Amazigh è il nome con cui si definiscono i berberi, che costituiscono la popolazione indigena originaria di gran parte del Maghreb, termine che deriva a sua volta dall’arabo Bilād al-Maghrib, che significa “Terre dell’Occidente”. Questo territorio, che va dall’Egitto al Marocco estendendosi più a sud fino al Mali e alla Mauritania, un tempo era chiamato “Tamazgha”, cioè “terra degli amazigh” nella lingua parlata da questa popolazione: una lingua appartenente al ceppo camitico (con un suo alfabeto specifico, il “tifinagh”), ben differente dall’arabo, che invece appartiene al ceppo semitico, divenuto successivamente la lingua predominante in tutto il nord-Africa dopo le migrazioni di vari popoli nel frattempo islamizzati provenienti dal vicino oriente.
I berberi avevano coltivato un insieme variegato di culti, basati su credenze religiose politeiste e animiste, con divinità legate alla natura, alla famiglia, alla guerra, influenzate da vari popoli vicini (fenici, egizi, romani, ebrei); ma quando nell’XI secolo si concluse la conquista araba del Maghreb, erano stati nel frattempo tutti islamizzati e in parte anche culturalmente arabizzati, mentre le comunità cristiane indigene della regione, che prima della conquista araba avevano convissuto abbastanza pacificamente costituendo a loro volta una parte davvero importante del mondo intellettuale cristiano (si pensi allo scrittore Tertulliano o allo stesso sant’Agostino), cessarono sostanzialmente di esistere.
Le prime testimonianze della lingua amazigh sono riconducibili ad alcune iscrizioni risalenti a circa cinquemila anni fa scritte con caratteri particolari – diversi dall’antico egizio, dal fenicio e da altri alfabeti usati da popoli vicini – incise su rocce rinvenute in tutto il deserto del Sahara. Ma in realtà, più che di una lingua comune, ne dobbiamo parlare più correttamente come di una base linguistica comune, dato che la storica frammentazione delle tribù berbere, mai venuta meno, ha prodotto anche la frammentazione di questa protolingua originaria in un insieme di dialetti locali, tramandati di generazione in generazione per lo più per via orale, riconducibili sostanzialmente a sette gruppi principali.
Anche per questa debolezza intrinseca del canale di trasmissione nel tempo dell’identità linguistica, oggi su un totale di circa cento milioni di abitanti dell’area le tribù amazigh contano complessivamente meno di trenta milioni di persone; ma coloro iu quali parlano abitualmente o comprendono uno dei dialetti berberi sono molti di meno, e comunque da nessuna parte questa costituisce la lingua “ufficiale” di uno Stato o di parte di esso.

I berberi e la questione della lingua

Seguendo l’origine etimologica, mentre “berbero” è un termine nato dalla storpiatura araba del nome attribuito a questo popolo dai romani, che li definivano come tanti altri popoli stranieri semplicemente “barbari”, cioè estranei, diversi (nella sua prima accezione barbarus significa balbuziente, cioè incapace di parlare bene la lingua), l’etonimo amazigh è a sua volta collegato al significato di “uomo libero”. Questo sentimento di libertà appare evidente nella tradizione culturale delle varie comunità traducendosi, come già accennato, anche in una chiara differenziazione sul piano linguistico e sociale della popolazione berbera, comunque minoritaria, dal resto della popolazione araba dei vari Stati; ma evidenziando altresì anche una serie di differenze “interne”, per esempio tra un montanaro del nord del Marocco o dell’Algeria, un allevatore di bestiame degli altipiani semiaridi del centro, e un tuareg nel deserto di pietra del Tassili, come sottolinea anche Karim Metref. 1)
Proprio questo innato senso di libertà è sempre stato anche il limite dei berberi: come evidenziato già al suo tempo da un grande storico arabo del XIV secolo, Ibn Khaldūn, pur essendo un popolo fiero e al suo tempo ben più numeroso di oggi, anche se non più potente come nel passato, solo per brevi periodi i berberi hanno potuto godere di una vera e propria forma di indipendenza nazionale, costituendo entità statali autonome anche in una parte del loro atavico territorio, con l’eccezione del regno di Massinissa, sovrano della Numidia, che riuscì a estendere la sua dominazione tra il III e il II secolo a.C. in una vasta porzione del nord-Africa, costituendo uno Stato che comprendeva l’attuale Algeria e parte della odierna Tunisia.

