Eoghain O’Neill, direttore della rivista in gaelico LA pubblicata a Belfast, ha tenuto un ciclo di conferenze-dibattito (anche in Italia) per “informare l’opinione pubblica sulla situazione culturale nella cosiddetta Irlanda del Nord occupata dai britannici”. Naturalmente, dato che da molti anni si occupa di politica, nel suo intervento non mancano considerazioni politiche. Per il futuro O’Neill ritiene che “occorre essere realisti… credo che ci sarà altra violenza ma forse, nel giro di qualche anno, le cose potranno cambiare. Questo perché, nonostante tutto quello che è poi accaduto [rottura della tregua, ripresa delle uccisioni settarie, NdR], i periodi di tregua hanno permesso di definire quale sia la strategia per una pace giusta. A mio avviso le formazioni armate – IRA e INLA per la parte repubblicana – smetteranno definitivamente di combattere se il governo inglese si impegnerà veramente a risolvere in modo definitivo la questione della discriminazione. Non bisogna dimenticare che entrambe le parti sanno di non poter vincere con la violenza.
Credo che in futuro assisteremo a un progressivo disimpegno militare; penso a quanto è avvenuto in questi ultimi anni in Sudafrica…”.
Di che considerazione gode, da parte della autorità, la lingua irlandese nelle “Sei Contee”?
Nelle sei contee convivono due comunità, una delle quali si considera irlandese mentre l’altra si considera britannica. Negli oltre settant’anni di vita dell’Irlanda del Nord l’identità e la cultura irlandese non sono mai state riconosciute. Tantomeno sono stati stanziati fondi per tutelarle. Per la cultura irlandese non ci sono finanziamenti governativi; non esistono giornali o canali televisivi in lingua irlandese. Non si può nemmeno dare a una strada il nome in gaelico, anche se, bisogna dire, questo decreto non viene molto rispettato e attualmente molte strade di Belfast hanno il nome in gaelico. Sostanzialmente l’irlandese viene considerato una non-lingua. Se fate la domanda per la patente trovate la domanda in dodici lingue ma non in irlandese.
Come si collega questa discriminazione culturale alla repressione e all’occupazione militare britannica? Che influenze avevano avuto le tregue e i negoziati?
Esiste una relazione precisa tra la discriminazione culturale subita dal 45% della popolazione che si considera irlandese e la repressione: non è possibile rendersi conto dell’una senza comprendere l’altra. Con i “cessate il fuoco” decretati dall’IRA [il primo ancora nel 1994, NdR] si era creato un certo ottimismo dato che erano la condizione indispensabile per far sedere i rappresentanti del Sinn Féin al tavolo dei negoziati. Questo rimane l’unico modo per affrontare le cause e risolvere i problemi.
Come si manifesta questa discriminazione, nei confronti dei cattolici, nella vita di tutti i giorni?
Come ho detto il 45% degli abitanti dell’Irlanda del Nord si considera irlandese e proprio per questo viene discriminato. Questo avviene non solo sul piano strettamente culturale, ma anche a livello economico, sociale, politico. Dal 1921 non c’è statistica sulla disoccupazione che non evidenzi come il maggior numero dei senza lavoro si trovi tra i cattolici. Lo stesso governo inglese ha ammesso che “un cattolico ha due possibilità e mezza in più di restare disoccupato”. Esistono apposite istituzioni per controllare la disoccupazione a scapito dei cattolici. Altra conseguenza della discriminazione: il 93% delle forze di sicurezza è costituita da unionisti protestanti. È evidente che qualsiasi soluzione politica deve superare sia l’attuale discriminazione economica che portare a una radicale ristrutturazione delle forze di sicurezza, per creare un corpo di polizia accettato da entrambe le comunità.
Non ricordo di aver mai visto quella spilla che porta sulla giacca. Ha qualche significato particolare?
È una testimonianza di come la lingua irlandese sia stata discriminata. Nel secolo scorso a ogni ragazzo proveniente da famiglie che parlavano gaelico gli insegnanti appendevano al collo una specie di bastoncino. A scuola, tutte le volte che usava questa lingua proibita, mettevano un segno sul bastoncino. Quando era interamente ricoperto, i suoi genitori dovevano picchiarlo tante volte quanti erano i segni riportati. La lingua irlandese era vista come un elemento ostile, da estirpare. Naturalmente questa “politica culturale” ha indirettamente favorito lo sviluppo di un senso di identità separato e antagonista rispetto a quello britannico.
