“Quando anneghi non importa chi sei. Il mare ci rende tutti uguali”. In una conversazione con il Foglio di qualche giorno fa, il ministro dell’interno, Marco Minniti, ha utilizzato una formula molto dura ma molto efficace per sintetizzare la particolare condizione in cui operano nel Mediterraneo alcune organizzazione non governative: l’estremismo umanitario. Il concetto dell’estremismo umanitario, anche alla luce delle polemiche degli ultimi giorni legate al sequestro di un’imbarcazione non governativa il cui equipaggio è stato indagato per favoreggiamento di immigrazione clandestina, è un tema che merita di essere messo a fuoco perché ci permette di mettere il dito nella carne viva del dibattito sull’immigrazione e in particolare su un punto chiave che riguarda non solo le singole missioni delle ong ma anche il senso della dialettica tra le forze politiche: che cosa spinge le Organizzazioni non governative a presidiare con grande costanza le acque intemazionali che separano l’Italia dalla Libia?
La risposta quasi automatica a questa domanda – e se la vostra risposta non sarà questa non potrete che essere dei miserabili fascisti con tendenze omicide – è che le ong sono nel Mediterraneo con un unico scopo: “Salvare le vite umane”.
Il salvataggio delle vite umane è certamente l’attività principale, e nobile, di tutte le ong che si trovano nel Mediterraneo, ma il salvataggio delle vite umane non può essere capito fino in fondo se non si fa un passo indietro e non si prova a ragionare senza pregiudizi su quella che è una seconda domanda importante che ci porta rapidamente al cuore della questione: sapere che il Mediterraneo è pieno zeppo di imbarcazioni pronte a salvare vite umane è, o non è, un incentivo per i migranti a saltare sulle imbarcazioni degli scafisti che più o meno ogni giorno partono dai porti della Libia per arrivare sulle coste italiane? La risposta a questa domanda è implicitamente contenuta nella pagina di presentazione di una delle ong più importanti del Mediterraneo, la Proactiva Open Arms.org, che sul suo sito spiega bene, senza false ipocrisie, quello che accade ai migranti che partono dalla Libia. Sono poche righe, vale la pena leggerle. “I rifugiati entrano nelle imbarcazioni, che possono arrivare a trasportare tra 150 e 300 persone, con combustibile contato per venti chilometri, quanto basta per arrivare in acque internazionali. Questo tragitto può durare uno o due giorni. Giunti in acque internazionali, la loro unica opzione è abbandonarsi alla sorte. Possono solo sperare che qualcuno passi e li salvi. Nulla gli garantisce che questo accada. La disperazione è così grande che si giocano tutto su questa carta”.
In altre parole, ammette la ong, la presenza di imbarcazioni umanitarie nel Mediterraneo incoraggia i migranti e i profughi a partire dalle coste libiche, nella piena consapevolezza che una volta arrivati in acque internazionali ci sarà qualcuno che si occuperà di salvare le loro vite.
Letta sotto questa prospettiva, la dimensione della questione cambia notevolmente e il tema non può che diventare questo: non più se sia legittimo o no che le ong salvino vite umane, ma se sia legittimo oppure no che le ong contribuiscano a incentivare le partenze dei migranti. 11 ragionamento sulla bontà o meno dell’“estremismo umanitario” non c’entra nulla, dunque, né con l’idea se sia giusto o no salvare chi sta morendo in acqua né con l’idea se sia giusto o no che ci siano delle imbarcazioni che commettono reati aiutando gli scafisti.
In entrambi i casi la risposta è ovvia. Meno ovvia, invece, è la risposta a un’altra domanda che costituisce il vero non detto del dibattito politico. Una domanda che forse andrebbe esplicitata fino in fondo: una politica responsabile deve fare di tutto per incentivare l’arrivo di migranti o deve fare di tutto per disincentivare gli arrivi? La difficoltà con cui ciascuno di voi tenterà di rispondere a questa domanda è legata al fatto che il significato dell’espressione “salvare le vite umane” ha progressivamente assunto un valore differente rispetto a quello immaginario. Nella logica dell’estremismo umanitario “salvare le vite umane” non vuol dire soltanto salvare coloro che rischiano di affogare in mare. Significa qualcosa di più. Significa voler incoraggiare, e incentivare, chiunque voglia fuggire dal proprio paese a prendere il largo e a muoversi così verso un altro paese.
Non stiamo più parlando, dunque, di semplice salvataggio delle vite in mare. Stiamo parlando direttamente di un tema più grande: il salvataggio delle vite sulla terra. E in virtù di questo principio – che non può essere declinato senza ricordare che l’Europa ha 500 milioni di abitanti, mentre l’Africa un miliardo e 200 milioni – i confini diventano inevitabilmente più sfumati. Diventano sfumati quelli tracciati sulle acque che separano i due paesi (non servono più muri, come ricorda spesso Papa Francesco, ma servono più ponti). Diventano sfumati anche quelli tracciati tra i profili dei migranti. E progressivamente, lo vediamo ogni giorno tra le righe del dibattito sul tema, le differenze tra migrante economico e profugo quasi si annullano. Sono tutti rifugiati. Sono tutte vita da salvare.