Pur senza dimenticare che di origine berbera furono nell’antichità imperatori romani come Settimio Severo e Caracalla, illustri letterati latini come Terenzio, Apuleio e Tertulliano e Padri della Chiesa come sant’Agostino, non si può tacere che in effetti la storia li ha visti per gran parte dei secoli dominati da popoli stranieri (egizi, fenici, cartaginesi, romani, vandali, bizantini, arabi, turchi e francesi) anche in ragione del fatto che “le comunità amazigh hanno in genere un carattere ‘anarchico’, opposto alla centralizzazione del potere”. 2)
Questa condizione si rispecchia nella loro tradizionale frammentazione tribale, tanto che alcune di queste comunità non sempre sono riuscite nel tempo a intrattenere nemmeno al proprio interno stretti e duraturi legami tra i vari clan familiari. Se in linea di principio tutte le famiglie e i clan erano considerati uguali, era consuetudine che il governo della tribù fosse demandato a un consiglio di anziani che decideva su tutti, ma i tradizionali codici d’onore potevano non essere sufficienti a sedare eventuali faide perché in realtà le varie famiglie non erano poi così uguali tra loro, per discendenza e lignaggio, e quindi anche l’egualitarismo e l’imparzialità delle decisioni che il consiglio avrebbe dovuto garantire diveniva solo una inutile facciata, e semmai poteva costituire un’ulteriore occasione di dissidio già nella scelta dei suoi rappresentanti.
Una prova che anche in tempi assai più recenti la situazione non è cambiata troppo può essere il tentativo fallito di federare i vari movimenti e le variegate associazioni culturali e politiche berbere, presenti in tutti i Paesi dell’area, che provarono a riunirsi in un congresso delle comunità amazigh organizzato alle Isole Canarie nel 1991 con l’obiettivo di accordarsi su varie linee d’azione comuni. Ma anche quel congresso si spaccò in varie fazioni, e da allora non sono stati fatti altri tentativi di “riunificazione”, né in ambito politico, né in pratica in àmbito culturale, a parte una commissione di studiosi ai quali è stato demandato il compito di istituire una koinè linguistica comune a tutte le comunità amazigh, ma di cui dopo tanti anni non si intravedono ancora i risultati.
La conseguenza di tutto ciò è che un po’ in tutto il nord-Africa ormai la popolazione berbera, pur essendo rimasta fieramente “nazionalista” o quanto meno gelosa della propria identità, della propria lingua (o almeno del proprio “dialetto”) e delle proprie tradizioni, o è stata costretta alla silente assimilazione di fatto con quella araba (è accaduto in particolare in Algeria e in Marocco, dove i berberi costituirebbero ancora circa la metà della popolazione complessiva), o è stata alla fine ridotta alla presenza di modeste enclavi, del tutto minoritarie rispetto alla maggioranza araba.
È proprio quanto accaduto in particolare in Tunisia, Paese il cui antico nome (Tunus, letteralmente “luogo in cui passare la notte”) ha avuto origine anch’esso dalla lingua amazigh. Eppure, anche qui come in Marocco o in Algeria le antiche comunità berbere sono in qualche modo all’origine della maggioranza della odierna popolazione, anche se poche sono le persone che, come già detto, accanto all’arabo sono in grado oggigiorno di parlare uno degli antichi dialetti berberi locali. D’altronde, in Tunisia l’amazigh non ha mai avuto nemmeno uno status linguistico ufficiale e ancora oggi non viene insegnato in nessuna scuola, se non episodicamente in qualche villaggio dove la popolazione berbera è assoluta maggioranza. 3)
I componenti di questa popolazione vivono tra l’altro in piccoli centri, in genere isolati e lontani da città davvero importanti, in aree abbastanza lontane dalla costa del Mediterraneo. Per di più, se l’amazigh è stata una lingua spesso emarginata e quindi a lungo non ammessa nell’ordinamento scolastico dei vari Paesi, in Tunisia è come se rappresentasse ancora una sorta di tabù sociale: la popolazione che la parlava veniva additata fino alla seconda metà del ‘900 come rozza e ignorante e il suo uso in pubblico era stato proibito per molti anni, quando al potere c’erano i Burghiba o i Ben Alì, che hanno sempre usato ogni mezzo per reprimere sul nascere qualunque possibile opposizione politica ai loro regimi (e anche una parlata popolare non comprensibile dalle autorità di polizia come quella della popolazione berbera poteva nascondere insidie e pericoli).
Potremmo dire che se oggi ci poniamo un problema di riconoscimento etnografico del popolo amazigh, di sicuro sembra che mai sia esistita una “questione berbera” nel Maghreb, e ancor di più in Tunisia. Come ha osservato Vermondo Brugnatelli,

nei Paesi colonizzati dalla Francia la forte e prolungata presenza di coloni e di un’amministrazione rigorosamente francofona ha introdotto, accanto all’arabo, una nuova lingua coloniale: il francese. Non pochi nord-africani, a disagio con l’arabo classico – vuoi perché di madrelingua berbera, vuoi perché abituati a parlare dialetti arabi assai diversi dal modello classico – hanno ripiegato sul francese come lingua di comunicazione (lingua che oltretutto schiudeva prospettive occupazionali nella stessa Francia metropolitana). Le lotte per l’indipendenza dei Paesi del Maghreb sono state condotte all’insegna di un rifiuto della cultura coloniale europea, e per individuare un valido modello da contrapporre a essa un grande accento è stato posto alla tradizione arabo-islamica. 4)

Tuttavia, per quanto i gruppi berberi siano stati tra i più accaniti nella lotta contro l’occupazione coloniale, quando alla fine si giunse all’indipendenza dei vari Stati del Maghreb, la vittoria rimase in mano alla sola popolazione araba che volle affermare in modo netto e senza ombre l’identità arabo-islamica dei nuovi Stati, quasi cercando una “purezza” etnica, magari pan-araba, che in ogni caso metteva all’angolo quanti non fossero di sicura origine araba e di comprovato culto islamico. In pratica, “tutto il Maghreb si dichiarò arabo e solo arabo, e tutto ciò che non era arabo doveva diventarlo […]; la lingua e la cultura amazigh, da marginali, divennero proibite”, 5) dato che i nuovi governi si posero l’obiettivo dell’arabizzazione completa di tutti i gangli dello Stato e di tutti gli aspetti della cultura, a partire dal sistema scolastico e universitario.
Ma questa arabizzazione, imposta a volte in modo brutale e repressivo (proprio come accadde in Tunisia nel periodo in cui a capo dello Stato c’erano Burghiba e Ben Alì), da un lato non sembra avere conseguito lo scopo di far regredire l’uso del francese, dall’altro è servita come alibi per non consentire più ai berberi l’uso della loro lingua, in qualche caso sanzionando penalmente ogni comportamento linguistico “deviante” rispetto all’arabo.
Per la cronaca, oggi soltanto in Algeria e in Marocco l’amazigh è stato riconosciuto come lingua minoritaria dello Stato e ne è stato concesso l’insegnamento nelle scuole dei centri abitati dove vivono consistenti comunità berbere, mentre in Tunisia la realtà amazigh è stata solamente da poco riconosciuta socialmente e culturalmente in alcuni territori provinciali, ma non ancora a livello istituzionale statale.
Ciononostante, per quanto possa apparire strano, proprio la Tunisia, dove il dialetto berbero locale, lo shilha, è parlato ormai abitualmente da appena cinquantamila persone, vive comunque una particolare sindrome che potremmo definire schizoide: anche se rispetto ai Paesi vicini

