Uno dei capitoli più importanti della storia dell’evoluzione dell’umanità è quello legato all’alimentazione. La ragione è legata al fatto che l’uomo risulta l’unico essere vivente che, per nutrirsi, è anche capace di scegliere tra i vari prodotti della natura quelli più idonei a prepararsi il cibo e quindi cuocerli per ottenere il suo pasto.
Che l’alimentazione non appartenga da millenni all’ordine naturale ma a quello “artificiale”, lo si evince facilmente: da quando l’umanità ha smesso di nutrirsi solamente grazie alla raccolta “predatoria” di frutti ed erbe a crescita spontanea, tutto il processo che si conclude con il cibo da portare alla bocca è diventato frutto di una serie di operazioni meramente culturali. E questo, sia che si parli di agricoltura, sia che si parli di caccia o di allevamento di animali e conservazione/trasformazione delle risorse così ottenute: infatti sono state sviluppate tecniche e metodologie per agevolare, propiziare, aumentare e diversificare le quantità e le tipologie di cibo disponibile; e poi l’uso del fuoco per la cottura ha definito una serie di pratiche alimentari sempre più lontane dalla “naturalità” e dalle abitudini degli altri esseri del mondo animale.

Se poi concentriamo la nostra attenzione sul fuoco, elemento essenziale per la trasformazione (e spesso per la digeribilità) degli alimenti attraverso le varie tecniche di cottura, va sottolineato come l’Homo erectus abbia dovuto imparare a gestirne le tre fasi fondamentali, quelle della produzione, della conservazione e del controllo (trasporto/spegnimento); anche qui, e a maggior ragione, non possiamo che parlare di cultura, come “re-interpretazione della natura”. 1) Ma alla fine tutto cambiò; cambiò la storia dell’umanità e cambiò, nel bene e nel male, la storia di tutti gli altri esseri viventi, e quindi anche quella della Terra.

Radici preistoriche

Non deve meravigliare se l’antichità fece ricorso a un mito per giustificare l’origine del fuoco, l’elemento alla base della capacità dell’uomo delle caverne di trasformare in modo così basilare la sua alimentazione, mito di cui il titano Prometeo era il protagonista nella cultura greca. Ma Prometeo non era al centro di un mito legato solo alle origini del fuoco, bensì di un racconto che fissava altresì le basi delle origini della stessa “umanità”, o meglio di una nuova umanità in grado di differenziarsi – proprio grazie al fuoco – dagli altri esseri viventi; quindi di un’umanità avviatasi alle prime fasi del suo incivilimento che l’avrebbe condotta all’acquisizione di un diverso e più elevato modello di gestione dei rapporti umani e delle consuetudini sociali.
Secondo alcune tradizioni, Prometeo avrebbe addirittura modellato i primi uomini e i primi animali con acqua e terra; mentre Platone 2) accoglie solo parzialmente questa versione ritenendo che gli dèi, autori sotto terra dei primi uomini e dei primi animali, avessero poi incaricato Prometeo (etimologicamente: colui che sa prima) e il fratello Epimeteo (etimologicamente: colui che sa dopo) di portarli alla luce e distribuire loro capacità e qualità insieme agli altri animali.

Homo erectus.

