Volenti o nolenti abbiamo un debito storico con il popolo catalano. Quel processo di autoassoluzione collettiva (il mito degli “Italiani brava gente”) che lasciò ai tedeschi la titolarità quasi esclusiva del ruolo di carnefici, non ha occultato soltanto lo sterminio delle popolazioni di Slovenia, Croazia, Libia, Etiopia… ma anche i sanguinosi bombardamenti sulla Catalogna operati dall’aviazione di Mussolini. Mentre è giustamente nota la tragedia della cittadina basca Gernika colpita nell’aprile 1937 dall’aviazione nazista (ma si dimentica che il primo mitragliamento contro la folla radunata nella piazza del mercato fu opera dei Savoia-Marchetti), le bombe italiane su Barcellona e dintorni (Granollers venne chiamato “l’altra Gernika”) sono state rimosse dalla memoria collettiva per lunghi anni. Per lo meno dalla storiografia italiana. Ancora una volta “il boia è rimasto nell’ombra, ma le vittime sanguinano in piena luce”. La capitale catalana venne sottoposta a una serie di attacchi iniziati il 13 febbraio 1937 (Durango e Gernika colpite in aprile) che raggiunsero la massima intensità tra il 16 e il 18 marzo 1938. In quelle 41 ore di bombardamenti continui e di mitragliamenti a bassa quota, i morti accertati furono più di tremila, in gran parte bambini (come documentano le immagini di Quan piovien bombes, una mostra itinerante del 2007). Fu l’ulteriore, devastante contributo di Mussolini, le cui camicie nere erano state umiliate dai Repubblicani a Guadalajara, alla crociata di Franco contro una roccaforte dell’indipendentismo e dell’anarchismo.
Ecco allora una breve intervista ad Anna Arqué, esponente di European Partnership for Independence.
Dovendo riassumere le fasi politiche più salienti dell’ultimo decennio nei Paisos Catalans, quali ritiene più significative in una prospettiva di autodeterminazione?
Riassumendo, nel 2005 il Parlamento Catalano approva un nuovo Estatut (Statuto) per Catalunya. Ma lo Stato spagnolo lo riduce e ridimensiona al punto di farne scomparire ogni contenuto politico fondamentale. Questo vero e proprio attacco all’Estatut (già approvato nel giugno 2006 con un referendum popolare) smaschera definitivamente la falsa idea che la nazione catalana potesse progredire all’interno dello Stato spagnolo. Tale atteggiamento di indifferenza per una decisione sovrana del popolo catalano ha determinato un soprassalto della coscienza sociale nei confronti del quadro politico spagnolo. Ancora una volta i cittadini ebbero la possibilità di vedere con chiarezza come l’apparato statale sia lo specchio di una sola volontà politica, quella della nazione spagnola. Verificarono con mano che la Sovranità catalana è sottoposta a quella spagnola-statale e che esistono interessi nazionali opposti tra due popoli diversi. Da qui la necessità per Catalunya di conquistare un proprio stato indipendente.
La decisione del Tribunal Constitucional Espanyol arriva nel 2010, proprio nel mezzo del più significativo processo socio-politico a favore dell’autodeterminazione: “La Consulta popular sobre la Indipendència” (2009-2011).
Questo processo consente ai cittadini di organizzare in più di 550 municipi del Principat un referendum per votare SI o NO in merito all’indipendenza. La Consulta diviene un punto di incontro, di dibattito e di auto-riconoscimento popolare, trasversale, a cui partecipano persone di ogni strato sociale, ideologicamente variegato e plurigenerazionale. Ne sono coinvolte molte persone “non-militanti” così come altre impegnate politicamente, sia di sinistra sia di destra, tutti a favore del Diritto Universale all’Autodeterminazione. I giovani attingono all’esperienza dei più anziani portando in cambio speranza ed entusiasmo. In questo contesto favorevole la gente può esprimere il proprio sostegno all’indipendenza, scoprire di essere maggioranza. Soprattutto comprendere che quel sogno personale, intimo di libertà è anche una volontà collettiva, determinata e possibile. La Consulta popolare (1.000.000 di voti, più di 60.000 volontari, migliaia di iniziative pubbliche…) rende la parola indipendenza di uso quotidiano, diffusa a livello popolare. Le stesse inchieste ufficiali confermano l’esistenza di una larga maggioranza favorevole all’indipendenza. Grazie a tale de-condizionamento, le strade di Barcellona si sono riempite di centinaia di migliaia di catalani con un solo grido: Independència! In particolare con le grandiose manifestazioni del giugno del 2010 e nell’ultima giornata Nazionale di Catalunya, l’11 settembre 2011. La mobilitazione sociale è la protagonista politica di questo processo di autodeterminazione che porta avanti un processo indipendentista.