conta il minor numero di berberofoni, ha però il primato nella “folklorizzazione” del patrimonio amazigh: Matmata e le sue case troglodite, i tappeti berberi, il couscous berbero, la tenda berbera, i tatuaggi berberi, ecc. Il tratto distintivo “berbero” appare come una garanzia di autenticità, il contrassegno del carattere locale, ancestrale, ma anche emblema di un passato destinato al consumo del turista. 6)

E poi, come dimenticare la musica e le danze che sono state sempre l’emblema dell’identità berbera e della sua “diversità” pubblicizzate come “arabe” o semplicemente “tunisine”? Anche queste sono entrate nell’immaginario collettivo contribuendo non poco ad alimentare i flussi turistici, al di là delle coste su cui andavano sorgendo hotel e resort, e proprio verso le enclavi berbere, un po’ come accaduto anche all’Algeria o al Marocco.

Il Chott-el-Jerid

La più vivida teatralità delle offerte turistiche del mondo berbero caratterizza in particolare l’area, da sempre popolata da tribù amazigh, vicina al Chott-el-Jerid, un grande lago salato che si estende nel cuore della Tunisia: da un lato tra le oasi di Tozeur e di Nefta, entrambe antiche città carovaniere celebri per i loro storici palmeti, dall’altro tra Kébili e Douz, ai confini del Sahara e in vicinanza del Parco Nazionale di Jebil. Di questo lago parlò anche lo storico greco Erodoto, chiamandolo Tritonide, e qui secondo il mito greco si sarebbero arenati gli Argonauti nel corso della loro avventuroso viaggio a bordo della nave Argo che doveva condurli nella Colchide alla riconquista del vello d’oro.

berberi amazigh Chott-el-JeridIn realtà, durante il neolitico da queste parti non c’era alcun deserto, né alcun vero e proprio “lago”, poiché vi giungevano ancora in piena continuità le acque del Mediterraneo; ma nel corso dei millenni il mare si è via via allontanato, le acque residue sono evaporate in seguito alle sempre più scarse precipitazioni e alle crescenti temperature, e la linea di costa è arretrata fino a dove si trova attualmente, abbandonando il chott, una depressione salina che altro non è se non il risultato di quanto resta del Mediterraneo di qual lontano passato.
Se fino a pochi secoli fa il chott misurava oltre cinquemila chilometri quadrati, oggi le acque di quello stesso “lago” appaiono ulteriormente prosciugate per gran parte dell’anno, con il centro del bacino (distante un minimo di venti chilometri dal mare all’altezza di Gabés) che nella stagione delle piogge diventa qualcosa di più simile a una laguna paludosa. Quanto alla percentuale salina delle sue acque residue, è tale che soprattutto nel pieno dell’estate la superficie appare come quella di un ghiacciaio, seppur assai poco candido: il bacino, infatti, è ormai alimentato solamente da pochi uadi (torrenti) che riversano nella sua depressione le scarse acque derivanti dalle ancor più modeste piogge stagionali dell’inverno, mentre è ormai quasi inesistente lo scorrimento idrico sotterraneo che un tempo giungeva dal letto di altri uadi sotterranei (non è un caso se proprio nel cuore del Chott-el-Jerid è presente una grande salina). Tanto basta, comunque, perché in primavera i fenicotteri rosa vengano qui a nidificare, fornendo un ulteriore stimolo al turismo.
Largo nel periodo di massima capienza una ventina di chilometri e lungo almeno 250-300, lambendo quasi la frontiera con l’Algeria, il Chott-el-Jerid è ulteriormente famoso per i miraggi che si intravedono abitualmente nel corso delle ore più assolate del giorno, causati dalle temperature estive che possono superare i 50 °C e creano apparenti vibrazioni delle cose e dei contorni dell’orizzonte dovuti in realtà a un fenomeno fisico ben preciso: la rifrazione della luce attraverso strati atmosferici di calore differente. Ma questa evaporazione stagionale delle acque estremamente salate del “lago” rende tutto il suo paesaggio quasi lunare, con increspature di sale e rocce argillose affioranti dalla sabbia e dalle poche acque che con l’avanzare dell’estate riescono a non finire evaporate.
In quest’area si stanziarono nel corso della seconda guerra mondiale le truppe del generale Erwin Rommel, soprannominato la “volpe del deserto”, nel tentativo di stabilire un ponte tra il nord-Africa e le coste dell’Europa meridionale, in gran parte nelle mani delle potenze dell’Asse; e sempre in questi luoghi sono state girate alcune scene di film famosi come Il paziente inglese, I predatori dell’arca perduta e Guerre Stellari, sfruttando location iconiche come alcune oasi situate attorno a Tamerza e Mides, vicino al confine con l’Algeria, caratterizzate da palme da dattero che si innalzano sopra le rocce in un paesaggio di rara bellezza. Esse sopravvivono grazie a sorgenti ancora attive che riversano le loro acque dapprima in bacini naturali in mezzo alle montagne e poi negli uadi, alimentati anche dall’acqua di drenaggio dopo le irrigazioni di alcune colture tipiche dell’area (fichi, melograni e banani, oltre a ortaggi e legumi).

Chott-el-Jerid
Il Chott-el-Jerid.