Tuttavia Epimeteo avrebbe all’improvviso concesso tutto ai soli animali provocando la reazione di Prometeo il quale, per venire incontro alle necessità degli uomini, rimasti nel frattempo nudi e indifesi anche dalla violenza degli altri esseri, avrebbe rubato il fuoco dal focolare stesso di Zeus (o dall’officina di Efesto, secondo altre versioni del mito) e l’avrebbe portato di nascosto agli uomini in una ferula cava.
La carica simbolica dell’evento rappresentato nel mito si rifletterebbe quindi sull’immagine del fuoco come strumento di elevazione dell’umanità sul regno animale attraverso le nuove modalità che il fuoco stesso offre, oltre che per riscaldarsi, anche a fini alimentari divenendo così un fondamentale elemento costitutivo della cultura e dell’identità umana.
Il mito di Prometeo si riaggancia a un altro elemento rituale nel senso della civilizzazione e dell’affrancamento dell’umanità dai doveri verso entità superiori: sempre per favorire gli uomini, il titano avrebbe ingannato Zeus sui sacrifici a lui dovuti nascondendo la carne degli animali sacrificali nella pelle e avvolgendo le ossa in abbondante grasso, chiedendo poi quale delle due parti il dio preferisse. Zeus, caduto nel tranello, avrebbe scelto le ossa perché più grasse e profumate, e da allora gli uomini avrebbero potuto mangiare tranquillamente la carne degli animali sacrificando agli dèi soltanto le parti per loro inutili degli animali.
Ovviamente quel gesto avrebbe avuto delle conseguenze: Prometeo sarebbe stato infatti castigato da Zeus che lo avrebbe fatto incatenare da Efesto sul Caucaso dove un’aquila gli avrebbe roso per sempre il fegato. Secondo una versione più tarda del mito, presente comunque già in Esiodo, Eracle lo avrebbe successivamente liberato dal supplizio. Tale sarebbe stato quindi il prezzo pagato per dare all’umanità quella dimensione culturale che altrimenti non l’avrebbe resa dissimile dagli altri animali.
Se Bronisław Malinowskij ha parlato, per racconti come quello di Prometeo, di miti “patente” (charters, secondo la terminologia da lui adottata), 3) in quanto hanno evidenti finalità pratiche – proprio come l’uso del fuoco e il rituale del sacrificio – e in quanto forniscono il “precedente” mitico su cui si conforma e si convalida una consuetudine o un’istituzione, e perché insieme offrono la validazione e una sorta di giustificazione morale a un’azione che altrimenti verrebbe inconsciamente ritenuta immorale, come appunto l’offerta agli dèi nei sacrifici del solo fumo, ebbene, a noi interessa qui sottolineare che il problema della nascita del fuoco e della capacità dell’uomo primitivo di padroneggiarlo appare legato al superamento di quella “maledizione” che rimane legata al cibo crudo e testimonia l’aspetto belluino dell’uomo delle caverne, ancora incivile e troppo simile ad altri primati; a differenza del cibo cotto che, attraverso il fuoco, sublima e realizza la sua funzione di nutrimento, ma anche di dominio degli elementi della natura da parte dell’uomo stesso.

Cottura e cultura

Fu Claude Lévi-Strauss a definire in un suo famoso libro 4) le tre fasi/condizioni fondamentali di questa evoluzione antropologica nella gestione del cibo e nella storia dell’alimentazione umana: il“crudo”, il“cotto”e il“putrido”. Secondo lo studioso francese ilcrudoè l’aspetto naturale del cibo; ilcottoè la trasformazione culturale del cibo, mentre il putrido è la degradazione naturale del cibo.
Per una migliore comprensione della sua teoria costruì quindi un triangolo affinché i suoi vertici potessero meglio rappresentare le tre diverse forme che può assumere il cibo; e precisamente al vertice in alto pose il crudo (come elemento esistente originariamente in natura), ai due vertici in basso pose invece il cotto (l’evoluzione culturale del crudo) e il putrido (l’evoluzione-degradazione naturale del crudo); nel contempo evidenziò tre modelli di cottura che sistemò in corrispondenza antitetica dei tre vertici: l’arrosto in alto, l’affumicato e ilbollito in basso; e spiegò che i cibiarrostistisi trovano sul piano naturale, poiché nella cottura vanno direttamente a contatto con il fuoco; i cibibolliti, invece, sono considerati artefatti culturali, in quanto utilizzano un oggetto come una pentola o un bollitore per essere cotti e un elemento naturale come l’acqua a fungere da mediatore tra il fuoco (anch’esso naturale) e il piatto o la scodella (anch’essi oggetti di cultura in quanto manufatti). Infine i cibiaffumicatisono in parte simili a quelli arrosto, visto che non hanno alcun oggetto che ne medi la cottura, in parte simili ai cibi bolliti, poiché richiedono una trasformazione lenta e regolare. 5)
Ecco di seguito la riproduzione grafica del triangolo culinario di Lévi-Strauss: 6)
È chiaro che per Lévi-Strauss l’origine di tutto questo processo funzionale sta nel fuoco e nella capacità dell’uomo di averlo domato e saputo usare per giungere a una modalità culturale dei cibi di cui si sarebbe nutrito, azione che gli ha permesso fin dalla preistoria di uscire dal suo originario semplice stato di “natura” per trasformarsi in un essere culturale capace di “alimentarsi” e non solo di “cibarsi”.
Per Ignazio Buttitta,