Quali realtà, a livello europeo, ritiene più vicine, simili a quella catalana (Scozia, Paesi Baschi, Corsica…)?
Non è facile stabilire a quale progetto indipendentista siamo “più simili” in quanto condividiamo aspetti con tutti quelli ricordati. Così come viene spontaneo collegare la perdita dell’indipendenza nel 1707 da parte della Scozia all’analoga esperienza catalana del 1714, è scontato stabilire un’analogia tra il referendum previsto in Scozia per il 2014 e quello catalano.
Ai baschi ci unisce il fatto di subire le stesse difficoltà rispetto allo Stato spagnolo. Più recentemente abbiamo conosciuto le molte somiglianze con il Veneto: una lingua e una storia diplomatica e commerciale molto simili, senza dimenticare la spoliazione economica che entrambi subiamo, hanno contribuito alla nascita di sentimenti fraterni. Non esistono protocolli internazionali per indicare i passi da compiere affinché tali processi giungano alla dichiarazione di indipendenza. La forza per compiere questo passo va trovata in noi stessi, nelle nostre nazioni. Questo è un altro elemento che ci unisce perché tutti noi possediamo questa energia. Dobbiamo soltanto dare uno sbocco politico, spiegando che è possibile, giusto e positivo per tutti, Europa compresa perché le nostre indipendenze non sono contro altri popoli, ma a favore dei nostri, della democrazia e del progresso.
Come giudica la recente legalizzazione dell’Izquierda Abertzale basca e il processo che dovrebbe consentire una soluzione politica del conflitto in Euskal Herria?
La legalizzazione della sinistra abertzale rappresenta un atto di giustizia per ristabilire diritti democratici elementari. È la doverosa correzione di una situazione che non avrebbe mai dovuto esistere. Una lotta democratica richiede strumenti democratici per raggiungere un dato obiettivo politico, in questo caso l’indipendenza (e pari opportunità rispetto ai partiti di diversa opinione). Fino a oggi il processo di pace in E.H. è stato un processo unilaterale, tutte le iniziative provengono da una parte sola, quella dei baschi, ai quali esprimiamo solidarietà e incoraggiamento per la loro lotta democratica.
Ci può dire quale è stato negli ultimi anni il ruolo di Esquerra Republicana de Catalunya? E di Josep Lluis Carod Rovira in particolare?
Nel 1989 ERC si dichiara apertamente indipendentista, un avvenimento importante per organizzare l’opposizione politica di un nazionalismo catalano che dagli inizi della transizione spagnola (il “dopo-Franco”) cercava l’incastro di Catalunya con lo Stato spagnolo. Il documento di ERC del 2003 è la chiave per un possibile cambio di governo in alternativa a Convergència i Uniò al potere da 23 anni. Con ERC al governo, insieme ai socialisti catalani e Iniciativa els Verds, comincia il processo di cambiamento dell’Estatut de Catalunya che il presidente Maragall desiderava, ma che con Pujol al potere non era mai stato avviato. Dare inizio al processo dell’Estatut è stato fondamentale per mettere fine alla farsa dell’autogoverno catalano. Ha finalmente consentito alla società catalana di prendere coscienza che le Istituzioni Catalane, governo e parlamento, attualmente autonomistiche, non sono sovrane e non hanno la capacità politica per esserlo in quanto sottoposte alla volontà della Spagna, alla sua intransigenza e al suo deficit democratico.