Proprio in prossimità del Chott-el-Jerid si trova il territorio in cui vive una delle principali tribù berbere del Paese, quella dei Matmata, la cui peculiarità è legata a una più marcata emancipazione femminile: rispetto al resto degli amazigh (anche della stessa Tunisia) qui gli uomini dei villaggi e delle città considerano le donne “colleghe” anche nel lavoro, con piena parità rispetto a loro in tutti gli aspetti della vita sociale, e ritengono che sia loro diritto svolgere gli stessi mestieri dei maschi. I matmata sono altresì noti per le loro case troglodite scavate nella terra e per alcuni villaggi fortificati chiamati ksour, caratterizzati da abitazioni ricavate da grotte naturali o artificiali costruite accanto a granai (ghorfas) per proteggere le derrate alimentari, con una sola entrata per consentire un’appropriata difesa da eventuali incursioni di predoni, oltre che da animali o intemperie.
Tra questi villaggi i più famosi sono quelli di Matmata (l’abitato da cui la tribù prende il nome), raggiungibile percorrendo per circa 65 chilometri da Gabès la C107, una moderna strada asfaltata che si inoltra all’interno del deserto; e poi Guermessa e Chenini, in prossimità di Tataouine, 150 chilometri più a sud, collegati con le C114-C207, ulteriori avamposti del deserto divenuti anch’essi set cinematografici: non è un caso se a sua volta “Tataooine” (seppur con la doppia “o” al posto del  dittongo “ou”) sia proprio il nome che Lucas scelse nella saga di Guerre Stellari per denominare il pianeta, illuminato da due soli gemelli, dove erano nati Anakin e Luke Skywalker.

berberi amazigh Chott-el-Jerid
Saline.

Proprio questi ksour, d’altronde, hanno sempre offerto protezione alla popolazione e ai mercanti carovanieri dalle dure condizioni climatiche del Sahara e dalle tempeste di sabbia, rappresentando un modello abitativo unico nella regione. Qui questo popolo ha vissuto per secoli di pastorizia nomade e dell’arte della tessitura della lana di cammello con cui da sempre vengono realizzati splendidi tappeti, riuscendo in qualche modo a mantenere ancora oggi alcuni importanti tratti della loro cultura tradizionale, e soprattutto a conservare in qualche modo la lingua berbera degli avi evitandone la scomparsa.
Anche da queste parti va detto che, soprattutto a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, molte delle tradizionali case di argilla dei villaggi furono abbattute per essere sostituite da edifici in pietra più “moderni”. Negli anni successivi hanno cominciato a sorgere anche alberghi e campeggi per i turisti che iniziavano ad avventurarsi da queste parti grazie a nuove strade che prendevano il posto delle antiche piste carovaniere. Ma più o meno nello stesso periodo anche le parole amazigh del dialetto locale avevano iniziarono a scomparire, per istigazione del regime di Tunisi, sostituite dall’arabo insegnato nelle scuole che tutti i bambini dovevano frequentare, puniti invece se continuavano a parlare la lingua degli avi appresa in famiglia.
Fino a quel momento, in effetti, lo stile di vita di gran parte della popolazione era sempre stato prevalentemente nomade, e solo in parte sedentario: molte tribù berbere erano legate a forme di pastorizia nomade, dipendendo – per il trasporto e il commercio di prodotti alimentari e manufatti tra i vari centri e popoli del deserto – dai loro cammelli, o meglio dai loro dromedari (che comunque da queste parti tutti chiamano camél). A loro volta i vari clan, formati da famiglie tra loro imparentate, avevano l’abitudine di costruire delle abitazioni abitate tutto l’anno dalle donne, cui spettava il loro governo e la cura degli anziani e dei più piccoli. 7)
Ma, come dicevamo, le cose sono mutate anche qui; la disgregazione della cultura e dell’identità delle tribù berbere, la cui stessa sopravvivenza era stata minacciata in profondità dal colonialismo, ha subìto una ulteriore accelerazione dopo la dichiarazione di indipendenza della Tunisia, allorquando molti giovani, ormai anche in parte scolarizzati, hanno iniziato a spostarsi verso le città costiere (in particolare Tunisi, Sfax, Monastir o Sousse o verso l’isola di Djerba) o hanno cercato miglior fortuna nell’emigrazione al di là del Mediterraneo, con varie ondate in particolare verso la Francia, e ancor più di recente, dopo la crisi economica e l’esito della locale “primavera araba”, anche verso altri Paesi europei in maggioranza francofoni.

Tra gli ksour e le oasi attorno al Chott

Tutt’attorno a Matmata, e più a sud verso Medenine, sorgono ancora suggestivi villaggi amazigh, intervallati da una solenne immensità di sabbia, spezzata soltanto dalle palme che definiscono un orizzonte che sembra infinito. Qui, a causa delle altissime temperature estive, circa tre-quattrocento anni fa gli abitanti scavarono pozzi circolari nella roccia, ricavandone una sorta di terrazzamenti sui quali si affacciano ancora oggi una serie di cavità adibite ad abitazioni, alcune delle quali aperte al pubblico come una sorta di “museo diffuso”.

berberi amazigh Chott-el-Jerid
Medenine.

