La domanda che noi, osservatori del mondo, dobbiamo porci è perché il conflitto israelo-palestinese nel corso del tempo è arrivato ad attirare l’attenzione più di ogni altro, e perché viene presentato in questo modo. Come può essere che le azioni di un Paese che costituisce lo 0,01% della superficie terrestre diventino il fulcro del timore, del disgusto e della condanna più di qualunque altro Paese al mondo? Dobbiamo chiederci perché gli israeliani e i palestinesi siano diventati il simbolo per eccellenza della conflittualità tra i forti e i deboli, il binomio su cui gli dèi dell’Olimpo intellettuale dell’Occidente eseguono i loro giochi di prestigio: perché questi due, e non i turchi e i curdi, i cinesi han e i tibetani, i soldati britannici e i musulmani iracheni, gli iracheni musulmani e gli iracheni cristiani, gli sceicchi sauditi e le donne, gli indiani e i kashmiri, i delinquenti dei cartelli della droga e gli abitanti dei villaggi messicani?
Ho scritto da e su Israele per la maggior parte degli ultimi venti anni, da quando mi trasferii da Toronto all’età di 17 anni. Durante i cinque anni e mezzo trascorsi presso una delegazione della stampa internazionale, come reporter dell’agenzia di stampa americana Associated Press – fra il 2006 e il 2011 – ho iniziato gradualmente a essere consapevole di alcune disfunzioni nella copertura della storia di Israele. Continue omissioni ed esagerazioni, decisioni prese in base a considerazioni non giornalistiche ma politiche; il tutto nel contesto di una vicenda manipolata e diffusa più di qualsiasi altra esistente. Quando lavoravo negli uffici di Gerusalemme dell’AP, gli avvenimenti di Israele venivano coperti da uno staff molto più numeroso di quelli dedicati alla Cina, all’India e alla cinquantantina di Paesi dell’Africa Subsahariana messi insieme.

Matti-Friedman
Matti Friedman è nato e cresciuto a Toronto e oggi vive a Gerusalemme. Corrispondente da Israele per l’Associated Press dal 2006 al 2011, ha lavorato anche in Marocco, in Egitto, al Cairo e a Washington. È autore del Codice di Aleppo.

All’inizio del 2009 – tanto per fare un esempio comune di questo tipo di decisioni editoriali – fui incaricato dai miei superiori di indagare su un racconto di seconda mano, tratto da un giornale israeliano, su certe magliette offensive indossate dai soldati di Israele. Non avevamo conferma diretta della veridicità di questa storia, e comunque non circolano molte news sui tatuaggi che i marines statunitensi o la fanteria inglese ostentano sulle braccia o sul petto. Eppure le magliette indossate dai soldati israeliani facevano notizia agli occhi di una delle più potenti agenzie di stampa al mondo. Questo perché noi cercavamo di dare l’impressione, quando non lo dicevamo chiaro e tondo, che i soldati israeliani erano criminali di guerra, e qualsiasi dettaglio a supporto andava colto al volo. Molti organi di stampa internazionali ripresero la storia delle magliette.
Quasi contemporaneamente, nella newsletter di una scuola venivano citati anonimamente alcuni soldati israeliani che avevano raccontato di aver assistito a presunti abusi durante i combattimenti a Gaza. Ci scrivemmo su non meno di tre diversi articoli, nonostante lo stesso regolamento interno dell’AP proibisca – per ottime ragioni – l’utilizzo di fonti le cui identità non siano conosciute ai giornalisti. Anche questa era una delle storie che tanto ci premeva raccontare. Quando, in seguito, questi soldati si fecero avanti e ammisero di non aver mai assistito ai supposti episodi (volevano soltanto far capire agli studenti gli orrori e le problematiche morali della guerra), era ormai troppo tardi per rimediare.
Sempre in quel periodo, agli inizi del 2009, a due giornalisti della nostra agenzia giunsero informazioni su un’offerta di pace proposta qualche mese addietro dall’allora primo ministro Ehud Olmert ai palestinesi, e ritenuta insufficiente dai palestinesi stessi. L’offerta contemplava la creazione di uno Stato palestinese nel West Bank e a Gaza con capitale in una Gerusalemme condivisa. Avrebbe dovuto trasformarsi nella più formidabile storia dell’anno! Ma un’offerta di pace israeliana e il suo respingimento da parte dei palestinesi non soddisfaceva la nostra storia. Il caporedattore ordinò ai reporter di ignorare l’offerta di Olmert e loro lo fecero, nonostante la protesta furiosa di uno dei due, che più tardi definì la decisione “il più colossale fiasco che abbia mai visto in cinquant’anni di giornalismo”. Ma questo era completamente in linea non solo con le pratiche dell’AP, ma degli organi d’informazione in generale. Le vili magliette dei soldati valevano una notizia; testimonianze anonime e non verificabili di abusi ne valevano tre; una proposta di pace del primo ministro israeliano al presidente palestinese, manco una.

Due pesi e due misure

Il vandalismo di una proprietà palestinese è una storia. Le manifestazioni neonaziste nelle università o nelle città palestinesi non lo sono. Ho visto le immagini di queste manifestazioni censurate in più di una occasione. L’odio ebraico verso gli arabi fa notizia. L’odio arabo verso gli ebrei no. La nostra politica, per esempio, prevedeva di non menzionare quelle dichiarazioni dello Statuto 1) di Hamas in cui si sostiene che gli ebrei sono responsabili di aver pianificato entrambe le guerre mondiali e le rivoluzioni russa e francese, malgrado ciò faccia molta chiarezza sul modo di ragionare di uno dei protagonisti del conflitto.
Cento case in un insediamento del West Bank sono una notizia. Cento razzi di contrabbando dentro Gaza non lo sono. Le strutture militari di Hamas in mezzo e sotto la popolazione civile di Gaza non fanno notizia. Ma l’azione militare israeliana in risposta a questa minaccia la fa eccome, l’abbiamo visto tutti l’estate scorsa. La responsabilità israeliana per le perdite collaterali di civili, questa sì che è una storia. La responsabilità di Hamas in queste morti non lo è. Qualunque giornalista degli organi di stampa internazionale in Israele, che lavori per AP, Reuters, CNN, BBC o qualunque altra testata, riconoscerà gli esempi che ho citato su cosa faccia notizia e cosa no, come da procedura operativa standard.
Durante la mia carriera nel mondo del giornalismo, ho visto dall’interno come i difetti di Israele siano analizzati e ingigantiti, laddove quelli dei suoi nemici sono volutamente censurati. Ho visto come le minacce affrontate da Israele siano ignorate o addirittura derise come finzioni immaginarie, sebbene queste stesse minacce si sono ripetutamente avverate. Ho visto come un’immagine fittizia di Israele e dei suoi nemici sia stata fabbricata, rifinita e propagandata con effetti devastanti, gonfiando certi dettagli, ignorandone altri, e presentando il risultato come un’accurata descrizione della realtà.
Tanto per non illuderci che non esistano dei precedenti, vale la pena di ricordare l’osservazione di Orwell sul giornalismo durante la guerra civile spagnola: “Quand’ero giovane, avevo notato che nessun evento è mai riportato correttamente su un giornale; ma in Spagna, per la prima volta, ho visto servizi giornalistici che non hanno la minima relazione con la realtà, neanche quel legame che sarebbe implicito in una normale bugia. Ho visto, infatti, che la storia è stata scritta, non in termini di cosa sia accaduto, ma di cosa sarebbe dovuto accadere secondo le varie linee di partito”. Era il 1942.
Nel corso degli anni ho capito che le disfunzioni a cui stavo assistendo, e a cui stavo collaborando, non erano circoscritte alla Associated Press, ma erano parte di un problema più vasto legato al funzionamento stesso della stampa e alla sua mentalità. Il giornalismo internazionale in Israele si è trasformato da osservatore del conflitto in vero e proprio attore. Dalla scrupolosa descrizione degli avvenimenti, è passato a una sorta di massacro politico per conto della fazione che ha identificato come quella dalla parte del giusto. Ha abbracciato un pensiero unico da cui non è permesso allontanarsi. Ecco perché, dopo aver criticato blandamente alcune scelte editoriali, ora come ora mi trovo in fortissimo disaccordo.
Ho finito anche per rendermi conto che la stampa non è tutto. Sta, sì, giocando un ruolo chiave in un fenomeno intellettuale radicatosi in Occidente, ma non ne è la causa, o almeno non l’unica: è stata trasportata da certi venti ideologici dominanti, ma ha anche contribuito a rafforzarli. Molti giornalisti vorrebbero farvi credere che le notizie siano state create da una specie di algoritmo, un processo meccanico e scientifico in cui gli eventi sono inseriti, elaborati e poi pubblicati. Ma, naturalmente, il giornalismo è qualcosa di imperfetto e completamente umano, frutto di interazioni tra fonti, cronisti e direttori, ognuno con il proprio bagaglio culturale che risente, come capita più o meno a tutti noi, dei pregiudizi verso i propri simili.
All’indomani della guerra di Gaza della scorsa estate, e alla luce degli eventi in Europa negli ultimi mesi, dovrebbe essere chiaro che è in corso qualcosa di profondamente avvelenato. Capire di cosa si tratta ci aiuterà, credo, a far luce non soltanto sul giornalismo, ma anche sulla visio mundi occidentale.
Queste pretese critiche politiche o giornalistiche sembrano sempre più la versione contemporanea di una denuncia assai più vecchia: che gli ebrei sono facinorosi, una forza negativa che influisce sugli eventi mondiali; che se si potesse far scomparire in qualche modo questa gente, staremmo tutti meglio. Questo è, o dovrebbe essere, un motivo di allarme, e non solo tra i simpatizzanti di Israele. Quanto sta accadendo ha poco a che fare con il mondo della politica e molto con quello della psicologia e della religione.