la comparsa del fuoco è, dunque, fondamentale scintilla strumentale che illumina, riscalda e trasforma il crudo in cotto e altrettanto fondamentale scintilla di coscienza, di costruzione di un originale tornante culturale volto a separare l’allora incombente animalità dalla precaria umanità. Il fuoco esprime un’energia sconosciuta quanto straordinaria le cui potenzialità sono tutte da scoprire. Una potenza che si può anche immaginare si presti a una divisione di genere, a essere gestita dalle donne […]. Il fuoco che va continuamente custodito, accudito, mantenuto, creato e ri-creato, diventa un altrettanto importante elemento di evoluzione culturale. 7)

Sul piano sociale e organizzativo la capacità d’uso del fuoco comportò molteplici modifiche alla vita quotidiana dell’uomo della preistoria. Innanzi tutto aver imparato a cuocere il cibo consentì di conservare più a lungo quanto veniva cacciato e allo stesso tempo di avere a disposizione alimenti più sani e decisamente più morbidi.

Quest’ultimo fattore, a prima vista meno importante, assume al contrario un peso notevole se si considera che l’effettiva inutilità di una dentatura robusta e un’ossatura mandibolare e mascellare adatta a sostenerla ha consentito uno sviluppo differente dell’apparato scheletrico del cranio, con effettive ricadute sullo sviluppo cerebrale. 8)

Se ciò servì a differenziare l’evoluzione fisica dell’umanità da quella del resto dei primati, altrettanto basilare – ma in questo caso in termini di evoluzione sociale – fu il fuoco a causa della necessità, soprattutto nei primi tempi, di mantenerlo sempre accesso in un focolare, sia per controllarlo e non perderne il controllo, sia per evitare di doverlo riaccendere ogni volta. E proprio il focolare divenne l’elemento fondamentale per un nuovo modello nella struttura sociale in cui, come accennavamo, anche la donna ebbe un ruolo specifico e fondamentale, accanto a quello di genitrice e di madre, pari per importanza a quello degli uomini dediti alla raccolta e alla caccia, oltre che alla difesa: la cura del focolare stesso.

Un ruolo femminile

Ma ci fu anche un’importanza di ruolo assunta pian piano da coloro che custodivano il fuoco, con una posizione di preminenza all’interno dei singoli gruppi, legata a uno status che potremmo definire sia politico sia religioso. In Grecia Hestia era una delle dodici divinità dell’Olimpo, protettrice della casa e della famiglia, dato che la sua presenza era avvertita nella fiamma del focolare posto al centro della casa. Anche nell’antica Roma la sacralità del fuoco era legata all’istituzione da parte del mitico re Numa Pompilio del culto di Vesta (nome derivato palesemente da quello della dea greca), anch’essa dea del focolare e del fuoco. E al culto e alla custodia del tempio di Vesta era legata anche l’istituzione parallela di un collegio di vergini sacre, le vestali, con funzione sacerdotale (una delle prime vestali sarebbe stata Rea Silvia, la madre di Romolo). Ecco quindi la sacralità implicita del ruolo della donna, come conservatrice del sacro fuoco da interpretare anche nel senso simbolico di legame familiare, dato che attorno a esso si raccoglieva il nucleo familiare; una sacralità che si aggiungeva a quella derivante alla donna dalla sua capacità di portare in grembo una nuova vita e di partorirla.

