Anche recentemente, percorrendo qualche stroso berico-euganeo o prealpino, mi è capitato di incrociare persone che hanno partecipato in varia forma a progetti tra le montagne pakistane. Con lo scopo ufficialmente dichiarato di “aiutarli a casa loro”.
Sorvolo sul fatto che tra i miei pur numerosi allievi di origine pakistana (corsi di alfabetizzazione per adulti di qualche anno fa) non ho mai incontrato montanari hunza o balti. Provenivano invece da aree metropolitane veramente degradate, oppure da campagne devastate periodicamente da siccità e alluvioni, stando ai loro racconti. Altre fonti mi riferivano di conflitti e persecuzioni ai danni di minoranze oppresse (beluci, azara, cristiani), e non mancava nemmeno qualcuno che aveva fatto in tempo a farsi le ossa in Afghanistan, a fianco delle guerriglia anti-russa.
Non discuto la buona fede, le buone intenzioni. D’altra parte si può essere, magari involontariamente, anche “portatori sani” di consumismo, capitalismo, mercificazione, eccetera… ossia di una forma subdola di colonialismo. Pensiamo ai fricchettoni degli anni settanta (quelli che almeno viaggiavano con l’autostop, non con l’aereo) che pur contribuirono, per quanto si sentissero alternativi al sistema, a degradare, contaminare, impestare di consumismo il Nepal.
Ma vorrei ricordare a questi turisti d’alta quota (tali sono comunque la si giri), per esempio, quanto denunciava in anni non sospetti il movimento “Society for the Protection of the Rights of the Child”, ossia che “in Pakistan è prassi comune utilizzare il lavoro minorile in diversi settori, dall’impiego leggero alle mansioni più pesanti e pericolose”. Dai tappeti, dove servono manine piccole per i nodi, ai mattoni (ricorderete Iqbal Masih). Stando ai dati forniti da sparc, “tra gli 11 e i 12 milioni di bambini, la metà dei quali sotto i 10 anni, sono sfruttati per lavoro” su tutto il territorio pakistano.
Inoltre sarebbero circa otto milioni i minori che non frequentano la scuola, in gran parte “bambini di strada” esposti a ogni genere di violenza e sfruttamento.
Oppure pensiamo alla difficile situazione delle minoranze religiose non musulmane. Fermo restando che non se la passano troppo bene neanche una parte dei musulmani, perlomeno quelli di fede sciita. Anche loro, come i cristiani, sono esposti a discriminazioni, attacchi e attentati.
Se poi appartieni, oltre che a una minoranza religiosa (per esempio sciita) anche a un gruppo etnico discriminato (per esesmpio hazara), allora le cose si complicano ulteriormente. Se poi sei anche donna…
Resto insomma del parere che costruire strade, ponti in ferro (magari dove c’erano già in stile tradizionale, in legno) o rifugi in quello che talvolta viene definito il Terzo Polo per la ricchezza di ghiacciai e nevai, sia – più che carità cristiana – un modo come un altro per farsi qualche vacanza esotica. Tutti più o meno, se non qualche prima ascensione su vette rimaste fortunosamente illibate (loro dicono “inviolate”: un lapsus?), si son fatti per lo meno dei trekking (a scopo umanitario?).
Il discorso sarebbe lungo, ma comunque mi chiedo come mai non abbiano pensato di “aiutare a casa loro” operando in qualche periferia urbana degradata invece che in località amene, salubri, paesaggisticamente e naturalisticamente ancora integre.
Addestrare future guide per incentivare il turismo, sempre a mio parere, in futuro alimenterà solo il degrado ambientale e comunque fornirà infrastrutture di intrattenimento consumista per le borghesie locali. Oltre che per gli esponenti delle forze armate, quelle che forniscono gli elicotteri agli avventurosi alpinisti spesso bisognosi di soccorso in quota. O comunque vie di comunicazione e rifugi (chiamiamoli strutture alberghiere?) a uso e consumo dei benestanti di varia provenienza. Sia occidentali che dagli Emirati.
Quando il “trekking” uccide davvero
Qualche perplessità anche in merito pozzi scavati “per fornire ai villaggi l’acqua potabile”: non siamo in Africa e finora si arrangiavano benissimo. Come è noto in altre regioni (vedi in Nepal, ma non solo) frequentate ormai da decenni dalle spedizioni alpinistiche commerciali (quasi tutte ormai), il problema dell’acqua contaminata, inquinata si è posto solo negli ultimi anni. A causa delle feci lasciate in quota da migliaia e migliaia di alpinisti. Qui si conservano “al fresco”, ma poi lentamente scendono a valle, e con le temperature più alte contaminano appunto l’acqua che fuoriesce da nevai e ghiacciai. Sarebbe il caso di verificare.
Per cui insisto. Per quanto riguarda la cosiddetta “valorizzazione” dal punto di vista alpinistico, sciistico, turistico in generale delle Terre Alte pachistane, la considero una forma di neocolonialismo (soprattutto culturale, ma non solo). Nonostante qualche scatola di medicinali data in beneficenza.
Per antitesi, ricordo che un mio cugino medico, volontario con Medici per l’Africa (di Padova), in oltre tre anni continuati di permanenza in un ospedale tra le savane del Kenya, si concesse soltanto due ascensioni, frettolose e autogestite, sui monti Kenya e Kilimangiaro. Due in tutto. A cui in anni successivi ne aggiunse una terza durante un altro periodo di volontariato.
Questo si chiama “aiutare a casa loro”, non certo qualche piccolo rattoppo umanitario tra un’escursione e una scalata.
Mi torna in mente anche un mio recente resoconto sui drammi che si registrano quotidianamente lungo il confine turco-iraniano, dove afghani in fuga – ma anche kolbar curdi – rischiano morte, ferite, assideramento, furti e torture da parte delle guardie di frontiera.
E mi vien da chiedere ai nostrani “samaritani” delle vette: mai pensato di andar a dare il cambio – almeno per un breve tratto – a qualche spallone curdo? O di portarsi in spalla qualche piccolo profugo, regalando magari anche scarpe adeguate? Come allenamento sarebbe ottimo. Attenti alle guardie turche, però.