Se ci fosse dunque un filo di ipocrisia in meno nell’affrontare lo scontro ideologico che esiste tra i due fronti culturali sul tema dell’immigrazione sarebbe più facile capire che il vero terreno di confronto non è, come provano a sostenere i professionisti dell’estremismo umanitario, lo scontro tra chi vuole salvare vite umane che rischiano di affogare in mare e persone che invece vogliono far affogare persone in mare.
Lo scontro, evidentemente, è tra chi chiede che la politica governi l’immigrazione disincentivando gli arrivi e tra chi chiede che la politica governi l’immigrazione incentivando gli arrivi. Non è dunque neppure un problema di numeri o di capacità organizzativa ma è un problema legato a quale schema si sceglie di adottare.
Incentivare o disincentivare? Molti osservatori in questi giorni hanno provato a capire quali sono le ragioni che si nascondono dietro l’idea di dover governare l’immigrazione, e dunque di disincentivare gli arrivi, ma in pochi si sono interrogati su cosa significa seguire in modo genuino l’idea opposta. Di solito, l’estremismo umanitario viene descritto dai suoi oppositori come se fosse una volontà implicita di voler “invadere” le nostre terre ma anche chi non ha simpatia nei confronti di coloro che provano in tutti i modi a incoraggiare le partenze dalle coste libiche dovrebbe fare un piccolo sforzo in più e chiedersi cosa ci sia dietro alla scelta di voler essere “i supplenti di chi quel lavoro lo dovrebbe fare ma non lo fa”, come hanno rivendicato in questi giorni i capi di Medici senza frontiere, che non hanno firmato il codice di autoregolamentazione delle ong.
L’estremismo umanitario non è soltanto una corrente di pensiero che punta a salvare le vite dei migranti ma è una corrente di pensiero che fa leva su un principio ancora più forte e che scommette sull’idea che salvare le vite dei migranti significhi anche permettere all’occidente di espiare le sue colpe. Da questo punto di vista, nella logica perfettamente comprensibile anche se non esplicita dell’estremismo umanitario, muoversi per salvare vite umane significa muoversi anche per fare qualcosa di concreto per ridurre le presunte diseguaglianze create dalla globalizzazione e seguendo questa logica si capisce bene perché chiunque si opponga a questo principio venga considerato come un complice di un mondo ingiusto che non fa altro che affamare i popoli più deboli.
Lo scrittore Pascal Bruckner, in un bellissimo saggio del 2008 intitolato Il singhiozzo dell’uomo bianco fotografò perfettamente il fenomeno con parole che vale la pena ricordare: “L’occidente vive ancora sotto il trauma della conquista, come se ogni piede bianco che si posa sul suolo africano fosse uno scarpone militare. Ora, non esistono mezze misure: o si predica la chiusura e si tracciano frontiere rigide, invalicabili, fra il Nord e il Sud; o si appoggia la libera circolazione degli uomini e delle idee, qualunque ne sia il prezzo. Tutto ciò che innalza, loda, celebra l’Occidente è sospettato delle peggiori infamie; in compenso, la modestia, l’umiltà, il gusto dell’autodistruzione, ciò che può spingere gli europei a eclissarsi, a rientrare nei ranghi, è onorato, salutato come altamente progressista. La regola aurea di questo masochismo è semplice: ciò che viene da noi è cattivo, ciò che viene da altri è perfetto”.
I toni di Bruckner sono evidentemente apocalittici ma ci permettono di fare un passo in avanti mettendo a fuoco un ultimo elemento utile per orientarci nel dibattito sui migranti: che conseguenze porta con sé l’idea che l’occidente peccatore debba accettare di abbattere i suoi confini per accogliere in modo indistinto e indiscriminato i più bisognosi? Le conseguenze sono molte ma forse una prevale sulle altre. La politica dell’incentivazione, chiamiamola così, coincide con la rinuncia a considerare una priorità l’esportazione dei valori democratici dell’occidente nei paesi più in difficoltà… quando invece dovrebbe essere ovvio che i migranti spesso scappano dalle proprie terre proprio perché l’occidente ha rinunciato a esportare fino in fondo il proprio modello democratico. E in questo senso la politica delle porte aperte è come un tuffo nelle acque del Giordano. Serve a espiare. Serve a farsi assolvere dai peccati. Serve a salvare le vite degli altri, sì, ma anche la propria.
“Quando anneghi”, ha scritto ieri in un intervento sul sito di Famiglia Cristiana Regina Catrambone, una delle fondatrici di una importante ong, la Moas, “non importa chi sei. Il mare ci rende tutti uguali”. Uguali, esattamente. Nella partita del voler incentivare e voler disincentivare si può dunque scegliere naturalmente da che parte stare (noi naturalmente stiamo con chi vuole disincentivare). Ma sia per chi sceglie il primo fronte sia per chi sceglie il secondo fronte più che discutere di temi fuffa (davvero è un argomento di dibattito chiedersi se sia giusto salvare chi sta affogando in mare?) occorrerebbe dire la verità. Occorrerebbe dire che in ballo non ci sono soltanto le leggi del mare ma ci sono le nostre vite e il senso che ciascuno di noi dà all’idea di considerare la nostra democrazia una colpa da espiare o un valore da esportare.
Claudio Cerasa, “il Foglio”.