Vesta.

Ma non possiamo nemmeno dimenticare che vi sono state religioni, non solo nell’antichità, fondate sul culto del fuoco come elemento naturale. Tra queste lo zoroastrismo, il quale venerava l’energia del creatore rappresentata proprio dal fuoco. I devoti del culto solitamente pregavano alla presenza di qualche forma di fuoco (o davanti a fonti di luce e calore); da questa concezione deriva il nome dei luoghi di culto, i “templi del fuoco”.
Ma tornando all’antica cultura greco-romana, l’importanza del fuoco è anche attestata nella tradizione, ripresa da Virgilio nell’Eneide, secondo la quale Enea avrebbe portato via da Troia il fuoco sacro e lo avrebbe custodito fino allo sbarco in Italia. Tale uso simbolico-religioso sarebbe perdurato in epoca storica ogni qual volta dei coloni partivano dalla loro città per fondarne un’altra: in tal caso essi portavano con sé il fuoco sacro da alimentare fino al momento della fondazione della colonia, che proprio dalla città madre avrebbe così ricevuto la sacralità della fondazione e del legame del nuovo insediamento.
Ma anche circa il sacro fuoco alimentato in modo perpetuo nel tempio di Vesta dalle sacerdotesse romane consacrate alla dea di cui abbiamo appena parlato, possiamo aggiungere che non si trattò solamente di un culto delle origini, dato che a Roma esso fu alimentato per secoli e spento soltanto nel 391 d.C., allorquando l’imperatore Teodosio, dopo l’editto di Tessalonica del 380 d.C., impedì la pratica di riti pagani e impose il cristianesimo come unica religione dell’impero.
Ma al di là di miti e religioni, va detto che con il controllo del fuoco l’umanità non si trovò più totalmente alla mercé degli elementi naturali, potendo anche riscaldarsi, illuminare la notte e renderla più sicura, oltre che difendersi meglio dagli animali feroci, generalmente intimoriti dalle fiamme.
Di fatto, attraverso il fuoco l’uomo diventava “un modificatore della natura e non più soltanto un suo fruitore”, 9) soggetto creatore di cultura e non più solo elemento della natura come tanti. Né si può dimenticare che l’uomo antico avrebbe imparato anche a inviare messaggi visivi a distanza trasformando il fuoco persino in un mezzo di comunicazione simbolica, evidenziando quindi una sua fondamentale capacità, quella di creare, gestire e interpretare simboli non solo vocalici. Per non parlare di ciò che l’uso del fuoco avrebbe comportato nell’àmbito dell’evoluzione tecnologica per il passaggio dall’età della pietra – prima scheggiata e poi levigata – all’età dei metalli lavorati (del rame, del bronzo e del ferro).
È indubbio che la presenza rituale del fuoco e la sua “persistenza” in tutte le culture, da quelle più antiche e lontane a quelle di oggi, non ha pari nelle dinamiche sociali di popoli anche estremamente diversi tra loro. E se molti antropologi concordano nell’affermare che l’uomo, come animale simbolico e culturale, sia nato col fuoco e che siano state la sua scoperta e l’abitudine al suo uso a immettere nel continuum (uguale) della natura il discretum con le sue differenze nelle abitudini culturali, d’altro lato la vitalità della sua presenza in tante occasioni quotidiane e in tante manifestazioni, oltre che la sopravvivenza di forme anche arcaiche di ritualità collegate al fuoco stesso, non trovano altra spiegazione se non nella sua incontenibile variabilità di “incarnazioni” e nella sua poliedrica capacità di significati: rigenerazione, purificazione, mediazione (tra ciò che è reale e ciò che è celeste), fecondazione, amore, forza, eccetera. 10)
Il focolare, dove nel tempo arcaico si conservava il fuoco, è sempre stato la parte più intima della casa, fungendo quindi da simbolo della dimora e dell’intimità familiare. A tutti è nota l’espressione “angelo del focolare” atta a rappresentare, come già accennavamo, la figura femminile responsabile della famiglia, la figura materna, insomma la donna il cui ruolo più importante è occuparsi della casa intesa sia come edificio abitativo (l’inglese house), sia soprattutto come centro della socialità familiare (l’inglese home).
Non sfuggirà nemmeno il parallelismo spesso abusato in politica (anche in Italia) o nella religione tra il focolare domestico, rappresentato dal fuoco fisico, e la nazione (quindi la patria) o l’altare divino (quindi la divinità), a loro volta scaldati e illuminati dalla fiamma fisica che li caratterizza e da quella metafisica che ne illumina ininterrottamente la sacralità, laica o religiosa che sia.
Ma anche per quanto attiene al focolare domestico, non sfuggirà che le veglie serali dove in passato il sapere orale e gestuale veniva narrato all’infinito tra generazioni si tenevano proprio attorno al fuoco acceso del focolare. Non a caso nei miti e nelle fiabe il fuoco assume sempre una parte rilevante dei racconti simbolici e delle funzioni narrative, anche se poi fuochi infernali e roghi nutrono racconti complessi e drammatici nei quali punizione e purificazione diventano sinonimi di una soluzione rigeneratrice della realtà che trova proprio nelle fiamme la sua soluzione.
Invero non stiamo qui parlando solo di popoli antichi o marginali e nemmeno di antiche storie di casa nostra di fatto dimenticate. È la stessa cucina della tradizione del primo ‘900 a documentare in tanti angoli d’occidente lo spazio vitale, umano, femminile della casa, della famiglia, della comunità; elementi di una cultura che affida al cibo e al mangiare la sua pratica quotidiana di relazione tra i vari individui, giovani e anziani.

