Come le scienze sociali non sono attrezzate per comprendere le relazioni tra le comunità umane.
I popoli, nella loro ricerca di pace, prosperità, eguaglianza e progresso, da attuarsi attraverso fratellanza e comprensione reciproche, si scontrano sempre con un fattore ineluttabile: la diseguaglianza dei rispettivi modelli culturali di base, ovvero le etnie. A questo punto le forze in causa, cultura e politica, che guidano i popoli, sono chiamate a rispondere.
La politica, purtroppo, esiste molto spesso più per servire la ragion di Stato che per servire il popolo e a questo fine conosce tutte le vie per eludere i problemi non graditi. La più elementare delle prassi scientifiche indicherebbe che, quando nel corso di un procedimento che mira a un fine si incontra uno scoglio o un problema, è indispensabile accettarlo al fine di valutarlo, chiarirlo e risolverlo. Quando, invece, uno che si crede furbo lo aggira o addirittura lo ignora, riuscendo altresì a produrre un risultato finale quadrato ma falso, ebbene, costui è un politico. La politica infatti è quella scienza per la quale la somma 2 più 2 dà per risultato una serie infinita di numeri all’infuori del quattro.
E il mondo della cultura, allora? Le scienze sociali, di fronte al problema delle etnie, hanno per lungo tempo assunto un atteggiamento che si potrebbe definire di “assoluto rigore scientifico”, ma che consiste semplicemente nello studiare una realtà viva, complessa e contingente quale è la “nazione” etnica come se fosse un fenomeno morto, riesumato per l’occasione di un centenario durante il quale si fanno congressi a uso degli arrampicatori culturali. Il timore di cadere nel politico le spinge a prendere sempre il problema “alla larga”. Manipoli di portoricani e di “giovani bianchi”, sempre di buona famiglia, vengono inviati in campeggi coatti nelle lande dell’Oklahoma dove studiosi esaminano il problema della conflittualità fra i
gruppi, lo sviluppo dell’aggressività, le possibilità di integrazione. Questi esperimenti “in vitro” fanno testo nelle università di Belfast come di Padova, di Beirut o di Salamanca. La sociologia, che può vantare fra i suoi meriti la lotta contro i tabù, si è trasformata in paleontologia per paura di un tabù, quello che accompagna l’argomento “diversità culturali”. L’origine del suddetto tabù è fin troppo chiara. I fattacci del recente trentennio hanno prodotto bruciature che puzzano ancora, ma pochi hanno saputo trarre dall’educazione di massa insegnamenti che andassero al di là di alcuni vaghi luoghi comuni sul razzismo, senza mai chiedersi come e perché si sia giunti a tanto.
Nei primi decenni del dopoguerra vigeva il concetto che voleva razzismo = fascismo, ergo accettazione = comunismo. Poi giunsero chiare voci che in Russia gli ebrei non erano molto ben visti, anzi tentavano di fuggire, e questo sconvolse un po’ la situazione. A capovolgerla del tutto giunse l’OLP, che costrinse il mondo a interessarsi dei fatti e misfatti del nuovo Stato israelita. In men che non si dica agli Ebrei fu strappata di mano la palma del martirio e fu loro attribuito il ruolo di persecutori nazisti. Gli schieramenti si capovolsero, le certezze, fondate sulla solita cultura dei luoghi comuni, si incrinarono. Il senso di parole quali democrazia, nazismo, razzismo, egualitarismo, diventa allora estremamente contingente.
Ma nel tentativo di districare cause ed effetti, ragioni e torti, ci si accorge che l’operazione è viziata alla base da una cultura, sia di massa che d’élite, che è schiava della ragion di Stato e delle ideologie politiche. Nella testa di ognuno è infatti chiara una sola fonte di giudizio: chi sostiene i due contendenti? La risposta è facile a tutti: NATO e USA da una parte, forze di sinistra dall’altra. Sulla base di tale misera fonte, la sentenza. Gli intellettuali (e non) sanno già a chi assegnare assoluzioni e condanne. E, alla faccia del presunto antirazzismo, hanno giudicato in base a pregiudizi.
