Le neuroscienze ci aiutano a capire come si sviluppa fin dalla nascita il senso di appartenenza al proprio gruppo umano.
Per ciascuno di noi, il rapporto sociale e affettivo parte da un punto centrale – la nostra individualità – e si irradia in cerchi concentrici verso l’esterno, comprendendo un numero sempre maggiore di persone con le quali abbiamo un’empatia di intensità a mano a mano più debole. Né potrebbe essere altrimenti, perché l’uomo non ha infinite capacità di solidarizzare con tutti i suoi simili. Ecco quindi un legame potente con i propri genitori e poi con i familiari, che va attenuandosi con gli amici, i vicini, gli abitanti del proprio centro urbano, e poi, allargandosi verso i cerchi esterni, con i componenti della regione, dell’etnia, dello stato, del gruppo umano, dell’umanità intera.
Tuttavia si tende a pensare che il senso di appartenenza a una determinata comunità etnica sia una caratteristica degli adulti, qualcosa di totalmente estraneo alla natura di un bambino, il quale non conosce differenze negli esseri umani se non quando i grandi lo “indottrinano” con i loro insegnamenti. Come se l’unico legame possibile, alla nascita, fosse quello con la persona che lo ha portato in grembo. Ma non è del tutto così. Le ricerche più recenti ci raccontano che, proprio attraverso la mamma, penetrano nel bambino una serie di input che in qualche modo sembrano predisporlo a una cultura, a una tradizione, a una lingua.
I tratti del volto
Il bimbo viene al mondo con l’“idea” della faccia e degli occhi, ossia i principali strumenti di contatto e scambio per allacciare una relazione con i propri simili.
“Dei vari aspetti della realtà attorno a lui, il volto è quello che preferisce in assoluto”, conferma lo psicobiologo Cosimo Urgesi. “E per catturare la sua attenzione basta un semplice cerchio con due puntini al centro.”
Questo fondamentale elemento di comunicazione è notevolmente influenzato dalle caratteristiche morfologiche dei vari gruppi umani. Spesso commentiamo che “i cinesi sembrano tutti uguali” (ben sapendo che gli orientali dicono esattamente la stessa cosa di noi), magari pensando che sia un modo un po’ irriverente di prenderci in giro a vicenda, ma si tratta invece di un fenomeno reale, conosciuto come “deficit di riconoscimento interrazziale”. In una ricerca della Kent State University, pubblicato nel 2001 dalla rivista dell’Associazione americana degli psicologi, due gruppi di studenti bianchi e neri sono stati analizzati mentre cercavano di riconoscere i soggetti appartenenti alla squadra di “colore” diverso. Si è così scoperto che tutti noi, prima ancora di concentrarci sulle caratteristiche individuali del nostro interlocutore (colore degli occhi, forma del naso, baffi, eccetera), badiamo all’appartenenza razziale, perdendoci in parte il resto dei particolari.
Etnologi… a 3 mesi
Si è ipotizzato che questo modo di classificare per gruppi umani sia proprio degli adulti e dell’essere cresciuti all’interno di una comunità (questione di abitudine, dunque), ma ulteriori ricerche hanno chiarito che si tratta di una tendenza precocissima. Nel 2004 un’equipe di studiosi dell’università parigina René Descartes ha analizzato due gruppi di bebè, europei e asiatici, di appena 3 mesi, ossia l’età in cui un bambino sviluppa la competenza a distinguere le facce. Di nuovo si è registrata una maggiore capacità di riconoscimento all’interno della propria comunità umana.
Un’altra ricerca israeliana, condotta dall’Adler center for child welfare, sempre con gruppi di diversa provenienza, ha osservato che i neonati “preferiscono” i volti del proprio colore (così come prediligono le fattezze materne a quelle meno conosciute).
Tutti questi studi, tuttavia, hanno messo in rilievo un altro elemento comune: la duttilità infantile ha spesso la meglio sulle tendenze innate. Infatti, i bimbi affinano notevolmente la capacità di riconoscere volti di un’altra razza dopo aver frequentato per qualche tempo quella comunità.
Poliglotti in erba
I neonati hanno anche una preferenza per la loro lingua nativa, un aspetto già messo in chiaro negli anni ’80 da una ricerca francese: ad appena 4 giorni dalla nascita, i bebè mostravano di gradire molto di più le favole lette nella parlata d’oltralpe che in russo.
“In effetti, il bimbo ha gusti etnici precisi”, spiega Franco Fabbro, uno dei massimi studiosi al mondo di neurolinguistica infantile. “Preferisce ascoltare il proprio idioma, seguito da quelli appartenenti al suo stesso gruppo linguistico (neolatino, germanico, slavo, eccetera).”