Veglie dimenticate

Lì dove il fuoco brucia in continuazione, in particolare nei paesi e nelle case di campagna, la cultura materiale vive e si propaga trasferendosi dai più anziani ai più giovani: in una società che non conosce ancora la radio, la televisione o internet e i social media, il focolare diventa il luogo di conservazione e propagazione della cultura del gruppo; quindi non solo la porzione di casa dove si cucina e da dove parte l’illuminazione e il calore che protegge dal freddo o dall’umidità, ma proprio il luogo dove si trasmette il sapere anche del lavoro, quello che presiede ai rapporti personali, soprattutto a fine giornata quando tutti i componenti della famiglia fanno ritorno a casa dopo le incombenze quotidiane a loro affidate.
Qui trovano la donna (o le donne di casa non idonee al lavoro esterno) “nell’atto di interpretare il teatro riproduttivo [fisicamente e culturalmente] della famiglia”, 11) quelle donne che hanno preparato e cucinato il cibo per tutti, che hanno accudito bambini e anziani, che hanno tessuto, cucito o ricamato quanto necessario alla vita di tutti, che hanno lavato ciò che si era sporcato, e così via; quelle stesse donne che accompagneranno alla fine della cena i piccoli a letto raccontando una storia o una fiaba e che sistemeranno alla fine la casa per il giorno successivo.
Ma tutto cambia, lo sappiamo; e questo riguarda anche la cultura del focolare domestico come spazio simbolico della riunione familiare.