Infatti, in altre situazioni di scontro fra diverse etnie, come Inglesi e Irlandesi o Curdi e Persiani, il coinvolgimento dei mass media e delle masse guidate è estremamente minore, se non inesistente; per una ragione molto semplice: le chiare menti di scrittori e lettori non riescono a provare interesse né a dare giudizi se non possono trovare riferimento nell’ormai penoso, anche se assurdamente vero, fronte delle destre e delle sinistre. Senza implicazioni economiche e politiche, l’opinione pubblica non prende posizione. Di fronte al problema delle nazioni (etnie), dirigenti e portavoce dello Stato minimizzano, perché va contro le loro manovre politiche. I giornali e gli altri organi di informazione, dal canto loro, nonostante le pretese di indipendenza ideologica, altro non sono spesso che la longa manus dei gruppi di potere. Non a caso, dopo decenni di cultura di massa, quasi nessuno conosce la differenza fra stato e nazione. Fedeli al messaggio di una storiografia da stato assolutista, operatori culturali di ogni tendenza continuano a chiamare nazioni l’Italia, la Francia o l’Inghilterra. Del resto Mussolini ci teneva tanto a sostenere che gli italiani sono una razza unita, compatta, senza differenziazioni interne. Forse è per questo che molti chiamano antistorica la lotta dei gruppi etnici. Si vede che per essere “storici” bisogna seguire i dettami di monarchi e dittatori degli ultimi cento anni. Nel panorama plurimillenario della storia c’è gente la cui vista giunge fino a Neanderthal e prospetta nel futuro altrettanta varietà di mutamenti, e c’è gente che vede fino a Nino Bixio in quel di Bronte e ritiene che tutto debba restare immutato come è ora, paghi evidentemente di tanto misera conquista.
Nel mondo della facile cultura manichea dei settimanali radical-chic, che hanno sempre bisogno di una elementare distinzione fra martiri e aguzzini, la situazione delle etnie e della loro lotta appare tragica. Tragica perché a loro restano solo due scelte di ruolo per presentarsi: o dichiararsi preda del colonialismo, o farsi accusare di razzismo. Tragica appare così l’estrema contingenza e relatività di parole quali indipendenza, irredentismo, autonomia, libertà; su di esse pesa sempre l’ambigua interpretazione che ne dà la ragion di Stato.
Ma se noi accettiamo il presupposto per cui è impossibile a un individuo raggiungere la sicurezza di sé e avere soddisfacenti rapporti sociali senza aver prima ricercato e trovato la propria identità, allora avremo individuato un terzo ruolo che la battaglia delle etnie può pretendere di ricoprire: proprio quello della ricerca di una identità collettiva.
La complessità delle nostre culture, che usualmente riteniamo un pregio delle società dinamiche, spaventa in realtà l’uomo moderno. La risposta di tanta scienza, per cui è quasi impossibile a un individuo, appartenente a una cultura stratificata, ricercare e ritrovare una identità, atterrisce tale individuo. Il mondo della ricerca dovrebbe forse arrendersi all’idea che l’uomo moderno è molto meno “moderno” di quanto sembri. Egli ha in realtà ancora bisogno di riconoscersi negli altri, di avere delle certezze su se stesso. La ricerca della propria realtà culturale antropologica passa per lui attraverso il concetto di nazione come grande famiglia di individui affini. La patria, per la quale solo vale la pena di lavorare e soffrire, è ancora per il suo subconscio la terra dei patres e non il confine conquistato dai generali, come dice il libro di scuola. Riconoscere a un gruppo la sua identità e i diritti connessi non significa conferirgli dei limiti bensì ridurre gli attriti della conflittualità e permettergli di aprirsi con maggior sicurezza al dialogo e ai rapporti con gli altri gruppi.
Molti fenomeni di presunto razzismo altro non sono che meccanismi di difesa di una nazione che si ritiene minacciata dal colonialismo di un’altra. Chiunque tenti di istruire un processo tra le due contendenti dovrebbe però farlo tenendo a bada le mediazioni di certa scienza troppo al di sopra delle parti e di certo Stato troppo dentro gli interessi delle parti. I processi di assimilazione forzata sono sempre molto più lenti di quelli di assimilazione spontanea, ma perché vi sia assimilazione spontanea è necessario che non vi siano conflitti tra le parti. E perché non vi siano conflitti non è certo sufficiente negarne l’esistenza. Irlandesi, sardi, sloveni, alsaziani, lombardi, macedoni, lituani, siciliani, boemi, bretoni, veneti, corsi, bavaresi, baschi, albanesi, sono solo alcune delle molte nazioni nell’Europa dei pochi stati. Solo attraverso il riconoscimento dei loro diritti e delle loro identità passa la via che conduce a una Europa dei popoli spontaneamente federati, da non confondersi con quella degli stati che si detestano e che solo la strategia militare tiene uniti.
Pubblicato nel 1984 su: