Età: nove secoli. Segni particolari: un fior di letteratura. Cittadinanza: negata. Nome: Piemontese. Breve storia di un patrimonio linguistico di cui l’Europa dovrebbe andare orgogliosa.
La lingua piemontese fa parte della famiglia delle lingue romanze, e precisamente della branca occidentale. La vecchia opinione dei linguisti considerava il piemontese come uno dei tanti dialetti galloitalici, fra i quali doveva rappresentare l’elemento più occidentale; ma un esame più approfondito ha potuto rivelare la consistenza dell’elemento galloromanzo, presente fin dalla sua genesi. Allo stato attuale delle ricerche, il piemontese non può assolutamente essere definito per intero un idioma galloitalico; i ricercatori contemporanei (per esempio K. Gebhardt, H. Lüdtke, G. Sobiela-Caanitz) considerano il piemontese come un trait-d’union fra la Galloitalia e la Galloromania, e non hanno la minima difficoltà nell’affermare che piemontese e italiano sono due lingue diverse. Oggi, anche in Italia, docenti e ricercatori tendono sempre più a riconoscere le differenze tra le due, anche se c’è ancora chi si ostina a rifiutare la formula “lingua piemontese” partendo da presupposti ideologici che nulla hanno di scientifico.
Italiano e piemontese, nella letteratura, sono sempre state considerate due lingue differenti: possiamo ricordare l’opinione di Dante il quale, parlando del dialetto di Alessandria, dichiarò che non lo si poteva considerare appartenente alla famiglia degli idiomi che formavano – e formano – l’italiano. Nel Cont Piolèt, una pièce teatrale del XVII secolo di G. B. Tana, i protagonisti piemontesi considerano gli italiani come stranieri la cui lingua è incomprensibile. Ancora alla fine del XVIII secolo, in Ël nodar onorà, una commedia di Pegemade, l’italiano – lingua ufficiale e burocratica – è genericamente definito “latino”.
Il piemontese è una lingua che unisce un apporto galloromanzo di base, un apporto galloitalico e un lessico molto vario la cui maggior parte delle parole è comune anche all’occitano e al francese. Il vocabolario piemontese, e dei suoi innumerevoli dialetti, comprende un considerevole numero di parole di origine celtica, germanica e preindoeuropea. Il piemontese ha conosciuto un’epoca di trasformazione nel XVI secolo, quando è stato aperto all’influenza profonda del lombardo, che non ha tuttavia trasformato la sua forma basilare.
Dal XII secolo
La letteratura piemontese ha inizio con i Sermon Subalpengh (XII secolo), lunghe prediche scritte in un piemontese occidentale penetrato di francesismi e occitanismi. Siamo a conoscenza di un certo numero di opere religiose, giuridiche e anche profane che ne hanno caratterizzato il periodo medievale. Possiamo citare, per esempio, il Dit dël Re e dl’Argin-a e i Proverbi, attribuiti a Fra Colomba; le Laude, di cui le più celebri sono la Complenta ’d Turin e la Complenta Larmosa; la Canson ëd Pancalé, una canzone epica del 1410 circa; i testi giuridici più lunghi e importanti ci arrivano da Chér/Chieri e da Rivàuta/Rivalta di Torino.
Il primo autore piemontese dalla personalità precisa è Gian-Giòrs Alion, nato nella città di Asti e vissuto nella seconda metà del XV secolo. Si tratta del primo scrittore teatrale, anche se ancora “dialettale”, poiché la koiné attuale (a base occidentale) appare solo nel XVI secolo.
La perdita della libertà e la rovina quasi totale della terra subalpina hanno dato al XVI il nome di “secolo muto” della letteratura piemontese, che si inaridisce quasi completamente. Il secolo successivo vede la rinascita delle arti e delle lettere, la crescita dell’orgoglio nazionale e l’affermazione del piemontese come “lingua franca” dei domini dei duchi di Savoia. L’autore più rappresentativo dell’epoca è Gioann B. Tana che, con la sua pièce teatrale Ël Cont Piolèt, consacra definitivamente il piemontese come lingua letteraria. Tana ci ha anche lasciato una narrazione poetica del celebre assedio di Torino (1706) che continua la lunga tradizione delle canzoni di guerra tipiche di questa letteratura.
Il XVIII secolo è, a giusto titolo, chiamato “il secolo d’oro” della letteratura piemontese. Autori rappresentativi sono I. Isler (1702-1788), con i suoi poemi satirici o patriottici; G.A.I. Ventura Cartiermetre (1733-1777), precursore degli scrittori rivoluzionari; V.T. Borel (1723-1800 ca.) e S. Bàlbis (1737-1796), una voce di sapore arcadico nel panorama dell’epoca (gli autori della letteratura piemontese per lo più non seguono i modelli stilistici dei contemporanei italiani).
Il più grande autore del secolo d’oro è Eduard-Ignassi Calvo (1773-1804). Per comprendere il carattere della sua opera è necessario calarsi nel clima politico e sociale del Piemonte dell’epoca, in cui nascevano sentimenti nazionalistici e incominciava a circolare il celebre motto (in francese): Je suis Piémontais, seulement Piémontais, rien que Piémontais. Parallelamente, l’epoca del Calvo vedeva la nascita di un sentimento linguistico completamente nuovo: si iniziava a pernsare che il piemontese, da semplice lingua di comunicazione tra gli abitanti del Regno (le lingue ufficiali erano il francese e l’italiano), avrebbe potuto sostituire l’italiano e il francese anche come lingua ufficiale dell’amministrazione. Si cominciava quindi a giungere a una grafia unificata che avrebbe permesso una comprensione più facile e veloce anche della lingua scritta.
Il medico e scrittore M. Pipin (morto nel 1788) pubblicò una Grammatica piemontese (1783) con la quale proponeva regole grafiche comuni. E. I. Calvo univa un fortissimo amore per la propria patria a un astio antiaristocratico – si era in pieno clima rivoluzionario – che lo indusse a scrivere le celebri Canson Giacobin-e. Le Fàule Moraj dello stesso autore possono essere considerate la più bella opera in lingua piemontese.
L’inizio del XIX secolo conosce un ritorno dei temi cari agli autori pre-rivoluzionari. I sentimenti nazionali piemontesi vi sono esaltati, ma la questione della lingua non ha più la stessa importanza, poiché il Piemonte è ormai visto come lo Stato d’avanguardia nella formazione dell’Italia unita. Gli autori più conosciuti sono R. Feràud, N. Ròsa e A. Broferi, le cui canzoni sono ancor oggi molto popolari. S. Balbo e S. De Satùsses appartengono alla letteratura eroica e meriterebbero un esame più approfondito. Il secolo si chiude con i romanzi di L. Pietraqua e le poesie di V. Actis e A. Fré, influenzati dal naturalismo francese e dagli Scapigliati.
La lingua piemontese, in quest’epoca, conosce una decadenza e la letteratura registra uno scadimento di qualità. Il francese non è più la lingua della borghesia e il piemontese rimane aperto all’influenza del solo italiano. Gli autori dell’epoca scrivono semplici poesie i cui soggetti sono spesso dialettali. L’unico settore che rifiuta la banalità è rappresentato dal teatro, che ci consegna opere rimarchevoli soprattutto con A. Bersessi e M. Lion.
Vivo, malgrado le aggressioni
Il XX secolo è il secolo della rinascita. Se il piemontese era nella prima metà del secolo la lingua più parlata del Piemonte, esso tendeva però a perdere molte parole naturali e a corrompersi sotto l’azione prevaricatrice dell’italiano imposto dal regime fascista, con le sue leggi e le ordinanze speciali contro i “dialetti”.
Per difendere il proprio tesoro linguistico e per ritrovare una letteratura capace di sostenere il confronto con quelle europee, P. Pacòt (1899-1964) e i suoi amici si riuniscono nella “Companìa dij Brandé”. Pacòt riscostruisce l’unità grafica piemontese che si era perduta e ci regala una produzione di poemi, prose, opere teatrali, grazie alla quale è stata coniata per lui la definizione di “Mistral del Piemonte”. Quasi tutti gli autori di questo periodo meriterebbero di essere ricordati; scegliamo i nomi di N. Autelli (1903-1945), la cui prosa è la più bella mai scritta in piemontese; A. Frusta, A. Nicòla, L. Olivé, scomparso di recente, poeta conosciutissimo in Europa e nel mondo, amico di E. Pound e F. Garcia Lorca. Elisa Vanon Castagné e Carlotin-a Ròch meritano anch’esse una citazione.
La seconda generazione della Companìa vede autori come Tavo Burat, poeta e giornalista; Milo Bré (Camillo Brero), autore della celebre Gramàtica Piemontèisa (1967); Bré è uno dei più attivi rappresentanti della cultura attuale in lingua piemontese, con libri di poesia e di prosa; è autore di una Storia della Letteratura Piemontese e di un’opera tecnica sulla struttura dei versi piemontesi (opera scritta in piemontese). Bré è anche compilatore di due dizionari.
Possiamo ancora parlare di “Barba” Toni Baudrìe, poeta e prosatore in piemontese e poeta in occitano (provenzale e alpino); di Anita Giràud, poetessa di valore, di Bianca Donato e Gianrens P. Clìvio, studioso che ha contribuito in maniera determinante all’affermazione del piemontese come lingua scientifica. Censin Pich ha avuto il merito di darci la prosa giornalistica, la più rigorosa nella nostra lingua.
L’ultima generazione di scrittori possiede una coscienza sempre più matura e una ricerca della perfezione del linguaggio, unite a una profonda conoscenza dei problemi linguistici. Dari Pasé, Giusèp Gorìa sono due nomi che meritano di essere ricordati.
Oggi il piemontese classico si presenta standardizzato in “koiné”; ha una grafia unificata riconosciuta scientificamente e filologicamente; possiede una ricchissima letteratura e una prosa moderna. Ma senza i riconoscimenti ufficiali dello Stato italiano, i cui presupposti fondamentali sono già contenuti nell’Articolo 6 della Costituzione italiana e nella Carta Europea dei diritti delle Lingue regionali e minoritarie, il suo destino potrebbe già essere segnato.