Raramente le parole hanno reso con tale cruda evidenza il duplice grado di alienazione derivato dalla perdita della propria identità e contemporaneamente dall’identificazione dell’oppresso con la scala di valori dell’oppressore (o, se preferite, della vittima e del carnefice): gli schiavi di Haiti, in gran parte originari dal Dahomey, per indicare la fuga usavano l’espressione “rubare il proprio cadavere”. 1) Consapevoli che la condizione di schiavo corrispondeva alla morte civile, utilizzavano ancora il linguaggio dei loro padroni. Classificati dalla legge del tempo come “beni mobili”, continuavano a percepirsi come proprietà (“merce”) anche quando si ribellavano.
All’epoca la “Società mercantile dello spettacolo” era ancora in fasce, ma quasi sicuramente i situazionisti avrebbero parlato di reificazione (“cosificazione”), anche delle coscienze.
Lo schiavo in fuga versava nella stessa condizione dell’indigeno in rivolta contro il colonialismo, quello di cui parlava Frantz Fanon in Les damnés de la terre. Consapevoli entrambi che il prezzo per la loro ribellione sarebbe stato la morte. Come l’insorto, così lo schiavo fuggiasco “comincia la sua vita di uomo dalla fine; si considera come un morto in potenza”. Per inciso, Toussaint Louverture, “l’anima dell’indipendenza della prima Repubblica Nera”, ne costituisce una sintesi storicamente insuperabile.
Non deve apparire paradossale che alcuni antropologi stiano cercando di restituire dignità e storia alle vittime della tratta negriera studiando cimiteri e fosse comuni. “All’epoca della schiavitù”, mi spiegava il dottor Jean Felicien Bongolo 2) (più conosciuto come Masengo Ma Mbongolo), “le cerimonie funebri costituivano l’unico spazio in cui si poteva esprimere una sorta di ritrovata libertà”, per quanto momentanea. “La morte era il momento per gridare forte la propria liberazione, quella dell’immortalità dello spirito”.
Una ventina di anni fa, dopo una serie di cicloni che avevano colpito l’isola di Guadeloupe, numerosi scheletri umani erano apparsi sulla spiaggia di Sainte-Marguerite. In breve tempo gli archeologi individuarono centinaia di tombe risalenti a un periodo compreso tra il XVIII e il XIX secolo. L’ipotesi di aver scoperto un cimitero di schiavi d’origine africana venne confermata dallo studio dei crani. Parecchi presentavano denti con mutilazioni caratteristiche delle pratiche rituali di alcune popolazioni dell’Africa.
Finora dagli esperti dell’Institut national de recherche en archéologie préventive et anthropologue dell’università di Bordeaux sono stati riesumati più di 300 corpi – uomini, donne, bambini – su un migliaio di sepolti.
A più di un secolo e mezzo dalla definitiva abolizione della schiavitù, questo è il primo studio archeologico sistematico condotto nelle “Antille francesi”. Fino a qualche anno fa sarebbe stato una sorta di tabù, una vergogna collettiva da nascondere per i discendenti sia degli schiavi sia dei padroni. In passato analoghi ritrovamenti venivano frettolosamente sepolti e dimenticati.
Invece gli scavi di Sainte-Marguerite, considerati in ambito accademico come “l’inizio dell’archeologia dell’epoca coloniale”, vennero percepiti da buona parte della popolazione di Guadeloupe come “importanti nella ricerca della propria identità”.
Il sito in questione venne utilizzato come cimitero da numerose habitations, le piantagioni di canna da zucchero nelle Antille. Nelle sepolture sono stati individuati due diversi periodi. Il primo si esaurisce con l’abolizione della schiavitù del 1794, l’altro (dopo che nel 1802 era stata ripristinata da Napoleone Bonaparte) arriva fino all’abolizione definitiva del 1848.