Nell’azione di Josep Lluis Carod Rovira, è stato prioritario rendere popolare il discorso indipendentista tra i cittadini catalani arrivati da altre terre. Il periodo della sua leadership coincide con una fase di rafforzamento del nazionalismo spagnolo alimentato dal presidente Josè Maria Aznar; un duro confronto che porterà ERC a ottenere il suo miglior risultato elettorale con 23 deputati al Parlamento Catalano. Durante il secondo tripartito, con i socialisti catalani e gli ecologisti, ERC ha attraversato una crisi dovuta alle varie correnti interne, critiche nei confronti della strategia politica, con fuoruscite dal partito e la nascita di nuove formazioni.
Nel 2010, la concorrenza elettorale tra diverse formazioni della sinistra indipendentista porterà ERC a perdere una decina di deputati, una situazione che ha reso necessario un cambio sia di leadership sia di strategia. Oggi ERC è presente nel parlamento con 21 deputati e manifesta una tendenza alla crescita. Il suo presidente Oriol Junqueras, stando ai sondaggi, è il politico catalano più apprezzato, grazie alle sue decise prese di posizione sull’indipendenza.
È già possibile definire alcuni possibili scenari futuri attraverso cui i PP.CC. potranno conquistare l’indipendenza (referendum, lotte popolari, eccetera)?
La nazione catalana raggiungerà l’indipendenza politica in tempi differenti a seconda dei territori in quanto la situazione di occupazione dei Paisos Catalans, da parte di Spagna e Francia, costringe a ritmi diversi. La via del referendum è la più democratica, chiara e sovrana perché chiede direttamente ai cittadini, i soli depositari della sovranità nazionale, di pronunciarsi in merito alla statuto politico voluto dalla collettività attraverso un processo legittimato internazionalmente. I Principatins (Catalunya Nord, Pais Valencià, Balears, Franja e Alguer) sono divisi dal resto dei catalani per decisioni estranee ai diretti interessati. Siamo nel secolo XXI e le pallottole ormai sono state sostituite dai voti; quindi sarebbe naturale e democratico che ci venisse chiesto se siamo d’accordo con l’occupazione che viviamo dal 1659 e 1714 o se vogliamo ripristinare il nostro Stato Catalano confederato. L’indipendenza, secondo le più recenti inchieste, è voluta dal 57% dei catalani del Principato. Il Principat di Catalunya si trova in una situazione più favorevole, con una maggioranza politica chiaramente a favore dell’indipendenza, ma la nostra lotta non finirà con la sua indipendenza. Lo sanno sia la Francia sia la Spagna, ma lo sanno soprattutto i nostri fratelli dei territori di cultura catalana: i Paisos Catalans.
La lotta per l’autodeterminazione nei PP.CC. (come in Euskal Herria) mi è sempre apparsa con contenuti progressisti (“di sinistra”). Viceversa, nel nord della penisola italiana l’indipendentismo si è qualificato, in genere, come di centro-destra o di destra tout-court (soprattutto in campo economico, fortemente caratterizzato in senso neoliberista). È una tendenza presente anche nei PP.CC?
È fuori discussione che tra le nazioni del Norditalia (così come nelle Fiandre) il maggior protagonismo politico a favore dell’indipendenza è stato espresso da partiti o movimenti collocati a destra o nel centro-destra. Penso tuttavia che questa sia una conseguenza di contesti europei, importanti ma non determinanti. In realtà i processi indipendentisti, se autentici, sono processi di rafforzamento democratico e di difesa dei Diritti Universali (come quello all’Autodeterminazione), non sottomettono né condizionano l’indipendenza del loro popolo a una politica sociale piuttosto che a un’altra, ben sapendo che soltanto in uno Stato indipendente e sovrano avremo la reale possibilità di mettere in pratica i princìpi politici che ciascuna forza politica difende. In Catalunya l’indipendentismo è principalmente di sinistra, ma va ricordato che il partito cattolico UDC (Uniò Democratica de Catalunya che insieme a Convergència Democratica de Catalunya costituisce Convergència i Uniò attualmente ritornata al governo) ha nel suo statuto di fondazione il diritto all’Autodeterminazione per uno Stato catalano indipendente.