Appena una manciata di decenni e la nostra società del presente comincia ad avvertire, senza ancora averne coscienza, la scomparsa del fuoco quale elemento centrale, tratto costitutivo materiale e immateriale della vita famigliare. Nelle campagne della tradizione la legna non viene sostituita dal carbone, dal gas e dall’elettricità se non nella seconda parte del ‘900. Questi grandi mutamenti, già entrati via via a far parte della vita quotidiana della città, predicevano questa trasformazione radicale del fuoco vivo ma ancora non lasciavano intendere compiutamente la prossima fine di un’energia che aveva marcato gran parte della traiettoria evolutiva dell’uomo. La grande rivoluzione che segna l’inizio della scomparsa del fuoco dal nostro orizzonte quotidiano avviene con il fornello a induzione. Una nuova tecnologia che sembra aver decretato la definitiva fine del fuoco vivo quale elemento indispensabile per la vita dell’uomo. Cuociamo senza più avere la percezione di cosa accade fisicamente quando trasformiamo un alimento da crudo a cotto […]. Con l’abbandono del fuoco vivo la cucina della modernità e della postmodernità diventa un luogo artificiale, sterilizzato, statico, quasi privo, svuotato dell’intervento umano e della presenza del cibo, apparentemente non pensato per cucinare. La donna che ha sempre governato con autorevolezza e affettività questo teatro della vita, ha abbandonato tale insostituibile luogo di strategia riproduttiva, prontamente espropriata di questo spazio di creatività e d’autonomia di genere da cuochi divenuti ben presto “chef”, che nella cucina vedono una risorsa per esprimere la loro autonoma quotidiana creatività che altri lavori non sempre permettono. Un’irruzione a tutto campo, a volte a gamba tesa, in un dominio femminile, condotta senza rispettare elementari regole successorie che la femminile lunga storia di genere richiederebbe. Il fuoco vivo che alimentava la cucina e che ha sempre opposto resistenza a essere domato dall’uomo sta per essere definitivamente vinto. 12)

Focolari ancora accesi

Tuttavia, se questa sembra sempre più la regola, possiamo trovare significative seppur sempre più rare eccezioni: ci sono luoghi, infatti, dove ancora è il fuoco ad alimentare la fiamma fisica e metafisica della comunità familiare. Accade per esempio in Lapponia, dove all’interno delle tende del popolo sami, caratterizzate dall’avere un buco al centro della loro sommità (che serve per fare fuoriuscire il fumo del sottostante focolare), il fuoco arde perenne con la sua funzione primordiale; su di esso viene posto un grande calderone con la funzione di disperdere all’interno della tenda il calore prodotto dall’acqua in perenne stato di bollitura, trattenuto dalla presenza sul pavimento di pelli di renna; ma anche la funzione di far bollire per ore intere al suo interno la zuppa di carne di renna, accompagnata da funghi, verdure e bacche, i prodotti naturali che ancora oggi costituiscono la base della cultura alimentare dei sami (o quanto meno delle famiglie tradizionali dei sami di montagna).
Anche per questo popolo cuocere in pentola, anziché direttamente sul fuoco, significa non disperdere i succhi nutritivi delle carni, trattenerli concentrati nella liquidità del brodo che può essere ancora riutilizzato per altre preparazioni successive insieme a nuove carni o ad altre verdure.
Ma la pentola che bolle è pure l’archetipo di una predominanza della figura femminile nell’equilibrio dei poteri e delle competenze della famiglia, mentre al contrario l’uso della brace e della cottura delle carni direttamente sul fuoco dona simbolicamente una correlazione con la forza e la “belluinità” del maschio, inteso come dominatore brutale della natura. Persino l’interno di questa tenda appare come uno spazio ben organizzato dove nulla è lasciato al caso; ma nel contempo la sistemazione delle varie zone e l’insieme degli oggetti e delle poche suppellettili presenti appaiono legati a una solida tradizione culturale che si rifà in ogni caso a una rappresentazione simbolica del cosmo e di quella figura prettamente femminile che è la natura-madre, immutata da secoli.
Un altro popolo che ancora oggi non rinunzia ad alimentare il suo fuoco perenne è quello degli himba, una tribù seminomade stanziata in una delle regioni più selvagge e inospitali della Namibia, ai confini con il deserto del Namib, la quale ha sempre fatto da scudo ai tentativi di colonizzazione del passato e ai tentativi odierni del governo centrale di Windhoek, la capitale ma anche il centro del potere del popolo nama che ha sempre dominato insieme agli herero quella parte dell’Africa.
Gli himba vivono ancora con pochi mezzi in una terra che non offre quasi niente, eppure sono integrati in modo sorprendente con l’ambiente e con la terra anche grazie a tradizioni antichissime; prima tra tutte quella che fa della loro società un dominio incontrastato della donna in un regime tra i più matriarcali tra quelli conosciuti, dove le donne non solo comandano all’interno della comunità e svolgono i lavori più importanti, ma a cui è demandata la funzione sacra della cura dell’altrettanto “sacro fuoco” al centro del villaggio.
Loro è quindi la custodia di questo fuoco che mai deve essere spento per rendere continuo ed eterno omaggio al loro dio, Mukuru, lo spirito del bene che protegge a sua volta gli abitanti del villaggio dai demoni. La responsabilità di tenere in vita questo sacro fuoco della comunità è affidata alla donna più anziana del villaggio; ma ogni famiglia ha poi un proprio fuoco ancestrale affidato ovviamente all’anziana della casa.
Un’altra particolarità di questo popolo è limitare anche simbolicamente l’uso della poca acqua disponibile: oltre a quella strettamente necessaria a dissetare le persone e gli animali, solo gli uomini possono usarla per lavarsi, mentre le donne, proprio perché protettrici del fuoco sacro, fanno ricorso a un piccolo fuoco con essenze profumate sul quale si sporgono usando quindi il sudore così prodotto per le loro abluzioni.