All’interno delle cavità, dove la temperatura è molto fresca anche quando fuori si raggiungono 50 °C, l’arredamento delle varie unità abitative è ridotto all’essenziale, ma non mancano almeno oggi la cucina e il bagno, oltre alla camera da letto e a quella degli immancabili bambini, con i letti sistemati su gradoni di roccia che li rialzano dal terreno. All’ingresso del terrazzamento sono visibili disegni rituali carichi di significati simbolici, come i pesci e le mani di Fatima, la figlia di Maometto, ritenuti validissimi talismani contro la sfortuna e le calamità. Ai giorni nostri poche case sono ancora regolarmente abitate, e prevalentemente d’estate, mentre in inverno gli abitanti si trasferiscono in ambienti moderni in pietra e mattoni posti a livello del terreno.
Non è difficile per i turisti che giungono da queste parti lasciando la costa (biker, camperisti o gruppi in tour organizzati) assistere al loro interno al rito del tè alla menta, gentilmente offerto da sorridenti donne in costume e con le mani dipinte di henné, la tipica tintura berbera usata su mani e piedi contro il malocchio. In realtà, in particolare da queste parti, la pratica del tatuaggio ha sempre svolto varie e diverse funzioni; se un tempo era sicuramente collegata a riti magico-religiosi, si pensa che a volte potesse avere una funzione medica o curativa, ben più di un semplice ruolo estetico come invece accade oggi.

berberi amazigh Chott-el-JeridOvviamente le credenze ancestrali legate al tatuaggio rimangono profondamente radicate nelle aree rurali e sono integrate nelle credenze e nei costumi amazigh, tanto che ancora oggi le donne a volte disegnano un punto o una croce sulla fronte dei loro figli usando la fuliggine per scongiurare la sfortuna quando temono qualche evento avverso; oppure, alla morte del marito si tatuano una sorta di pizzetto sul mento, mentre un tempo indossavano anche una catenina che univa le orecchie, a simboleggiare la barba del marito.
La vera differenza rispetto al passato è che oggi non sono più in uso tatuaggi indelebili, sotto pelle, poiché l’islam li vieta, e quindi la tradizione berbera viene tenuta in vita usando l’henné o la fuliggine per il disegno dei vari simboli sul volto o sulle mani.
Ma qui, nel grande sud tunisino dove comunque la cultura e le tradizioni amazigh riescono a sopravvivere ben più di quanto non ci riesca la loro lingua, è possibile rivivere anche nell’àmbito delle consuetudini quotidiane antichi rituali come quello della preparazione del cous-cous, ottenuto ancora macinando a mano il grano con una ruota di pietra posta orizzontalmente a livello del terreno. Poi, magari, si scopre che tutto è fatto per compiacere i presenti e facilitare qualche scatto fotografico più “esotico”, prima di consentire l’accesso alla casa accanto dove invece è allestito un negozio di souvenir o addirittura un cortile trasformato in un piccolo mercato di prodotti locali, e talvolta perfino un bar, una locanda, eccetera. E l’atmosfera che si pensava “genuina” si scioglie ed evapora come neve al sole…
Sempre a Matmata, comunque, è molto interessante la visita di una realtà museale già esistente, il Ksour Troglodyte Museum: si tratta di un bel museo delle tradizioni popolari che testimonia gli usi e i costumi delle popolazioni autoctone di etnia berbera, con particolare riferimento alla cerimonia del matrimonio che anticamente durava cinque giorni e che vedeva la sposa velata fino al quarto giorno, quando finalmente lo sposo poteva guardarla, talora per la prima volta, dato che la maggioranza dei matrimoni era decisa dai genitori senza che i futuri sposi si conoscessero.
A Matmata e nei dintorni vi sono anche diversi alberghi ricavati dalle antiche abitazioni scavate nella roccia, collegate tra loro da cunicoli sotterranei, come il Sidi Driss, che ha una particolarità in più: al suo interno sono state girate alcune scene della saga di Guerre Stellari, in particolare della prima spettacolare pellicola, come testimoniano alcuni pezzi della scenografia originaria lasciati appositamente come set naturale, in grado di far rivivere ai visitatori le suggestive atmosfere dei film di Lucas. Atmosfere rilevabili anche nel bar dell’albergo, costellato di immagini appese alle pareti ricavate da fotogrammi relativi ai mesi di lavorazione degli stessi film con le tante comparse trasformate in altrettanti alieni dalle fattezze strane provenienti da vari mondi. Rimane ancora allo stadio di progetto, tuttavia, l’idea di far diventare quest’angolo del deserto tunisino un luogo di “pellegrinaggio” per gli appassionati della saga di Guerre Stellari, che sono ancora numerosissimi: si parla da anni di realizzare qui un piccolo museo, e anche una rassegna cinematografica, ma finora non se n’è fatto niente.

berberi amazigh Chott-el-Jerid
La locanda di Guerre Stellari a Matmata.

Lo stesso vale per il vicino abitato di Medenine, un’ottantina di chilometri verso sud, grande città carovaniera che oggi conta più di sessantamila abitanti, raggiungibile con la C104, famosa per i suoi ksour, dove sono state girate alcune scene di altre pellicole della saga. Anche a Medenine si può visitare un interessante museo etnografico, dedicato ai costumi e alle tradizioni cittadine, ospitato all’interno dello storico Ksar Lobbeira, che espone una variegata collezione di costumi tradizionali, tra cui il jabba e il safsari, che riflettono l’identità amazigh della regione. In mostra vi sono oggetti di artigianato locale, come tessitura, ceramica, ricamo e gioielleria, mentre la vita quotidiana della popolazione è rappresentata attraverso l’esposizione di utensili da cucina e attrezzi agricoli.