Il discorso della destra e della sinistra in Catalunya lo considero superato, perlomeno quando si parla di indipendenza. Costituiamo un paese plurale e sarà con questa trasversalità e grazie a questo pluralismo socio-politico di coloro che vogliono l’indipendenza che la conquisteremo.
Quali prospettive per il dopo-indipendenza? I PP.CC. rientrerebbero nell’Unione Europea? E nella zona-euro?
Questo è in effetti un dibattito da dopo indipendenza: soltanto in uno Stato politicamente indipendente si potrà decidere se restare nell’UE e nell’euro o uscirne; all’interno della Spagna noi di sicuro non potremo scegliere. Questioni di questo genere rischiano di alimentare dubbi, incertezze e divisioni finendo col favorire quelli che intendono distrarci dal nostro obiettivo che è uno soltanto, l’indipendenza. Nelle prime elezioni dello Stato Catalano Indipendente i partiti politici avranno la possibilità di spiegare le loro posizioni e proporre possibili alternative.
In alcuni recenti incontri si è parlato molto di European Partnership for Independence (EPI) e della collaborazione tra varie associazioni favorevoli all’indipendenza delle rispettive nazioni (PP.CC., Paesi Baschi, Fiandre, Scozia, eccetera). Di cosa si tratta?
Visto l’esito positivo dell’esperienza della Consulta sull’Indipendenza di Catalunya, i movimenti della società civile di Scozia, Catalunya, Fiandre e Paesi Baschi hanno deciso di proseguire in questa azione dando un nome diverso alla commissione internazionale della Consulta Catalana.
Nasce quindi European Partnership for Independence (Dichiarazione di Bruges, 14 luglio 2011), un’equipe internazionale che rende possibile un network europeo per facilitare la comunicazione tra nazioni con informazione diretta (e senza interferenze o filtri da parte dei media) su quanto sta realmente accadendo in ogni nazione per coordinare azioni comuni. Nasce un fronte popolare comune europeo dei movimenti con una maggioranza sociale e/o politica a favore del diritto all’autodeterminazione come percorso verso l’indipendenza. L’alleanza API ha creato la International Commission of European Citizens (ICEC) per portare a compimento progetti internazionali con la partecipazione di altri movimenti, partiti politici e dipartimenti accademici favorevoli all’esercizio del Diritto Universale all’Autodeterminazione e dell’Europa dei Popoli. Una delle azioni unitarie è consistita nel presentare una petizione alla Commissione Europea perché inserisca il Diritto all’Autodeterminazione nel suo codice legislativo. Questa petizione si richiama al Trattato dell’Unione Europea e non è fine a se stessa. Infatti si inserisce in una campagna internazionale “Un milione di firme per l’Autodeterminazione” che prenderà il via in febbraio, in occasione del 5° Congresso Internazionale di EPI. Ricordo che a questa campagna partecipano anche movimenti del Veneto e del Sud Tirolo insieme a rappresentanti di ogni parte di Europa. Ci aspetta un intenso anno di lavoro per raccogliere il milione di firme che poi porteremo insieme a Bruxelles agli inizi del 2014.
È importante capire che quella condotta dalle diverse nazioni europee è una lotta comune; non possiamo rinchiuderci come delle isole nazionali chiedendo l’applicazione di un Diritto Universale soltanto per noi stessi, ma dobbiamo imparare dalle lotte degli altri popoli e collaborare con impegno in una visione più ampia inserita in un contesto europeo che comprenda anche tutti gli esponenti democratici di Stati già esistenti che difendono i valori fondamentali dell’Europa: Libertà, Giustizia, Uguaglianza e Pace.
Il fatto che milioni di cittadini europei, come sono i catalani o i baschi, non possano esercitare il Diritto Universale all’Autodeterminazione senza difficoltà e minacce, non è un fatto che interessa soltanto coloro che subiscono questo deficit democratico. Riguarda tutti i cittadini europei, anche tedeschi o finlandesi, in quanto questo diritto viene violato sul territorio europeo.