioni di Assad del 25 agosto, un convoglio di milizie paramilitari sciite (unità di mobilitazione popolare, pmu) penetrava nella regione di Garmiyan, provincia di Suleymaniyê, occupandone il campo petrolifero.
In un primo momento i portavoce delle milizie hanno dichiarato alle agenzie di stampa che le pmu si sarebbero “insediate nella regione di Garmiyan, nei pressi della città di Kifri (Gulajo/Gulejo), per un breve periodo [si parlava di tre o quattro giorni] per un’operazione anti Daesh”.
Stando al loro comunicato, le milizie avrebbero informato preventivamente l’upk (unione patriottica del Kurdistan, Yeketî Niştîmanî Kurdistan) che però ha negato di esserne venuta a conoscenza. In ogni caso si erano immediatamente impadroniti del campo petrolifero installando check point e mobilitando pattuglie di controllo.
Per i curdi si trattava di una vera e propria “invasione”. Né più, né meno.
E infatti in un secondo comunicato le pmu avevano ammesso di aver un accordo con la società che sfrutta il campo petrolifero e che intendevano stabilirsi in maniera permanente.
A rendere la situazione ancora più complessa (e pericolosa) sul posto starebbero per arrivare gruppi di Peshmerga (combattenti curdi, non è dato di sapere se dell’upk o del pdk).