Mentre nella parte più antica del cimitero i cadaveri appaiono sepolti in maniera disordinata, in quella più recente i corpi sono in genere orientati in senso est-ovest, ricoperti da abiti e con un crocefisso. Lo studio degli scheletri operato da studiosi di paleopatologia ha confermato che le condizioni di vita degli schiavi nelle piantagioni erano durissime. Sono ancora evidenti i segni dei traumi causati dalle fatiche e dalle sofferenze a cui venivano sottoposti. Tutti i corpi dimostrano meno di 30 anni e su molti soggetti di una ventina d’anni sono state riscontrate artrosi vertebrali che in genere non compaiono prima dei 50. Una generalizzata perdita dei denti, anche tra i bambini, sarebbe conseguenza della scarsa alimentazione. Per sfuggire ai morsi della fame, gli schiavi mangiavano la canna in quantità eccessiva. La combinazione di zucchero e di silice, contenuta nelle fibre, aveva effetti devastanti sulla dentatura. Diffusissima la tubercolosi ossea (“quasi al 100%” secondo gli studiosi) a causa della promiscuità e delle pessime condizioni igieniche. Non mancano i segni di maltrattamenti e torture. L’amputazione di una falange delle dita del piede andrebbe interpretata come la classica punizione per lo schiavo che tentava la fuga “rubando il proprio cadavere”.
N O T E
1) Les chasses à l’homme, di Grégoire Chamayou. Autore tra l’altro di Teoria del drone, va ricordato anche il suo articolo La guerra sarà pace che riprendeva il titolo di un appello pubblicato nel 1973 da alcuni intellettuali statunitensi impegnati nel movimento contro la guerra in Vietnam.
2) Dell’amico Masengo ma Mbongolo ho appena ritrovato in libreria la preziosa pubblicazione Le Vaudou haitiane vu avec les yeux d’un Kongo d’Afrique. Me l’aveva donata, con dedica, ancora nel 2006 quando fu ospite a casa mia. Congolese, era fuggito in Francia durante una delle fasi più brutali delle lunghe guerre che hanno insanguinato il suo Paese.
Fondatore dell’associazione culturale Malaki Ma Kongo – les racines de la culture africane, ha tenuto conferenze e lezioni sia in Francia sia in Italia e anche ad Haiti.
Il suo lavoro di ricerca sul Vaudou haitiano era stato presentato all’università La Sapienza (Roma) presso il dipartimento di Storia delle Religioni Primitive.
In questa pubblicazione ha voluto “ascoltare la parte immersa dell’iceberg della cultura tradizionale haitiana, per individuarne le radici di provenienza congolese e cercare di comprenderne il senso creolo della sua evoluzione. Occorre quindi ri-localizzare nel continente nero, l’Africa, e in particolare nello spazio geografico Kongo, i fenomeni culturali creoli (canzoni, parole, gesti, fatti e avvenimenti) della cultura tradizionale di Haiti e spiegarne lo slancio evolutivo”.
La ricerca si richiama a fatti storici autentici, spesso cancellati dalla storiografia ufficiale per giustificare la schiavitù, e rimane fondamentale per comprendere gran parte dei fenomeni socio-culturali di Haiti.
In un’altra occasione mi aveva donato una copia del volume-catalogo sul “colonialista dal volto umano” Pietro Savorgnan di Brazzà (da cui il nome di Brazzaville) a cui aveva ampiamente collaborato, in particolare con due articoli: L’origine del Congo e I Batéké e Pietro Brazzà: un’etica universale in comune”.
Sul ruolo fondamentale del Voudou per la resistenza di Toussaint-Louverure (cura delle ferite e delle malattie, cura dell’anima e del morale dei combattenti) mi fornì un’ampia documentazione che, prima o poi, dovrò decidermi a sistemare e divulgare. Ricordo anche che per un breve tempo Masengo pubblicò una pubblicazione bilingue (di cui indegnamente risultavo direttore responsabile): “Coeur d’Afrique”.