L’onnipresenza del deserto

Ma da queste parti a farla da padrone, al di là dei centri abitati più o meno piccoli, come già accennavamo è sicuramente il deserto. Le sensazioni che la smisurata distesa di pietre e di sabbia color ocra, fine e impalpabile come borotalco, è in grado di suscitare non sono spiegabili a parole, ma sembra piuttosto che questa sterminata immensità sia in grado di espandere l’anima stessa di ciascuno di noi, rendendoci parte integrante della magia che ci circonda. Il deserto ti marchia dentro con caratteri di fuoco e non ti senti più la stessa persona, né ti sembra che potrai più esserlo, restando invischiato nelle banalità della vita di tutti i giorni. Qui è tutto così… fuori misura che senti Dio o Allah (comunque si voglia chiamarlo) così vicino che ti sembra quasi di poterlo toccare per condividere insieme un’esperienza così grandiosa.
La stessa C104 che da Matmata aveva condotto verso sud-ovest a Medenine, sempre tagliando in due il deserto per un centinaio di chilometri ma stavolta in direzione nord-est, collega Matmata a Douz. Soprattutto in questa direttrice, la strada, comunque meno “affollata” rispetto al precedente tratto, viene quotidianamente percorsa non solo da moderni veicoli, ma anche da diversi branchi di dromedari, del tutto incuranti dei veicoli a motore, che pigramente si muovono sia ai suoi margini sia all’interno della sua stessa carreggiata. È un’ulteriore emozione per gran parte dei turisti che si aggiunge alle altre emozioni scaturite da questo scenario unico, ben diverso da quello che possono offrire resort e hotel della costa, ormai lontana. Lungo la strada numerosi punti di ristoro costellano il tragitto, con le immancabili bancarelle di souvenir più o meno autentici e di valore.

berberi amazigh Chott-el-JeridDouz è uno dei punti di incontro delle varie realtà sociali tunisine, sia berbere sia arabe. La tribù amazigh locale, quella dei M’Razig, fino alla fine del ‘900 si divideva ancora tra nuove abitazioni residenziali e tende mobili. Il turismo qui è stato coltivato in tutti i modi appena varie opere di ingegneria hanno consentito di frenare la desertificazione incessante. È di pochi decenni l’arrivo da queste parti dell’energia elettrica e dell’acqua corrente, giunta quest’ultima grazie a opere di irrigazione realizzate canalizzando l’acqua degli uadi sotterranei, che ha portato anche a nuove superfici coltivate e una piantumazione continua di colture arboree, specialmente di alberi di palma da dattero.
Sono proprio le palme il simbolo del nuovo Grand Hotel Sahara Douz, con tanto di piscina e spa, il quale a sua volta è diventato il più importante testimone della nuova moderna cittadina, anche se ovviamente questa “modernità” ha snaturato nel profondo l’essenza stessa dell’antica oasi carovaniera. Numerosi sono adesso gli alberghi sia nell’abitato sia soprattutto nei dintorni, anche di categoria inferiore, né manca un campeggio-natura all’interno dell’ennesimo palmeto, anch’esso ai margini dell’abitato.
Sempre nelle vicinanze, decine di dromedari (e di cammellieri) sono pronti a far provare ai turisti l’esperienza di un’escursione nel deserto dove continue folate di sabbia oscurano l’orizzonte, portate a seconda dei casi dal simùn o dal ghibli, dal harmattan o dal khamsin, i principali venti sahariani che si intervallano nelle varie stagioni impedendo spesso di respirare se non ci si copre bene tutto il viso, mentre radi cespugli scandiscono uno spazio altrimenti incommensurabile. Qualche duna di sabbia protegge dalle folate di vento, che anche nelle giornate migliori si alzano improvvisamente annebbiando ogni prospettiva, mentre un fuoco di sterpaglie si accende per la preparazione dell’immancabile tè caldo servito con foglie di menta che ogni gruppetto di beduini che si rispetta prova a condividere con chiunque si avvicini a loro in segno di ospitalità e accoglienza.
Ma è possibile passeggiare anche tra le stradine del vecchio centro del villaggio, ormai trasformato quasi del tutto in un variopinto souk (in particolare il giovedì mattina, giorno di mercato) dove si possono ammirare e acquistare enormi rose del deserto (formazioni minerali a forma di petali di rosa che vengono estratte da apposite “miniere” scavate a diversi metri sotto il suolo del deserto), sia nel loro colore naturale sia modificate dalle tinture spray o dai bagni di colore che vengono ormai abitualmente usati per trasformare le concrezioni naturali in ceramiche variopinte. E poi ecco anche vasi, piatti e altre vere ceramiche dipinte a mano con disegni rituali e geometrici, stupendi gioielli berberi in argento e i famosi mergoum, tipici tappeti dai vividi colori a metà strada tra un kilim intrecciato e il classico tappeto annodato.
C’è da aggiungere che attorno a Douz ha luogo nel periodo di conclusione del ramadan (nel mese di dicembre) un famoso festival popolare dedicato al Sahara, che ha inizio con una spettacolare parata in abiti tradizionali dei M’Razig, a piedi o a dorso dei loro dromedari, cui segue un vasto programma di eventi suddiviso in quattro giornate caratterizzate da spettacoli folkloristici, incontri culturali e gare sportive, tra cui primeggiano le storiche corse dei dromedari e le esibizioni di cammellieri, anche se negli ultimi anni non sono mancate perfino le gare di poesia in lingua amazigh. È anche l’occasione (o, meglio, lo era davvero fino a pochi anni addietro) per combinare matrimoni tra i giovani delle varie famiglie o per celebrarli.
Con una trentina di chilometri da Douz, percorrendo una strada diretta, la C206, si può raggiungere Kébili. Un’alternativa ben più valida è però la C210, che raddoppia il tempo e il chilometraggio del percorso ma consente di lambire il grande palmeto di Zaafrane, il cui vecchio villaggio è uno spettacolo quasi unico perché appare oggi quasi del tutto insabbiato, tanto da essere noto come il “villaggio fantasma”.

berberi amazigh Chott-el-Jerid
Zaafrane.