Tenda sami.

Un altro popolo dell’Africa centrale la cui cultura impone di tenere sempre acceso il fuoco è quello dei pigmei, uno dei pochissimi ancora oggi legati al nomadismo e alla tradizione della caccia e della raccolta di frutti spontanei della terra. I pigmei, che vivono in piccoli gruppi all’interno delle foreste dell’Africa equatoriale tra Camerun, Gabon e Repubblica Centrafricana insieme a diverse etnie di agricoltori bantu (con le quali intrattengono da sempre rapporti di scambio e di simbiosi), abitano in piccole capanne costruite, anche simbolicamente, proprio dalle loro donne.
Si tratta di costruzioni basse e di forma semisferica, coperte da foglie di mangungu tenute insieme da liane e disposte come tegole sopra rami conficcati per terra. Le capanne sono sistemate tutt’attorno a uno spiazzo comune con al centro il focolare davanti a cui la tribù si riunisce la sera per i canti e le danze propiziatorie prima della notte; in questo focolare arde una fiamma che non viene mai spenta non tanto perché i pigmei non sappiano come riaccenderla, ma per motivi sacri che nascondono sul piano razionale la necessità di evitare che la forte umidità renda difficile trovare legna secca da ardere con facilità. Per ovviare a tale problema sono sempre le donne ad avere il compito di tenere il fuoco costantemente acceso oltre a quello di trasportare i tizzoni di brace che serviranno a riaccendere altrove il fuoco, dopo ogni spostamento periodico della tribù da un luogo all’altro della foresta.
Per quanto diverso nel contesto, nella logica e nella sua promozione culturale e teologica, perfino uno dei movimenti cattolici più noti del ‘900, quello dei focolari (o focolarini), fondato a Trento da Chiara Lubich nel 1943, ha voluto richiamarsi ufficialmente al “focolare” domestico, intendendo nel fuoco in esso sprigionato l’esigenza di quel rinnovamento spirituale e sociale che i suoi aderenti considerano alla base della propugnata unità della famiglia umana (o quanto meno di quella tradizionale), secondo il mandato evangelico. Da notare che, per quanto il movimento sia nato all’interno del cattolicesimo, vi hanno man mano aderito anche cristiani di altre Chiese, seguaci di religioni diverse e in ultimo persino persone senza esplicite convinzioni religiose, tant’è che lo caratterizza proprio per questo la vocazione generalizzata al dialogo e a costruire rapporti di fratellanza non solo tra singoli ma anche tra popoli e culture diversi.