A proposito di istituzioni scolastiche: anche lei opera in una scuola un po’ particolare…
Lavoro in un centro culturale dove esiste anche una scuola per ragazzi dai sei ai sedici anni, praticamente tutta la fascia dell’obbligo. L’intero insegnamento è in gaelico; se fosse in inglese la scuola riceverebbe due milioni di sterline all’anno. Invece per la nostra scuola, negli ultimi cinque anni, il governo non ha sborsato una sola sterlina: genitori e ragazzi hanno organizzato collette, varie iniziative di autofinanziamento, raccolta fondi… e siamo sopravvissuti.
Altri aspetti della repressione culturale?
Un altro aspetto della repressione culturale consiste nel vietare tutti i simboli della cultura e dell’identità irlandese, come per esempio la bandiera, in base a una legge degli anni Cinquanta. Non dimentichiamo poi che più di trecento civili sono stati uccisi in questi anni dai militari e nessun soldato è stato condannato. Il conflitto nasce e deriva da tutte queste forme di discriminazione.
Che ruolo ha in tutto questo l’IRA? Cosa può dirci sulle sue sospensioni delle azioni armate (in particolare quella definita “storica” del ‘94 che ha aperto la strada ai colloqui di pace)? Ci sono stati dei precedenti?
L’IRA vuole prima di tutto difendere la comunità irlandese. La decisione del 31 agosto 1994, il primo cessate il fuoco, derivava dalla consapevolezza (o forse dalla speranza) che gli interessi e l’identità irlandese potessero essere adeguatamente difesi anche con mezzi non militari. Bisogna ricordare che quella che chiamo “strategia di pace” era cominciata nell’81, con lo sciopero della fame di Bobby Sands e dei suoi nove compagni. La morte dei dieci militanti dell’IRA e dell’INLA convinse i nazionalisti che: 1) era necessario internazionalizzare la questione irlandese; 2) era necessario sviluppare una strategia politica per affrontare le cause del conflitto.
Dopo la morte dei dieci prigionieri di guerra molte persone votarono per il Sinn Féin che, verso la metà degli anni Ottanta, cominciò a sviluppare una sua identità, in parte separata da quella dell’IRA. Alla fine degli anni Ottanta il movimento repubblicano si convinse che non era possibile sconfiggere militarmente gli inglesi. Contemporaneamente il governo di Sua Maestà aveva raggiunto la stessa convinzione, cioè che non era possibile sconfiggere militarmente l’IRA. In quel periodo cominciarono trattative segrete, favorite anche dalla fine della Guerra Fredda. Fino a quel momento gli interessi degli inglesi erano principalmente strategici: avere il controllo dell’Irlanda del Nord vuol dire controllare l’Atlantico del Nord (soprattutto grazie ai sommergibili). Con la fine della Guerra Fredda il peso strategico dell’Irlanda del Nord sembra essere diminuito. Inoltre, con lo sviluppo dell’Unità Europea, per la Gran Bretagna diventava sempre più difficile rivendicare la sovranità sull’Irlanda del Nord.
Con queste premesse si era arrivati al cessate il fuoco del ‘94 nella speranza che il governo inglese riconoscesse di essere la causa principale delle ingiustizie subite dalla comunità cattolica. Come è noto, il governo ha invece continuato a dire che era l’IRA la causa delle sofferenze patite dalla comunità cattolica. In questo modo ha reso evidenti quali fossero le sue reali intenzioni: riformare lo stato delle sei contee dopo aver sconfitto l’IRA (disarmandola e disarticolandola). Cioè fare esattamente quello che non era riuscito a ottenere sul campo. È significativo che anche durante i periodi di tregua non sia stato fatto quasi niente per risolvere i problemi della nostra comunità. Si voleva confermare la tesi inglese per cui se l’IRA smette di combattere, tutti i problemi sono risolti, far credere all’opinione pubblica che l’unico problema è quello della lotta armata. Ovviamente le cose non stanno così.