Ultimo baluardo civile

Alla radice di tutto sembra esserci l’occupazione della Cisgiordania. Parliamone un attimo.
Essa deriva dalla guerra del 1967. L’occupazione non è il conflitto, che ovviamente la precede. È un sintomo del conflitto, un conflitto che rimarrebbe tale anche una volta eliminato il sintomo. Se prendiamo in considerazione la Cisgiordania, l’unica area palestinese attualmente occupata da Israele, e se includiamo Gerusalemme, vediamo che il conflitto in queste zone è costato 60 vite umane l’anno scorso, tanto palestinesi quanto israeliane.
La fine di questa occupazione libererebbe i palestinesi dal governo israeliano e gli israeliani dal governare gente che non vuole essere governata. Ma chi osserva il Medio Oriente di questi tempi non faticherà a capire che la fine dell’occupazione creerà un vuoto di potere che sarà riempito – così come tutti i vuoti di potere nella regione – non dalle inesistenti forze della democrazia e della modernità, ma dalla violenza spietata degli estremisti. È quello che abbiamo imparato dal disfacimento del Medio Oriente negli ultimi anni. È quello che è successo in Iraq, Siria, Libia, Yemen, Egitto, e prima ancora a Gaza e nel sud del Libano. La mia casa a Gerusalemme si trova a una giornata d’auto da Aleppo e da Baghdad. La creazione di un nuovo campo libero per queste forze porterà i soldati con le maschere nere dell’islam radicale a pochi metri dalle case israeliane con mortai, missili e attrezzature per scavare gallerie. E i morti si conteranno a migliaia.
Al di là della minaccia evidente per cristiani palestinesi, donne, omosessuali e liberali, che saranno i primi a soffrire, ciò renderebbe l’intero Israele invivibile, eliminando l’unico spazio sicuro in Medio Oriente, l’unico rifugio per le minoranze, nonché l’unico Paese ebraico sulla terra. Nessun investimento o risoluzione internazionale, nessun governo o esercito sostenuto dall’Occidente sarà in grado di impedirlo, come abbiamo appena visto in Iraq. Il mondo saluterà questo risultato con espressioni sincere di simpatia. Solo alcuni anni fa io, come molti altri, avremmo rifiutato di credere a uno scenario così apocalittico. Non lo è. È anzi lo scenario più probabile.
Chi osserva questo conflitto da lontano è stato indotto a credere che Israele si trovi ad affrontare la semplice scelta tra l’occupazione e la pace. È una favola. La scelta palestinese, si dice, è tra l’occupazione israeliana e una democrazia indipendente. Anche questa è una favola. Nessuna delle due parti ha di fronte una scelta chiara, né risultati chiari. Qui c’è un conflitto in una terra di conflitti, senza un cattivo ben riconoscibile, senza una vittima ben definita, senza una soluzione netta: uno delle centinaia, migliaia di conflitti etnici, nazionali e religiosi del pianeta.

Un trattamento unico al mondo

L’unico gruppo di persone oggetto di un boicottaggio sistematico attualmente nel mondo occidentale sono gli ebrei, ora etichettati sotto il comodo eufemismo di “israeliani”. L’unico Paese ad avere una sua Apartheid Week 2) nei campus è quello ebraico. I manifestanti hanno interferito con lo scarico delle navi israeliane sulla costa occidentale degli Stati Uniti, e ci sono regolari inviti al boicottaggio di qualsiasi prodotto dello Stato ebraico. Nessuna tattica analoga viene attualmente impiegata contro qualsivoglia altro gruppo etnico o nazionalità, non importa quanto gravi siano le violazioni dei diritti umani che vi si perpetrano.
A chiunque cerchi di capire perché le cose stiano così verrà risposto con il grido “Occupazione!”, come se fosse una spiegazione sufficiente. Non la è. Chi desidera discutere questi fenomeni non ne ha il coraggio, temendo di lasciar trasparire una forma di sostegno all’occupazione stessa; la quale, da problema geopolitico di modesta portata per gli standard globali, è stata pompata al punto da diventare la madre di tutte le violazioni dei diritti umani.
I costi umani delle avventure mediorientali di America e Gran Bretagna in questo secolo sono stati di gran lunga superiori, e assai più difficile da spiegare, di qualsiasi cosa Israele abbia mai fatto. Con le loro invasioni hanno scatenato una violenza che è tuttora in atto. Ma nessuno boicotta professori americani o britannici. La Turchia è una democrazia e un membro della NATO, e tuttavia la sua occupazione del nord di Cipro e il lungo conflitto con i curdi senza Stato – molti dei quali si considerano occupati – provocano qualche sbadiglio: nessuno organizza una Turkish Apartheid Week… Il mondo è pieno di ingiustizie. Miliardi di persone sono oppresse. In Congo sono morte 5 milioni di persone. È giunto per tutti il momento di ammettere che il disgusto modaiolo per Israele che serpeggia in Occidente non è libertario, ma selettivo, sproporzionato e discriminatorio.

 

N O T E

L’articolo è ricavato dal testo – condensato e tradotto a cura di “Etnie” – dell’intervento di Matti Friedman al BICOM, Londra 28 gennaio 2015.
1) Si trovano all’Articolo 22 (qui il testo completo): “Il nemico ha programmato per lungo tempo quanto è poi effettivamente riuscito a compiere, tenendo conto di tutti gli elementi che hanno storicamente determinato il corso degli eventi. Ha accumulato una enorme ricchezza materiale, fonte di influenza che ha consacrato a realizzare il suo sogno. Con questo denaro ha preso il controllo dei mezzi di comunicazione del mondo, per esempio le agenzie di stampa, i grandi giornali, le case editrici e le catene radio-televisive. Con questo denaro, ha fatto scoppiare rivoluzioni in diverse parti del mondo con lo scopo di soddisfare i suoi interessi e trarre altre forme di profitto. Questi nostri nemici erano dietro la Rivoluzione francese e la Rivoluzione russa, e molte delle rivoluzioni di cui abbiamo sentito parlare, qua e là nel mondo. È con il denaro che hanno formato organizzazioni segrete nel mondo, per distruggere la società e promuovere gli interessi sionisti”. [NdR]
2) Israeli Apartheid Week (IAW) è una serie di eventi internazionali “per sensibilizzare”, dicono gli organizzatori, “alle politiche di apartheid contro i palestinesi, e per aiutare a organizzare la campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS)” contro Israele. Sulle famigerate campagne BDS, si legga questo articolo fondamentale. [NdR]