Dal focolare al desco

Più prosaicamente il concetto simbolico di focolare oggi è divenuto sinonimo, soprattutto in occidente e nelle società complesse, di “tavola”; un termine ambiguo, anch’esso dalla forte connotazione simbolica, che media il senso della sua funzione materiale (poggiarvi i piatti, le stoviglie e quant’altro serva per il pasto) e quello della sua funzione sociale (ritrovarsi attorno a essa per stare insieme). Non dimentichiamoci che nella società contadina di un tempo non esisteva il salotto, ma era proprio il tavolo al centro della stanza principale a fungere da aggregatore per gli abitanti e per gli eventuali ospiti.
Ancora oggi è il desco il luogo simbolo attorno al quale ci si riunisce, almeno una volta l’anno o ogni domenica o magari ogni giorno, per mangiare insieme ma anche per “stare” insieme, spesso anche solo per ritrovarsi e scambiare qualche parola in più a fine giornata o dopo una settimana o dopo un intero anno, per quanto in realtà a essa si associ un concetto estremamente variabile da cultura a cultura.
Ma rimane la tavola a incardinare una significativa e importante abitudine, in alcuni casi rituale, che coinvolge comunque più o meno tutti i popoli: l’incontro. Attorno a un tavolo si fanno le riunioni di lavoro, di affari, di potere; attorno a una tavola imbandita si festeggia e ci si ritrova persino dopo un lutto; attorno a essa ci si rivede anche quando l’incontro avviene di rado, anzi in tal caso quell’incontro, al di là del cibo che vi si consuma, diventa l’occasione per parlarsi, per scambiarsi notizie e consigli su affari, rapporti, sentimenti, e così via.
E quanto più è importante e solenne l’incontro, tanto più lo è anche la preparazione dei piatti che vi si servono nell’occasione e che in alcuni casi rievocano ricette della tradizione o piatti tipici della stessa famiglia che vengono preparati proprio in questo frangente.

Cafiero Filippelli, Focolare domestico.

N O T E

1) Massimo Montanari, Il cibo come cultura, Bari 2006.
2) Protagora, 320 C – 321 E.
3) Il mito nella psicologia primitiva, Brindisi 2024.
4) Il crudo e il cotto, Milano 1966.
5) L’autore scrive testualmente al riguardo: “In che cosa consiste dunque l’opposizione fra arrosto e bollito? Sottoposto direttamente all’azione del fuoco, il cibo arrostito si trova, rispetto a quest’ultimo, in rapporto di congiunzione non mediata, mentre il cibo bollito risulta da un duplice processo di mediazione, effettuata dall’acqua in cui viene immerso e dal recipiente che contiene entrambi. Ci sono dunque due motivi per porre l’arrosto dalla parte della natura e il bollito dalla parte della cultura. Un motivo reale, dal momento che il bollito richiede l’uso di un recipiente, che è un oggetto culturale; e un motivo simbolico, perché la cultura effettua la propria mediazione tra l’uomo e il mondo e perché anche la cottura per ebollizione effettua una mediazione, per mezzo dell’acqua, fra il cibo che l’uomo si incorpora e quell’altro elemento del mondo fisico che è il fuoco”.
6) Le origini delle buone maniere a tavola, Milano 2003.
7) Cibo: memorie, immaginari, valori, simboli, con Piercarlo Grimaldi, da “Archivio antropologico mediterraneo”, Anno XXI n. 20, 2018.
8) Patrizia Santovecchi, Il fuoco fra mito e religiosità, “Profiling”, gennaio 2010.
9) Ibidem.
10) Cfr sull’argomento: Ignazio Buttitta, Il fuoco. Simbolismo e pratiche rituali, Palermo 2002.
11) Ignazio Buttitta (con Piercarlo Grimaldi), Cibo: memorie, immaginari, valori, simboli, da “Archivio antropologico mediterraneo”, cit.
12) Ibidem.
Il testo di quest’articolo è tratto dall’ultimo libro dell’autore Sono ciò che mangio. Introduzione all’antropologia dell’alimentazione, Fotograf Edizioni.