Due giorni fa Angelo Panebianco ha scritto sul Corriere un editoriale per dire che non soltanto ci conviene sostenere la lotta dei curdi del cantone di Afrin ma che è anche la cosa giusta da fare. Nel commento, intitolato Il silenzio sbagliato sui curdi, in teoria è tutto condivisibilissimo: la Turchia islamizzata attacca i curdi, che hanno valorosamente combattuto contro lo Stato islamico e che trattano con dignità le donne, quindi non possiamo che intervenire per loro. In pratica però le cose non funzionano così. Prima di tutto l’offensiva turca su Afrin è soltanto un pezzetto di uno schema più ampio deciso assieme alla Russia di Putin. Non è più il dicembre 2015, quando dopo l’abbattimento di un aereo russo sul confine, Turchia e Russia vissero una stagione breve di tensione molto alta. Ora Erdogan e il cristiano Putin si fanno visita nelle rispettive capitali ogni tre mesi, decidono assieme le mosse da fare e sono partner privilegiati nei negoziati siriani di Astana, dove nessun occidentale è stato invitato come protagonista attivo e dove Russia, Iran sciita e Turchia prendono le decisioni che contano (la Russia ha appena venduto alla Turchia il suo pezzo pregiato, il sistema di difesa missilistica S-400, un sistema russo per un paese Nato, non è un affare che si sbriga in poche settimane. Quella è un’alleanza di convenienza destinata a reggere). Insomma, abbiamo appaltato l’intera soluzione del conflitto civile in Siria a Mosca e ci siamo girati dall’altra parte, ora siamo costretti ad accettare tutto il pacchetto senza poter fare troppo gli schizzinosi con le operazioni dei russi e dei loro alleati nel paese, siano essi gli iraniani al confine sud con Israele oppure i turchi a nord vicino ai curdi.
Russi e turchi avevano applicato lo stesso schema do ut des due anni fa, la Turchia s’era presa un pezzo di territorio a nord di Aleppo e il regime si era preso Aleppo. Se oggi il Cremlino pensa di risolvere la situazione nella zona di Idlib consentendo a Erdogan di prendere il cantone di Afrin, è tardi per schierarsi e rompere “il silenzio sbagliato”. Con quale voce poi? Con quali mezzi? Questo è il punto numero due. Se la Turchia all’improvviso decidesse di rompere l’intesa con la Russia (ma non lo farà) potrebbe chiudere gli occhi e far passare dal confine razzi in grado di colpire le piste dell’aeroporto militare di Hmeimim, usato dagli aerei russi. Non sono armi tecnologiche, anzi sono obsolete, ma in mano ai ribelli sarebbero devastanti. È un mero esempio per ricordare che Ankara ha argomenti solidi per farsi ascoltare in un conflitto che è ormai un mercanteggiamento continuo. Noi invece gli argomenti solidi non li vogliamo. Da anni evitiamo ogni coinvolgimento nello scenario siriano, consideriamo la Siria un territorio radioattivo, se non esistesse sarebbe tanto meglio per tutti. Un mese fa è partita un’offensiva a Idlib che ha il potenziale per creare un milione di profughi e rifiutiamo di vederla, ormai assuefatti al principio cardine che in Siria ha ragione chi vince, gli inglesi direbbero che “might makes right”. Davvero adesso pensiamo di farci ascoltare sulla questione curda? Come se potessimo fare qualcosa nel caso, probabile, che nessuno prestasse attenzione. Il silenzio sarà pure sbagliato sui curdi, ma è la vaghezza che ci ha portato qui.
Nell’editoriale non si dice che il cantone di Afrin è stato attaccato perché è l’unico fuori dall’ombrello di protezione fornito dagli aerei americani. Ieri il Pentagono ha rispedito al mittente l’intimazione da parte dei turchi a sloggiare da Manbij, città più a est, dove c’è una base di soldati americani. È improbabile insomma che la campagna di Afrin sia l’inizio di un’offensiva dilagante della Turchia. È più probabile invece che i curdi sotto pressione arriveranno a un accordo con il governo di Bashar el Assad, che è l’obiettivo finale di Mosca, come ha spiegato in modo esplicito il portavoce russo della base aerea di Hmeimim. Fra le righe dell’articolo si lascia cadere pure questo: “Si ricordi che Erdogan ebbe un ruolo nel far nascere e nel sostenere lo Stato islamico”. Sorprendente. L’esercito turco nell’agosto 2016 entrò in Siria e sradicò lo Stato islamico a nord di Aleppo con una campagna che è durata fino all’anno seguente. Quando l’Isis riuscì a catturare due soldati turchi, li bruciò vivi davanti a una telecamera. Per non menzionare gli attentati, per esempio all’aeroporto e in una discoteca di Istanbul. È vero che Ankara ha lasciato il confine troppo aperto per anni (aperto a tutti: anche ai giornalisti), ma dire che “ha sostenuto l’Isis” è un’accusa che chiede prove (peraltro, Italia e Francia stanno lavorando con la Turchia a un progetto missilistico sofisticato).
Daniele Raineri, “Il Foglio”.