Kébili, fin dai tempi della dominazione francese, era famosa come città militare poiché ospitava un’importante centro della Legione Straniera; ancora oggi è caratterizzata da molteplici edifici militari e pubblici e non appare particolarmente interessante dal punto di vista turistico, tanto che non merita quasi nemmeno una breve sosta. Ma è necessario passare comunque da qui perché proprio da Kébili ha inizio la P16, la strada che taglia a metà nel senso della lunghezza il Chott-el-Jerid.
Appena imboccata questa moderna strada – la quale, per quanto ben asfaltata, è spesso talmente coperta di sabbia a causa dei venti sahariani da dover essere percorsa facendo grande attenzione alle segnalazioni che la delimitano a intervalli regolari ai due lati – il primo villaggio che si incontra a meno di una decina chilometri è El Mansoura: poche case circondate da una superba oasi, un tempo famosa perché qui si svolgeva un importante mercato degli schiavi tra rappresentanti delle tribù berbere, mercanti arabi e intermediari europei, che poi smistavano i loro “acquisti” al di là del Mediterraneo e talvolta anche al di là dell’oceano. Questa è la ragione per cui ancora oggi da queste parti una parte della popolazione evidenzia con il colorito nero della pelle di non essere né berbera né araba, ma discendente di qualcuna delle varie etnie dell’Africa subsahariana da cui provenivano i giovani schiavi che poi venivano smerciati come animali per il mondo. 
Da questo momento la strada inizia a costeggiare, in un orizzonte completamente piatto, un continuo alternarsi di sabbia, saline e sterminate croste di fango che celano sabbie mobili e acqua salata fino a sette volte più di quella marina. Per circa 60 chilometri dopo El Mansoura non si incontra più nessun centro abitato e nessun segno di vita umana, se si escludono un paio di caffè sulla strada e poche bancarelle di souvenir posizionate in luoghi strategici dal punto di vista paesaggistico, una delle quali in prossimità della carcassa di un vecchio pullman finito insabbiato e abbandonato.

berberi amazigh Chott-el-JeridAl termine della strada si giunge quindi a Tozeur, che segna in un certo qual modo la linea di confine tra il mare di palme a nord e il mare di sale che madre natura ha creato a sud. Qui giunsero anche i romani, che nel 33 a.C. si insediarono facendone un avamposto militare col nome di Thusuros, da cui deriva l’attuale nome. Divenuta nel corso del tempo un grande snodo carovaniero, l’oasi originaria acquistò importanza sia per il commercio dei datteri sia – anche qui – per quello degli schiavi, tanto che l’abitato odierno è ormai divenuto una vera e propria città che conta più di trentamila residenti, attorniata da una delle più vaste oasi di tutto il nord-Africa: parliamo di oltre mille ettari di palmeto con oltre quattrocentomila alberi alimentata da ben duecento sorgenti sotterranee, tanto che qualcuna è stata utilizzata, nella costruzione di uno degli ultimi grandi alberghi attorno alla città (il Ksar Rouge), per realizzare perfino un verde campo da golf a diciotto buche.
Ben poche sono le vestigia rimaste dell’antichità, anche se nel cuore di Tozeur si possono ammirare alcune antiche abitazioni famose per le facciate decorate con incastri geometrici di mattoni di diverso colore e dal piacevolissimo effetto, visibili soltanto in questa zona della Tunisia. La maggior parte di esse si trovano nell’antico quartiere di Ouled el-Hadef, che ospita la vecchia medina della città, ancora circondata da mura e quindi non molto estesa rispetto a quelle di altre città più moderne, caratterizzata a sua volta da alcune strade coperte, piccoli cortili e slarghi, su cui si affacciano i vari negozi del souk e alcuni storici caffè.
In città, da visitare sono poi la moschea di al-Kasr, vicino a Bled al-Haddar, all’interno della quale fu inglobata all’atto della sua costruzione una precedente chiesetta cristiana, e la settecentesca grande moschea di Sidi Lakhdar Ben Abu Taleb, nel quartiere di Al-Jazzarin, caratterizzata dalle sue colonne di marmo ricurve con stupendi capitelli scolpiti e dagli splendidi intagli lignei del minbar.
Merita una visita anche lo splendido museo delle Tradizioni Popolari, ospitato all’interno della Koubba di Sidi bou Aissa, nelle cui sale sono state ricostruiti ambienti e scene di vita sociale e domestica delle tribù delle regioni predesertiche, come il matrimonio, con una sala dedicata alla camera della sposa, o come l’hammam. Vi sono poi ambienti in cui è possibile vedere il rituale dell’hennè, la stanza del Bey (cioè dei notabili) e perfino una sala in cui è stata ricostruita una medersa, cioè una scuola coranica. Il museo ospita una collezione di gioielli e ceramiche berbere, nonché argenti, lampade, vasi e altri oggetti di vetro soffiato a bocca.
In prossimità dell’abitato si trova lo “Zoo del deserto”, che ospita dromedari, volpi del deserto, scorpioni, vipere e moltissime specie animali originarie di queste latitudini. Adiacente a esso è il Giardino del Paradiso, una lussureggiante porzione di oasi (che in totale occupa, come già detto circa mille ettari) in cui si susseguono palme, alberi da frutto e fiori su tre diversi livelli, secondo l’uso specifico delle oasi per cui le palme ombreggiano gli ulivi e i fichi che, a loro volta, fanno ombra alle rose e ai prodotti dell’orto. L’effetto è proprio da paradiso terrestre e sembra quasi impossibile accettare l’idea che a distanza di qualche chilometro si stenda l’assoluta immensità del deserto e del nulla. Eppure è così.
Vicina alla città, raggiungibile percorrendo per una trentina di chilometri una strada panoramica  che domina dall’alto il chott, è l’oasi di Nefta, cuore della tribù amazigh dei Nefzaoua, che a sua volta dista un’altra trentina di chilometri dal confine con l’Algeria. Qui sono ospitate più di quattrocentomila palme che ricavano l’acqua da alcune sorgenti d’acqua dolce sotterranee.

berberi amazigh Chott-el-Jerid
L’oasi di Nefta.