Il gradimento per le proprie… radici letterarie, tuttavia, si accompagna a una capacità incredibile di “analizzare” tutte le parlate dell’umanità.
“Dalla nascita fino a 8 o 9 mesi, qualsiasi bambino riesce a distinguere non soltanto sillabe differenti, ma le più lievi variazioni di pronuncia degli stessi suoni”, racconta Fabbro. “Misurando l’attività elettrica del suo cervello durante l’ascolto, possiamo osservare che un neonato italiano discrimina, per esempio, la decina di sfumature che contraddistingue la pronuncia delle vocali inglesi. Dopo l’anno questa eccezionale attitudine comincia a scomparire, e mentre il piccolo impara la propria lingua va perdendo la capacità di analizzare finemente i suoni stranieri.”
Piangere in tedesco
I neonati non si limitano a soddisfare il loro senso di appartenenza linguistica ascoltando, ma anche esprimendosi. E, non essendo in grado di parlare, lo fanno… piangendo.
Lo scorso anno, l’antropologa tedesca Kathleen Wermke ha pubblicato un’interessante ricerca svolta presso l’università di Würzburg. Gli studiosi della sua equipe hanno selezionato due gruppi di bambini tra i 2 e i 5 giorni, 30 francesi e 30 tedeschi, registrando poi i loro pianti per migliaia di volte. Analizzando i tracciati digitali di ciascuna vocalizzazione (quella cioè prodotta in un singolo respiro), si è visto che i piccoli francesi partono da un tono basso che va crescendo, i tedeschi da uno acuto che diventa grave. La stessa intonazione degli adulti appartenenti ai due gruppi linguistici! Kathleen Wermke è convinta che analoghe differenze si possano riscontrare anche a livello di parlate regionali.
Per diventare cittadini del mondo
Ovviamente questa predisposizione non è genetica (come probabilmente non lo sono le “preferenze” etniche di cui abbiamo parlato prima): i bambini dell’esperimento di Würzburg avevano ascoltato la mamma parlare durante l’ultimo trimestre di gravidanza, imparando così l’andamento melodico della propria lingua già dal pancione.
“In definitiva abbiamo sviluppato queste tendenze etnolinguistiche precoci come strumenti per vivere meglio all’interno della nostra realtà umana”, conclude Cosimo Urgesi. “Il bambino, però, possiede in potenza una fortissima apertura al riconoscimento delle diversità e all’accettazione degli ambienti più disparati. La percezione del proprio gruppo non è che il primo gradino per entrare a far parte di una famiglia più grande: la specie umana.”
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I colori dell’umanità
Anche nel modo di raffigurare la realtà esistono differenze tra i bambini appartenenti a culture diverse. Per esempio, analizzando i disegni di europei e giapponesi si è notato che la percezione del rapporto figura-sfondo è inversa. Quando noi osserviamo una scena, per distinguere gli oggetti organizziamo una parte del campo visivo come figura in primo piano, spostando tutto il resto in secondo piano. Ebbene, i piccoli europei effettuano per prima questa operazione, mentre i loro coetanei orientali mettono a fuoco iniziando dallo sfondo.
Il frequente ricorso al disegno nella psicoterapia con i bimbi adottati ha messo in luce anche alcune costanti etniche per quanto riguarda l’utilizzo del colore. “Talvolta questi piccini arrivano in Italia in età tenerissima”, racconta lo psicanalista Marco Lodi, “quando ancora non è iniziato l’apprendimento del linguaggio. Eppure mostrano già stili di colorazione che li ricollegano alla cultura dei loro Paesi d’origine.”
Lodi ricorda un gruppo di tre disegni eseguiti da altrettanti bambini: il primo dalle tinte vivide e allegre, il secondo molto vivace ma raffigurante una sparatoria, il terzo in bianco e nero con figure umane magrissime e altissime. “Si trattava di piccolo indiano (proveniente da una comunità tendenzialmente gioiosa), di un centroamericano (dove le famiglie sono numerose e abbastanza presenti, ma la società può essere violenta) e di una russa (i bambini slavi, provenienti spesso da istituti, tendono a esprimere un senso di malinconia).
Essendo scelte legate alla percezione, non è neppure pensabile che questi stili espressivi abbiano origini prenatali”, conclude lo psicanalista, “ma di sicuro sono incredibilmente precoci.”
Consulenze di
Franco Fabbro, professore ordinario di Neuropsichiatria infantile all’Università di Udine; responsabile dell’unità di Neurolinguistica presso l’IRCCS E. Medea.
Marco Lodi, psicanalista a Mantova.
Cosimo Urgesi, docente di Psicobiologia all’Università di Udine; consulente per la ricerca in neuropsicologia dell’IRCCS E. Medea.