Sicuramente i curdi avranno dei buoni motivi per proseguire nelle trattative per una soluzione politica del conflitto con la Turchia (vedi il disarmo e la dissoluzione del pkk). Ma visto da qui l’impressione è che la volontà di superamento stia da una parte sola.
Nonostante la questione della liberazione dei prigionieri politici (e di quelli gravemente ammalati in primis) sia sempre stata una priorità irrinunciabile (“una pietra angolare”), Ankara sembra procedere in direzione contraria.
Mentre alcuni media turchi evocano l’improbabile “impegno del governo per stabilire un cambiamento legislativo nel quadro del processo di pace tra Abdullah Ocalan e il potere turco per risolvere la questione curda con mezzi pacifici”, è di questi giorni una notizia preoccupante: il suddetto potere turco ha avviato la costruzione di un nuovo carcere di alta sicurezza, l’ennesimo, nella città di Ewran (Yeşilova, provincia curda di Muş). I lavori, avviati in sordina, proseguono alacremente e coprono già oltre quattro ettari di terreno.
Per Metin Güllü, esponente dell’associazione degli avvocati per la libertà (öhd), “la costruzione di questo carcere non va nella direzione del processo di pace”. Siamo con tutta evidenza di fronte a un esempio da manuale di “negoziati asimmetrici”. Come quando – e pare sia il caso attuale dei curdi – le due parti non si equivalgono a livello di potere, mezzi, autorità. Per cui la parte più potente pone sul tavolo i propri interessi, mentre quella più debole si muove con difficoltà (talvolta solo per garantirsi la sopravvivenza). Quindi alla fine a prevalere saranno non la verità e la giustizia, ma semplicemente la volontà di dominio e la legge del più forte.
Ma reprimere non basta, evidentemente. Prima vanno estirpate anche le radici. Risaliva al 6 agosto la notizia che il cimitero di Herekol – dove erano sepolti una sessantina di membri del pkk caduti nella lotta di liberazione – è stato completamente raso al suolo con le ruspe. Ignota al momento la sorte dei resti dei combattenti.

È almeno dal 2013, quando Ankara interruppe arbitrariamente un precedente processo di pace, che i corpi dei curdi morti in battaglia (“martiri” per il loro popolo) sono di fatto un obiettivo di quella che possiamo definire “guerra psicologica”. I cimiteri vengono bombardati o in alternativa spianati con i bulldozer (o entrambe le cose). Lasciando soltanto macerie e rendendo poi l’area interdetta alle famiglie per diversi anni.
Il cimitero di Herekol, costruito nel 2014 nella regione di Çemê Karê (distretto di Pervari a Siirt) e conosciuto come cimitero dei martiri di Şehîd Azîme e Şehîd Resul Goyî, era già stato bombardato in passato (oltre che danneggiato dall’alluvione del 2017). Ora si presenta come un’area piatta e deserta dove i familiari dei caduti si aggirano sbigottiti, rinvenendo soltanto qualche frammento delle 63 lapidi. Abbattuto anche il muro in pietra perimetrale, mentre si parla della prossima installazione di un posto di osservazione militare (una “torre”).
A tal proposito qualcuno ha voluto ricordare le affermazioni risalenti al 1993 di Abdullah Ocalan: “Se noi dimentichiamo i martiri, anche solo per un minuto, diventiamo più traditori dei traditori. I nostri martiri sono l’onore del nostro popolo”.
Sempre in questi giorni (notizia dell’agenzia Welat) un evento simile ha interessato l’antico cimitero armeno del villaggio di Akori ai piedi del monte Gilidax (Ağrı) nel distretto di Idir. Numerose ossa umane emerse dalle tombe in rovina sono state – disordinatamente e poco rispettosamente – ammucchiate e abbandonate in mezzo alle lapidi. Tra le varie ipotesi, quella di visitatori occasionali (vandali?) o di “cercatori di tesori”. Ma è anche possibile che si tratti di un gesto intenzionalmente ostile nei confronti dell’identità armena.