Da uno spettacolare belvedere, la Corbeille, si può assistere a un magnifico panorama sui palmeti e sulle sorgenti d’acqua dolce che si stagliano nettamente sullo scenario color ocra che le circonda. È davvero impressionante vedere il deserto che si allunga ovunque, interrotto improvvisamente da macchie verdissime di palmeti che sembrano sorgere dal nulla come per magia e da piscine azzurre ricolme d’acqua provenienti dalle sorgenti. L’area è anche luogo di raduno di numerose mandrie di dromedari che pascolano un po’ dappertutto, mentre qua e là vari gruppi di ragazzi presidiano delle bancarelle spesso piene di paccottiglia dove sono in mostra tuttavia anche autentiche rose del deserto di ogni dimensione.

berberi amazigh Chott-el-Jerid
Nefta: il marabout di Sidi Bou Ali.

Ma la cittadina ha anche una grande valenza storico-culturale dal punto di vista religioso, perché è stata un centro del sufismo, una corrente mistica della religione musulmana. Numerose sono le moschee (addirittura una ventina) dell’abitato, tra cui la cinquecentesca moschea Sidi Salem, ma della sacralità del luogo sono altri muti testimoni anche alcuni marabout (una novantina) sparsi tutt’attorno al centro e, in particolare, all’interno del palmeto: si tratta di sacelli di religiosi e asceti musulmani che qui hanno vissuto in preghiera, divenuti meta di pellegrinaggi da parte di fedeli islamici, il più importante dei quali è quello di Sidi bou Alì, vissuto nel XIII secolo, divenuto patrono di Nefta e venerato in tutta la Tunisia.
A nord-ovest rispetto a Tozeur è sempre la P16 che conduce a Chebika, un’altra delle oasi più affascinanti della regione, con al centro un villaggio ormai abbandonato aggrappato alla montagna sovrastante in uno scenario di grande fascino sul quale spiccano le cupole verdi dei marabutti, le tombe degli uomini pii, incorniciate dal verde intenso delle palme. Qui sorgeva la colonia romana di Ad Speculum, nata grazie alle vicine sorgenti d’acqua calda che sgorgano dal sottosuolo e che risalgono fino a una cascatella molto suggestiva che nasce dalle profondità del Sahara e sembra improvvisamente spuntare direttamente dalla montagna.
Una seconda oasi della zona è quella di Tamerza (o Tameghza), poco prima della quale vi è una superba cascata che serve a irrigare l’oasi. Sono quasi da cardiopalmo anche gli scenari relativi agli incredibili strapiombi visibili dalla strada che danno origine a grandiosi canyon color ocra, completamente brulli e privi di ogni sia pur minima traccia di vegetazione. Anche a Tamerza il villaggio è stato abbandonato e le case costruite in terra argillosa mista a sassi e paglia danno l’effetto di una città fantasma, in cui il silenzio innaturale è spezzato soltanto dall’urlo continuo del vento.
Ancora oltre, quasi al confine con l’Algeria, di cui si intravede la postazione di frontiera, si innalza Mides, l’ultima oasi di montagna ancora in territorio tunisino. Anche qui si trovano valloni spettacolari caratterizzati da canyon color ocra, intervallati da ciuffi di palme che sembrano venir fuori tra le fenditure delle rocce. A un certo punto appare il villaggio fantasma, abbandonato a fine ‘800 in seguito a un terremoto, le cui rovine appaiono sospese in una splendida scenografia, grazie ai profondi burroni dalle pareti verticali che la incorniciano al centro di un oceano di sabbia, mentre tantissima impalpabile sabbia si solleva a ogni alito di vento in nuvole che poi ricadono silenziose nella distesa sterminata. Sulle rocce sono evidenti anche alcune conchiglie fossili risalenti al neolitico, quando qui giungeva il mare, oggi distante almeno 250 chilometri dalla costa settentrionale della Tunisia, mentre un mercato all’ingrosso raduna contadini e commercianti di datteri in cerca di turisti desiderosi di portarsi via un ultimo ricordo del deserto del Sahara e delle sue oasi.
Tra queste oasi, per quanta acqua ci sia, a fare da protagonista rimane il deserto: del Mediterraneo non c’è alcuna traccia e Tunisi, con il suo aeroporto internazionale e il porto della Golette (dove ogni giorno approdano navi da crociera e traghetti da e per l’Italia e la Francia), dista circa 450 chilometri. All’orizzonte appaiono, come accennavamo, le postazione di confine: l’Algeria è proprio vicina, ma si tratta di un altro Stato del Maghreb, anche se per gli amazigh quello rimane sempre un unico e indivisibile territorio: il loro.

berberi amazigh Chott-el-Jerid
Un angolo della medina di Tozeur.

 

N O T E

1) Cfr. Gli amazigh del nord-Africa. Geografia, storia e realtà attuale”, da “Dialoghi mediterranei” n.69, settembre 2024.
2) Ibidem.
3) Cfr. sull’argomento: Ahmed Boukous, Le berbère en Tunise, in “Etudes et Documents Berbères” n° 4, 1988.
4) Il Nordafrica e i Nordafricani, Milano 2010.
5) Karim Metref, op. cit.
6) Soumaya Bourougaaoui, L’emarginazione della lingua e della cultura amazigh in Tunisia, “Etnie”, maggio 2021.
7) Con la sola eccezione dei tuareg – altro popolo berbero di tradizione nomade insediato più a sud, nel Sahara centrale, che si auto-denomina “amacegh”, legato a una concezione matrilineare della società – il resto delle tribù berbere sono sempre state caratterizzate da una cultura patrilineare e patrisociale.